Spetta al giudice effettuare una valutazione in merito alla prevalenza della reciproca soccombenza delle parti in giudizio, al fine di stabilire la misura dell'imputazione degli oneri processuali a ciascuna di esse, in tutto o in parte.
In un giudizio avente ad oggetto l'opposizione ad un precetto di pagamento, la Corte d'Appello dichiarava inammissibile il gravame dell'opponente, in relazione ai motivi di opposizione agli atti esecutivi
Svolgimento del processo
Mediocredito Italiano S.p.A. (già Banca IntesaBci Mediocredito S.p.A.) ha intimato ad A.B. precetto di pagamento dell’importo di € 1.429.389,58, oltre accessori, quale garante delle obbligazioni gravanti sulla parte mutuataria, in virtù di un contratto di finanziamento stipulato dalla banca con la DR Fin S.p.A. (poi divenuta Fin S.r.l.).
Il B. ha proposto opposizione, ai sensi degli artt. 615 e 617 c.p.c..
L’opposizione è stata rigettata dal Tribunale di Isernia.
La Corte d’appello di Campobasso ha dichiarato inammissibile l’appello del B., in relazione ai motivi di opposizione agli atti esecutivi ai sensi dell’art. 617 c.p.c., mentre, in riforma della decisione di primo grado, ha accolto l’opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c., dichiarando insussistente il diritto della banca opposta di procedere ad esecuzione forzata nei suoi confronti, in forza del suddetto contratto di finanziamento.
Ricorre Intrum Italy S.p.A., in rappresentanza di (omissis) S.r.l. (che è subentrata nelle posizioni soggettive della banca opposta), sulla base di tre motivi.
Resiste con controricorso il B..
Il ricorso è stato trattato in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375 e 380 bis.1 c.p.c..
Le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c..
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo del ricorso si denunzia «Violazione dell’art. 474 c.p.c., e artt. 1813 e 2375 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3».
La società ricorrente contesta la decisione impugnata nella parte in cui «la corte d’appello ha ritenuto, diversamente dal primo giudice, che il contratto di mutuo posto in esecuzione non costituisca titolo esecutivo e che esso non possa essere letto congiuntamente alle distinte bancarie, in cui vi è la prova della conseguita disponibilità giuridica della somma mutuata, nonché del verbale del consiglio di amministrazione della società, terza datrice di ipoteca e fideiussione, inserita nel registro dei verbali e con vidimazione e certificazione notarile di regolare tenuta, attestante accettazione e quietanza implicita della concessione di finanziamento per l’importo massimo di € 3.500.000».
Il motivo è in parte infondato, in parte inammissibile.
1.1. La sentenza impugnata è certamente conforme, in diritto, ai principi affermati da questa Corte, secondo i quali «ai sensi dell’art. 474 c.p.c., nel caso in cui l’atto pubblico notarile (ovvero la scrittura privata autenticata) documenti un credito non ancora attuale e certo, ma solo futuro ed eventuale, benché risultino precisamente fissate le condizioni necessarie per la sua venuta ad esistenza, ai fini della sua efficacia esecutiva sarà necessario che anche i fatti successivi ed eventuali che determinano l’effettivo sorgere del credito siano documentati con atto pubblico o scrittura privata autenticata» (cfr., da ultimo: Cass., Sez. 3, Sentenza n. 41791 del 28/12/2021, Rv. 663693 – 01).
È stato in proposito chiarito (nella motivazione della decisione appena richiamata) che, già con riguardo all’originaria formulazione del n. 3 del secondo comma della disposizione di cui all’art. 474 c.p.c., non si era mai dubitato che, per assumere efficacia esecutiva, l’atto ricevuto da notaio dovesse documentare l’esistenza attuale di una obbligazione avente ad oggetto una somma di denaro e che, in mancanza di tale requisito, laddove cioè l’atto notarile documentasse esclusivamente un credito futuro ed eventuale, esso non potesse essere integrato con la semplice prova, anche se documentale, del fatto successivo generatore dell’obbligazione, occorrendo che anche quest’ultimo fosse dotato della medesima forma notarile (in continuità con una giurisprudenza risalente e costante, tra cui, proprio con riguardo al contratto di mutuo condizionato o obbligatorio, come quello di cui alla presente controversia:Cass., Sez. 1, Sentenza n. 4293 del 19/07/1979, Rv. 400808 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 477 del 18/01/1983, Rv. 425280 – 01; nello stesso senso: Cass., Sez. 3, Sentenza n. 15219 del 19/07/2005, Rv. 583283 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 17194 del 27/08/2015, Rv. 636305 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 9389 del 10/05/2016, Rv. 639901 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 6174 del 05/03/2020, Rv. 657140 – 01). È stato, altresì, precisato che non sarebbe possibile ritenere che la riformulazione dell’art. 474 c.p.c., operata nel 2005 con il solo scopo di ampliare il catalogo dei titoli esecutivi anche alle scritture private autenticate, abbia inteso anche modificare l’ambito dell’efficacia esecutiva degli atti pubblici, estendendola alle obbligazioni non risultanti direttamente dall’atto e differenziandola così da quella delle scritture private autenticate, in quanto la necessità che la certezza del credito risulti dall’atto notarile, sia esso in for- ma pubblica, sia che si tratti di semplice scrittura privata con sottoscrizioni autenticate, e non si tratti, quindi, di una obbligazione solo eventuale ed altrimenti dimostrabile, deriva dalla stessa ratio della norma, che richiede, ai fini dell’efficacia esecutiva dell’atto, la pubblica fede garantita dal pubblico ufficiale in relazione al suo contenuto, almeno per quanto attiene alla autenticità delle sottoscrizioni, con la conseguenza che tale medesima natura devono possedere tutti i documenti necessari ad attestare l’esistenza attuale del credito, affinché esso possa essere fatto valere direttamente in via esecutiva.
Agli indicati principi va data continuità.
1.2. Nel caso di specie, secondo l’insindacabile accertamento di fatto operato dai giudici del merito (accertamento peraltro oggettivamente indiscutibile, dato il tenore letterale della pattuizione e, del resto, non oggetto di specifiche censure nella presente sede), non vi è dubbio che dal contratto di finanziamento posto a base del precetto opposto, stipulato in forma pubblica notarile, non emergesse l’esistenza attuale di obbligazioni restitutorie della società finanziata, cioè delle obbligazioni oggetto della garanzia prestata dal B., in quanto l’importo del suddetto finanziamento non risultava già corrisposto, ma era oggetto di un mero impegno alla sua erogazione futura (da effettuarsi, per la quota di € 3.000.000,00, entro il termine tre giorni dalla stipulazione, senza condizioni e, per il residuo di € 500.000,00, al verificarsi di una serie di condizioni dettagliatamente specificate nel contratto). Si trattava quindi di un contratto cd. di mutuo obbligatorio e non a carattere reale, in quanto da esso non risultava l’avvenuta corresponsione della somma mutuata alla parte mutuataria, che la parte mutuante si impegnava invece ad erogare successivamente.
Di conseguenza, in base ai principi di diritto sopra esposti, deve ritenersi conforme a diritto la conclusione cui è giunta la corte territoriale, secondo cui, per valere come titolo esecutivo ai sensi dell’art. 474 c.p.c. e, quindi, essere legittimamente posto a base dell’atto di precetto, tale contratto non solo avrebbe dovuto essere integrato con la documentazione dell’avvenuta effettiva e concreta erogazione della somma oggetto del finanziamento, ma la suddetta documentazione avrebbe dovuto avere le forme previste dall’art. 474 c.p.c., cioè quelle dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata, mentre la società creditrice aveva documentato l’erogazione dell’importo promesso in mutuo con semplici attestazioni contabili bancarie, prive degli indicati requisiti di forma.
1.3. Secondo la società ricorrente, avrebbe potuto e dovuto riconoscersi valore di titolo esecutivo al contratto di finanziamento (ed alla relativa garanzia), sulla base del verbale del consiglio di amministrazione della società DR Groupe S.p.A. tenuto in data 24 giugno 2002, prodotto in copia con certificazione notarile di conformità all’originale estratto dal relativo registro societario, al quale aveva partecipato anche il B. e nel corso del quale tale società aveva deliberato di garantire (con fideiussione e concessione di ipoteca) il finanziamento per cui è causa: al suddetto verbale, secondo tale assunto, la corte d’appello avrebbe dovuto riconoscere valore equiparabile a quello di una quietanza per l’importo del finanziamento erogato.
La censura è inammissibile e, comunque, infondata.
1.3.1. In primo luogo, si tratta di una questione non presa in esame nella decisione impugnata, che richiede anche accertamenti di fatto (sia in relazione alla effettiva forma di atto pubblico del predetto verbale, sia in relazione all’interpretazione del valore della relativa deliberazione come eventuale quietanza dell’avvenuta erogazione delle somme oggetto del finanziamento, sia in relazione all’eventuale verifica del richiamo del documento nell’intimazione, quale atto integrativo del titolo posto a base dell’atto di precetto opposto): nel ricorso non è però specificamente allegato, in violazione dell’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., se, in quali atti e in quali precisi termini tale questione era stata eventualmente già avanzata nel corso del giudizio di merito (tardivi, prima ancora che essi stessi insufficientemente specifici, risultano i riferimenti ad alcuni atti difensivi del giudizio di appello, contenuti solo nella memoria depositata dalla ricorrente ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c.), il che impedisce di ritenerla ammissibile nel- la presente sede e, quindi, di esaminarla nel merito.
1.3.2. Inoltre, per quanto emerge dallo stesso ricorso, la deliberazione del consiglio di amministrazione della DR Groupe S.p.A. invocata dalla ricorrente è addirittura di data anteriore (24 giugno 2002) a quella (31 luglio 2002) del contratto di finanziamento posto a base del precetto opposto.
Orbene, poiché proprio in tale ultimo contratto si dà espressamente atto della circostanza che l’erogazione dell’importo finanziato sarebbe avvenuta solo successivamente alla stipula, è evidente che la precedente deliberazione societaria in ordine alla garanzia da prestare per l’operazione non potrebbe in nessun modo costituire una prova documentale dell’erogazione effettiva del predetto importo, trattandosi di un evento futuro; tanto meno, essa potrebbe costituire addirittura quietanza di tale erogazione.
Né può condividersi, per elementari ragioni logiche ancor prima che giuridiche, la singolare tesi della società ricorrente secondo cui la quietanza dell’erogazione di una somma potrebbe essere anche precedente alla stessa erogazione.
2. Con il secondo motivo si denunzia «Violazione degli artt. 1322 e 1936 c.c., dell’art. 474 c.p.c. in relazione all’art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c. Rinuncia ed obbligazione di pagamento a semplice richiesta. Qualificazione in termini di contratto auto- nomo di garanzia».
La società ricorrente sostiene che il contratto di finanziamento posto a base del precetto opposto avrebbe dovuto ritenersi efficace quale titolo esecutivo, in relazione alla posizione del B. quale garante, quanto meno in virtù della clausola n. 5 contenuta nel contratto stesso, da interpretarsi quale previsione di una garanzia di natura autonoma, con rinuncia a far valere eventuali eccezioni, equiparabile ad un impegno all’immediato pagamento dell’intera somma oggetto del finanziamento anche prima ed a prescindere dall’effettiva erogazione del relativo importo alla società finanziata.
Al di là della possibilità di ritenere effettivamente operativa l’obbligazione di garanzia relativa alle obbligazioni restitutorie derivanti dal contratto di finanziamento, in quanto di natura autonoma, anche prima ed a prescindere dall’effettiva erogazione del relativo importo al soggetto finanziato, si tratta anche in questo caso di censure inammissibili nella presente se- de, per motivi analoghi a quelli esposti in precedenza con riguardo alla questione del verbale del consiglio di amministrazione della società che aveva prestato garanzia per il medesimo finanziamento.
Si tratta, infatti, di una questione non presa in esame nella decisione impugnata, che implica accertamenti di fatto (anche in relazione all’interpretazione dell’effettiva volontà negoziale delle parti emergente dalla clausola invocata) e che, nel ricorso, non è specificamente allegato, in violazione dell’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., se, in quali atti e in quali precisi termini fosse stata eventualmente già avanzata nel corso del giudizio di merito.
3. Con il terzo motivo si denunzia «Violazione o falsa applica- zione di norme di diritto. Art. 360, comma I n. 3 c.p.c. in relazione agli artt. 91 e 92, II comma c.p.c.».
La società ricorrente contesta il capo della decisione relativo alla propria condanna al pagamento integrale delle spese del doppio grado di giudizio: sostiene che la propria soccombenza non avrebbe potuto ritenersi “sostanzialmente integrale”, come affermato dalla corte d’appello, essendo stati respinti (per inammissibilità o infondatezza) diversi motivi del gravame del B.; sussistendo comunque, a suo avviso, una situazione di parziale soccombenza reciproca, le spese di lite avrebbero dovuto essere almeno in parte compensate.
Il motivo è infondato.
3.1. Si premette che, ai fini della valutazione della soccombenza delle parti, essendo stata riformata la decisione di primo grado, la corte di appello ha correttamente tenuto conto dell’esito complessivo finale del giudizio, secondo i principi di diritto costantemente affermati da questa Corte (cfr. ex multis: Cass., Sez. L, Sentenza n. 11423 del 01/06/2016, Rv. 639931 – 01; Sez. 3, Ordinanza n. 9064 del 12/04/2018, Rv.
648466 – 01; Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 27056 del 06/10/2021, Rv. 662442 – 01), e non, come parrebbe pretendere la ricorrente, del solo esito dei vari motivi di gravame.
3.2. Orbene, non vi è dubbio che, nella specie, fosse da ravvisare una ipotesi di parziale reciproca soccombenza delle parti, essendo state avanzate dall’opponente diverse e autonome domande (sia perché erano stati proposti tanto motivi di opposizione all’esecuzione, ai sensi dell’art. 615 c.p.c., quanto motivi di opposizione agli atti esecutivi, ai sensi dell’art. 617 c.p.c., sia perché erano stati avanzati diversi motivi di opposizione all’esecuzione, ciascuno dei quali costituisce una domanda autonoma), di cui alcune accolte ed alcune respinte.
La corte d’appello non ha, però, affatto affermato il contrario, come si evince dalla complessiva motivazione della sentenza impugnata.
Essa ha, infatti, espressamente riconosciuto che non potesse ritenersi sussistente una situazione di formale e integrale soccombenza della società opposta in quanto, nel precisare che tale soccombenza fosse da ritenersi solo “sostanzialmente” integrale, ha, implicitamente ma inequivocabilmente, inteso affermare che, pur ricorrendo una ipotesi di soccombenza parziale reciproca, nella valutazione complessiva dell’imputabilità degli oneri processuali era da ritenersi del tutto prevalente la soccombenza dell’opposta, il che giustificava la sua condanna integrale al pagamento delle spese di lite.
3.3. Va in primo luogo ribadito, in proposito, che, ai sensi dell’art. 92, comma 2, c.p.c., in caso di reciproca soccombenza delle parti in giudizio non è imposta al giudice la compensazione delle spese di lite, tanto meno la loro compensazione integrale: la compensazione, sia integrale che parziale, come si desume dall’espresso disposto letterale della disposizione appena richiamata («se vi è soccombenza reciproca … … il giudice può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero»), è infatti solo una delle opzioni a sua disposizione (è costante, nella giurisprudenza di questa Corte, l’affermazione secondo cui l’unico limite cui è soggetto il relativo potere discrezionale del giudice di merito è quello di non poter porre, in tutto o in parte, il carico delle spese processuali in capo alla parte interamente vittoriosa; cfr., ex multis: Cass., Sez. 5, Ordinanza n. 10685 del 17/04/2019, Rv. 653541 – 01; Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 24502 del 17/10/2017, Rv. 646335 – 01; Sez. 1, Ordinanza n. 19613 del 04/08/2017, Rv. 645187 – 01; Sez. 5, Ordinanza n. 8421 del 31/03/2017, Rv. 643477 – 02; Sez. 3, Sentenza n. 25270 del 01/12/2009, Rv. 610742 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 17145 del 22/07/2009, Rv. 609130 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 406 del 11/01/2008, Rv. 601214 – 01).
L’art. 92, comma 2, c.p.c., oltre a non indicare, in caso di compensazione parziale, né la misura di tale compensazione, né quale debba essere la parte condannata a rimborsare, sia pure in parte, le spese di lite all’altra (come è del resto ovvio, trattandosi di disposizione applicabile anche in caso di domande diverse reciprocamente proposte dalle parti nei rispettivi confronti), neanche esclude la condanna di una sola parte al pagamento integrale delle spese stesse, in quanto prevede sia la compensazione integrale che quella parziale solo come possibili, ma non come obbligatorie.
In altri termini, in ipotesi di reciproca soccombenza delle parti, ai sensi dell’art. 92, comma 2, c.p.c., il giudice del merito dovrà sempre stabilire: a) se procedere o meno ad una compensazione delle spese processuali; b) in tale seconda ipotesi, se disporre una compensazione integrale o solo parziale; c) in tale ultima ipotesi: c1) in quale misura effettuare tale compensazione e: c2) quale parte condannare al pagamento del resi- duo non oggetto di compensazione.
Non potendo, naturalmente, ritenersi le indicate opzioni rimesse al totale arbitrio del giudice stesso, se ne desume che a tal fine non solo è possibile, ma è anzi necessaria e doverosa, da parte sua, di regola (e salva la possibile eventuale incidenza di altre delle ragioni che consentono la compensazione, sempre a norma dell’art. 92, comma 2, c.p.c.), una valutazione in ordine alla prevalenza della reciproca soccombenza delle parti in giudizio, al fine di stabilire la misura dell’imputazione degli oneri processuali a ciascuna di esse, in tutto o in parte.
Secondo i principi di diritto affermati in proposito da questa Corte (come di recente puntualizzati da Cass., Sez. U, Sen- tenza n. 32061 del 31/10/2022, Rv. 666063 – 01, la quale ha chiarito che «in tema di spese processuali, l’accoglimento in misura ridotta, anche sensibile, di una domanda articolata in un unico capo non dà luogo a reciproca soccombenza, configurabile esclusivamente in presenza di una pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo tra le stesse parti o in caso di parziale accoglimento di un’unica domanda articolata in più capi, e non consente quindi la condanna della parte vittoriosa al pagamento delle spese processuali in favore della parte soccombente, ma può giustificarne soltanto la compensazione totale o parziale, in presenza degli altri presupposti previsti dall’art. 92, comma 2, c.p.c.»), la predetta imputazione andrà ovviamente effettuata, come di regola, in base al principio di causalità, di cui costituisce specificazione lo stesso principio della soccombenza (cfr., ex multis, già prima del richiamato arresto delle Sezioni Unite, che lo ha confermato quale principio generale, limitandone l’applicabilità solo per il caso di accoglimento parziale dell’unica domanda articolata in unico capo: Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 21823 del 29/07/2021, Rv. 662354 – 02; Sez. 3, Sentenza n. 19456 del 15/07/2008, Rv. 604625 – 01; cfr. altresì, nel medesimo senso, la stessa sentenza della Corte Costituzionale n. 77 del 19 aprile 2018). Gli oneri processuali andranno quindi (almeno in misura prevalente) imputati alla parte che ha dato (in misura prevalente) causa alla lite, agendo o resistendo infondatamente, in relazione alle varie autonome domande o ai vari capi di domanda oggetto di decisione.
In definitiva, le spese processuali andranno in prevalenza addebitate alla parte che sarà riconosciuta come prevalentemente soccombente (di regola, e fatta sempre salva la possibile eventuale incidenza di altre delle ragioni che ne consentono la compensazione).
È appena il caso di precisare che, come già più sopra chiarito, la indicata valutazione di prevalenza della soccombenza, secondo l’ampia previsione dell’art. 92, comma 2, c.p.c., può anche giungere sino alle due ipotesi “estreme”, nel senso che, laddove il giudice non ravvisi una effettiva prevalenza nella soccombenza reciproca delle parti, disporrà la compensazione integrale delle spese di lite, mentre laddove ravvisi una prevalenza della soccombenza di una di esse talmente netta da finire per essere equivalente, nella sostanza, ad una ipotesi di soccombenza integrale, non eserciterà affatto il suo potere discrezionale di disporre alcuna compensazione, né integrale, né parziale, ma condannerà la sola parte prevalentemente soccombente a rimborsare integralmente all’altra le predette spese di lite.
È, infine, opportuno sottolineare che, dovendo la valutazione complessiva di prevalenza della soccombenza essere effettuata al fine di individuare la parte da onerare eventualmente del rimborso, in tutto o in parte, delle spese di lite (cioè degli oneri sostenuti per la difesa tecnica in giudizio, la cui entità dipende in primo luogo dal valore della controversia e dalle attività processuali svolte in concreto) in favore dell’altra, è logico che il giudice tenga adeguatamente conto anche dell’incidenza concreta ed effettiva, sugli oneri complessiva- mente sostenuti da ciascuna parte per difendersi nel giudizio, delle varie domande o dei capi di domanda che siano stati rispettivamente accolti o rigettati. È, infatti, evidente che la soccombenza in relazione ad una domanda o a un capo di domanda di minimo valore economico o che abbia, di fatto, inciso in modo minimo nello svolgimento delle attività processuali, non potrà essere considerata allo stesso modo della soccombenza in relazione ad una domanda o a un capo di domanda di valore notevolmente superiore o che abbia richiesto una attività processuale molto più impegnativa ed articolata e che, quindi, abbia determinato spese difensive molto più onerose.
3.4. La decisione impugnata risulta, in definitiva, conforme agli indicati principi.
La corte d’appello, come si è già chiarito, ha infatti ritenuto, benché formalmente non integrale, del tutto prevalente la soccombenza dell’opposta, in relazione al principio di causalità e, quindi, l’ha considerata nella sostanza equivalente ad una soccombenza integrale, come tale idonea a giustificare la sua integrale condanna al pagamento delle spese di lite, come consentito dall’art. 92, comma 2, c.p.c..
Ciò si desume agevolmente dalla complessiva motivazione della sentenza impugnata, all’esito della quale (benché a seguito di conferma del mancato accoglimento di alcuni motivi di opposizione, peraltro relativi ad aspetti in buona parte di carattere formale e, per certi versi, anche di rilievo marginale) risulta comunque totalmente accolta la principale domanda dell’opponente, tendente ad ottenere la dichiarazione di integrale inefficacia dell’atto di precetto opposto, per l’insussistenza del diritto di procedere ad esecuzione forzata della società intimante in base al titolo da essa posto a base dello stesso, con assorbimento di varie altre ulteriori doglianze.
Trattandosi di una valutazione discrezionale riservata al giudice del merito e che per giunta, nella specie, non può considerarsi affatto irragionevole o priva di una effettiva motivazione, essa non può ritenersi sindacabile nella presente sede e, comunque, appare pienamente condivisibile, a giudizio della Corte.
4. Il ricorso è rigettato.
Per le spese del giudizio di cassazione si provvede, sulla base del principio della soccombenza, come in dispositivo, con distrazione in favore del suo difensore avvocato S.C., che ha reso la prescritta dichiarazione di anticipo ai sensi dell’art. 93 c.p.c..
Non sussistono invece, a giudizio della Corte, i presupposti per la condanna della ricorrente, nella presente sede, ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c..
Deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui all’art. 13, co. 1 quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115.
P.Q.M.
La Corte:
- rigetta il ricorso;
- condanna la società ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità in favore del controricorrente, liquidandole in complessivi € 20.000,00, oltre € 200,00 per esborsi, nonché spese generali ed accessori di legge, con distrazione in favore del difensore avvocato S.C..
Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui all’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso (se dovuto e nei limiti in cui lo stesso sia dovuto), a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.