La mancata sospensione del giudizio e l'irrogazione di una sanzione nelle more del procedimento penale per gli stessi fatti che successivamente si concluda con una pronuncia di condanna non determina nullità deducibili dall'incolpato perché l'obbligo di sospensione è finalizzato ad evitare il contrasto tra il giudicato penale e la decisione disciplinare.
La vicenda trae origine dalla pronuncia delle SSUU con la quale era stato respinto il ricorso proposto dall'avvocato contro la sentenza del CNF che lo aveva condannato a 3 anni di reclusione e a 1.500,00 euro di multa per tentata estorsione ai danni di una cliente, oltre al risarcimento dei danni nei confronti della stessa.
L'avvocato propone ricorso per cassazione contro la...
Svolgimento del processo
Questa Corte a Sezioni Unite, con sentenza n. 34778/21, ha respinto, per quanto in questa sede interessa, il ricorso per cassazione proposto dall’avvocato F. M. avverso la sentenza n. 14/21 del 2 febbraio 2021 del Consiglio Nazionale Forense, con la quale era stata respinta l’impugnazione proposta dal medesimo avverso la decisione del Consiglio distrettuale di Bologna, che, a seguito di condanna a tre anni di reclusione e Euro 1.500,00 di multa per tentata estorsione, oltre il risarcimento del danno in favore della parte civile, «cui con sentenza di appello del 2015 passata in cosa giudicata (per l’inammissibilita` del ricorso in Cassazione) aveva fatto seguito dichiarazione di estinzione per prescrizione con conferma delle statuizioni civili», aveva irrogato all’avvocato M., nell’ambito del procedimento disciplinare apertosi nei suoi confronti «per aver tentato nell’esplicazione – per lo meno inizialmente – di un asserito incarico professionale di costringere P. S. a versare la somma di Euro 200.000,00 con la minaccia di diffondere fotografie che la ritraevano nuda», la sanzione della radiazione.
In particolare, queste Sezioni Unite, in motivazione, hanno respinto, per quanto qui interessa: a) il primo motivo di impugnazione - con il quale si denunciava la violazione, da parte del C.N.F., dell’art. 36, comma 6, legge n. 247 del 2012 e dell’art. 112 cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., perche´, mentre con il motivo di impugnazione si era lamentato che la legge n. 247 del 2012 dovesse trovare applicazione in base al principio «tempus regit actum», per essere stato introdotto il procedimento dopo l’entrata in vigore della medesima legge e non in base al criterio della disciplina piu` favorevole, nella motivazione della decisione, non veniva confutato il criterio indicato dall’impugnante -, rilevandosi l’insussistenza della denunciata violazione in quanto il giudice aveva scrutinato la questione oggetto di impugnazione sulla base di una ragione giuridica diversa da quella posta a base del motivo di ricorso, il che era la conferma che una pronuncia sulla censura vi era stata; b) il secondo motivo di ricorso
- attinente alla denuncia di violazione dell’art. 56, comma 1, legge n. 247 del 2012, sotto il profilo che, costituendo la prescrizione causa di estinzione dell’azione disciplinare, la normativa applicabile era quella del procedimento disciplinare, «da identificare con quella vigente al momento dell’instaurazione del procedimento, a prescindere dall’operativita` del principio del favor rei, e che pertanto, in relazione all’epoca di apertura del procedimento», doveva trovare applicazione l’art. 56 della legge n. 247, secondo cui il termine di prescrizione dell’azione disciplinare decorre dalla data di ipotizzata commissione del fatto addebitato e ha durata di sei anni - , osservandosi che l’art.56 l. 247/2012 non opera retroattivamente, a conferma dell’orientamento consolidato delle Sezioni Unite secondo cui «le sanzioni disciplinari contenute nel codice deontologico forense hanno natura amministrativa sicche´, con riferimento al regime giuridico della prescrizione, non e` applicabile lo jus superveniens, ove piu` favorevole all’incolpato, il che comporta che il punto di riferimento per l’individuazione del regime della prescrizione dell’azione disciplinare e` e resta la commissione del fatto o la cessazione della sua permanenza ed e` a quel momento, quindi, che si deve avere riguardo per stabilire la legge applicabile, salvo restando che l’apertura del procedimento disciplinare funge da atto interruttivo della prescrizione con effetti istantanei (da ultimo Cass. Sez. U. n. 19030 del 2021; n. 20383 del 2021)», e che, ai sensi dell’art.51 R.D.L. n. 1578/1933, nel caso previsto dall’art.44, in cui il procedimento disciplinare abbia luogo per fatti costituenti anche reato e per i quali sia stata iniziata l’azione penale, «l'azione disciplinare essendo collegata al fatto storico di una pronuncia penale che non sia di proscioglimento perche´ il fatto non sussiste o perche´ l'imputato non lo ha commesso, ha come oggetto lo stesso fatto per il quale e` stata formulata una imputazione, ha natura obbligatoria e non puo` essere iniziata prima che se ne sia verificato il presupposto, con la conseguenza che la prescrizione decorre dal momento in cui il diritto di punire puo` essere esercitato, e cioe` dal passaggio in giudicato della sentenza penale, costituente un fatto esterno alla condotta (Cass. sez. U. n. 1609 del 2020; n. 11367 del 2016; n. 10071 del 2011)».
Avverso la suddetta pronuncia, l’avvocato F. M. propone ricorso per cassazione, notificato il 12 maggio 2022, affidato a due motivi, nei confronti del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bologna, nonche´ del Procuratore Generale presso la Corte d’appello di Bologna, del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bologna, del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma.
Il ricorso e` stato avviato alla trattazione in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c. (come richiamato dall'art. 391-bis, comma 4, c.p.c.), con proposta del relatore di inammissibilità del ricorso, notificata alle parti ed al P.G..
Il ricorrente ha formulato reiterata istanza di discussione orale, previa revoca del provvedimento di diniego emesso a seguito di una prima richiesta, chiedendo la rimessione del giudizio alle Sezioni Unite in pubblica udienza «ai fini della composizione del contrasto giurisprudenziale» ovvero, in subordine, la rimessione alla Corte Costituzionale della questione di legittimità costituzionale in parte qua dell’art.380 bis c.p.., per contrasto con gli artt.24,primo e secondo comma, 111, primo e secondo comma, 117, primo comma,107, ultimo comma, 3, primo e secondo comma, della Costituzione, ove si ritenga che esso non preveda la possibilità di partecipazione e discussione dei difensori.
Motivi della decisione
1. Preliminarmente, l’istanza del ricorrente di discussione in pubblica udienza non può essere accolta.
Questa Corte a Sezioni Unite (Cass. n. 8984/2018) ha già chiarito che «in tema di giudizio di revocazione delle decisioni delle Sezioni Unite della S.C. da dichiararsi inammissibile, la previsione del rito camerale non partecipato come modello processuale dell'ammissibilità della revocazione, pur essendo disegnato sul calco delle regole per la sezione previste dall'art. 376, comma 1, c.p.c. nella sua interazione con le sezioni semplici e pur non essendo prevista una relazione tra esse e le Sezioni Unite, non osta a che, su sentenze ed ordinanze delle Sezioni Unite, soggette a giudizio di revocazione, possano validamente essere, per evidenti ragioni di coerenza logica e sistematica, chiamate a decidere le stesse Sezioni Unite, con il rito camerale ex art. 380 bis novellato ed art. 391 bis c.p.c..». Si è quindi affermato che il rito camerale (non partecipato) dell'ammissibilita` della revocazione, pur disegnato sul calco delle regole per la sezione prevista dall'art. 376, primo comma, cod. proc. civ. nella sua interazione con le sezioni semplici e non essendo prevista una relazione tra essa e le sezioni unite, non osta a che, su sentenze e ordinanze pronunziate da queste ultime, possano validamente essere, per evidenti ragioni di coerenza logica e sistematica, chiamate a decidere le medesime sezioni unite, sia pure col rito camerale previsto per l'ammissibilita` della revocazione, di cui al combinato disposto del novellato art. 380-bis e dell'art. 391- bis cod. proc. civ. (conf. Cass., Sez. Un., ud. 27/02/2018 n. 6336, in materia di correzione delle sentenze).
Questo principio è stato costantemente seguito da queste Sezioni Unite che hanno ritenuto di applicare il rito camerale non partecipato dettato dall’art.380 bis c.p.c. ai ricorsi per revocazione di sentenze-ordinanze emesse dalle stesse. Nel procedimento per revocazione delle sentenze di questa Corte, la fase pubblica è prevista, ai sensi del quarto comma dell’art.391 bis c.p.c., nell’evidente esigenza di speditezza e concentrazione, in funzione della ragionevole durata del processo e della tutela effettiva da assicurare alle parti interessate dal contenzioso, solo per l’ipotesi di ritenuto fumus della ammissibilità della proposta revocazione.
Ora, il principio di pubblicita` dell'udienza — di rilevanza costituzionale in quanto, seppur non esplicitato dalla Carta Fondamentale, e` connaturato ad un ordinamento democratico e previsto, tra gli altri strumenti internazionali, segnatamente dall'art. 6 CEDU — non riveste carattere assoluto e puo` essere derogato in presenza di «particolari ragioni giustificative», ove «obiettive e razionali» (Corte cost., sent. n. 80 del 2011).
La conformita` della riforma del 2016 vigente ratione temporis (D.L. n. 168/2016, convertito, con modificazioni, nella L. n. 197/2016) ai principi costituzionali e sovranazionali e` gia` stata affermata da Cass. n. 395/2017 (conf. Cass. n. 5371/2017; Cass. n. 24088/2017), secondo cui «è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale – sollevata in riferimento all’art. 24 Cost. – dell’art. 380- bis c.p.c. (nel testo introdotto dal d.l. n. 168 del 2016, conv., con modif., dalla l. n. 197 del 2016), costituendo non irragionevole esercizio del potere legislativo di conformazione degli istituti processuali la scelta di assicurare un contraddittorio solo cartolare alla decisione, in sede di legittimità, di questioni prive di rilievo nomofilattico, all’esito di una mera proposta di trattazione camerale da parte del consigliere relatore che, in quanto semplice ipotesi di esito decisorio, non è vincolante per il collegio, il quale, pertanto, ove intenda porre a base della decisione una questione rilevata d’ufficio, può ripristinare l’interlocuzione delle parti secondo il paradigma dell’art. 384, comma 3, c.p.c., deponendo in tal senso una interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata dello stesso art. 380-bis c.p.c.», alla cui ampia motivazione puo` qui bastare un integrale richiamo, solo specificandosi che, in base alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'Uomo ivi richiamata, la procedura oggi regolata dall'art. 380-bis cod. proc. civ. rientra de plano nelle eccezioni alla regola, altrimenti generale, della necessita` della pubblica udienza.
La Corte EDU ha avuto modo, invero, piu` volte di chiarire che l’art. 6 della CEDU – tra l’altro non applicabile alla fase rescindente delle procedure di revocazione, v. Bochan c. Ukraine (n. 2) [GC], 5 febbraio 2015, §§ 44-45 – risulta rispettato anche laddove «il ricorrente» non possa essere sentito di persona dinanzi al giudice di legittimità, attesa la particolartà del rito, concernente esclusivamente questioni di diritto e non nuovi accertamenti in fatto (Miller c. Suède, 2005, § 30), ovvero laddove l’udienza sia stata comunque tenuta «en première instance» (Helmers c. Suède, 1991, § 36, et, a contrario, §§ 38-39; Salomonsson c. Suède, 2002, § 36).
Nessuna compromissione al diritto di difesa è poi data alle parti, in quanto, ove il ricorso per cassazione sia stato avviato alla definizione in camera di consiglio non partecipata, secondo il novellato art. 380 bis cod. proc. civ., le parti hanno comunque facoltà di depositare la memoria scritta prevista dal secondo comma di tale norma (cfr. in termini Cass. Sez.Un. n. 2610/2021) .
Neppure è ravvisabile un contrasto giurisprudenziale tra pronunce delle Sezioni semplici, in quanto i precedenti citati dal ricorrente nell’istanza (Cass. n. 7541/2019 e n. 2720/2020) attengono a procedimenti di ricusazione del giudice.
Anche nelle ipotesi in cui si è ammessa (Cass. SS.UU. n. 14437/2018) la rimessione di una causa alla pubblica udienza dall'adunanza camerale prevista nell'art. 380-bis.1, c.p.c., in applicazione analogica del comma 3 dell'art. 380 bisc.p.c., si è comunque evidenziato che «la valutazione della ricorrenza degli estremi per la trattazione del ricorso in pubblica udienza, cioe` della particolare rilevanza della questione di diritto coinvolta, rimane ampiamente discrezionale e rimessa al Collegio giudicante».
Ragioni queste che, nella specie, non si ravvisano.
Dalle considerazioni tutte sopra esresse, ne deriva la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata in memoria dal ricorrente.
2. Tanto premesso, il ricorrente lamenta, con il primo motivo, l’errore di fatto consistito nel non avere questa Corte pronunciato sulla censura, perché non percepita, contenuta nel secondo motivo del ricorso per cassazione dell’incolpato, relativa alla violazione di legge commessa in sede di merito in ragione dell’individuazione delle disposizioni applicabili in materia di prescrizione secondo il tempo di apertura del procedimento disciplinare (criterio del tempus regit actum), essendo stato aperto il procedimento disciplinare, a fronte di una supposta commissione di fatti risalente al dicembre 2005, nel marzo 2014, dopo l’entrata in vigore della Riforma del 2012, avendo invece le Sezioni Unite pronunciato «su una diversa censura supposta per errore di percezione ma mai proposta, relativa a violazione di legge per omessa applicazione del criterio di retroattività dello ius novum in base al principio del favor rei», con errore percettivo su fatto non contestato e decisivo, che avrebbe portato all’accoglimento del motivo, stante il maturarsi della prescrizione dell’illecito disciplinare, per essere decorsi oltre sei anni dal fatto.
3. La censura è inammissibile.
Invero, l'errore revocatorio, previsto dall'art. 395, n. 4, cod. proc. civ., non può riguardare la violazione o falsa applicazione di norme giuridiche, ma deve consistere in un errore di percezione e deve avere rilevanza decisiva, oltre a rivestire i caratteri dell'assoluta evidenza e della rilevabilità sulla scorta del mero raffronto tra la sentenza impugnata e gli atti o documenti del giudizio, senza che si debba, perciò, ricorrere all'utilizzazione di argomentazioni induttive o a particolari indagini che impongano una ricostruzione interpretativa degli atti medesimi.
Questa Corte (Cass.17443/2008) ha chiarito che «l'errore di fatto, quale motivo di revocazione della sentenza ai sensi dell'art. 395, richiamato per le sentenze della Corte di cassazione dall'art. 391-bis cod. proc. civ., deve consistere in una falsa percezione di quanto emerge dagli atti sottoposti al suo giudizio, concretatasi in una svista materiale su circostanze decisive, emergenti direttamente dagli atti con carattere di assoluta immediatezza e di semplice e concreta rilevabilità, con esclusione di ogni apprezzamento in ordine alla valutazione in diritto delle risultanze processuali».
Questa Corte (Cass.10466/2011) ha altresì precisato che «in tema di revocazione delle sentenze della Corte di Cassazione configurabile solo nelle ipotesi in cui essa sia giudice del fatto ed incorra in errore meramente percettivo non può ritenersi inficiata da errore di fatto la sentenza della quale si censuri la valutazione di uno dei motivi del ricorso ritenendo che sia stata espressa senza considerare le argomentazioni contenute nell'atto d'impugnazione, perché in tal caso è dedotta un'errata considerazione e interpretazione dell'oggetto di ricorso»; deve escludersi che un motivo di ricorso sia suscettibile di essere considerato alla stregua di un «fatto» ai sensi dell'art. 395, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., potendo configurare l'eventuale omessa od errata pronunzia soltanto un «error in procedendo» ovvero «in iudicando», di per sé insuscettibili di denuncia ai sensi dell'art. 391 bis cod. proc. civ. (Cass. 7064 del 2002, la quale ha appunto escluso la configurabilità di un errore revocatorio nel caso di pretesa errata valutazione ed interpretazione dei motivi del ricorso per cassazione; Cass. 6198 del 2005; Cass. 24856/2006; Cass.5221/2009; Cass. 14937/2017; Cass. 20635/2017; Cass. 17179/2020).
Con riferimento alle sentenze emesse da questa Corte, l'errore di fatto idoneo a costituire il vizio revocatorio previsto dall'art. 395 n. 4 cod. proc. civ., oltre a consistere in una errata percezione del fatto, in una svista di carattere materiale, oggettivamente e immediatamente rilevabile e tale da aver indotto il giudice a supporre la esistenza di un fatto la cui verità era esclusa in modo incontrovertibile, oppure a considerare inesistente un fatto accertato in modo parimenti indiscutibile, a essere decisivo, nel senso che, se non vi fosse stato, la decisione sarebbe stata diversa, a non dover cadere su di un punto controverso sul quale la Corte si sia pronunciata, a presentare i caratteri della evidenza e della obiettività, sì da non richiedere, per essere apprezzato, lo sviluppo di argomentazioni induttive e di indagini ermeneutiche, deve «riguardare gli atti interni, cioè quelli che la Corte esamina direttamente, con propria autonoma indagine di fatto, nell'ambito dei motivi di ricorso e delle questioni rilevabili d'ufficio, e avere quindi carattere autonomo, nel senso di incidere direttamente ed esclusivamente sulla sentenza della S.C., perché, se invece l'errore è stato causa determinante della decisione di merito, in relazione ad atti o documenti che ai fini della stessa sono stati o avrebbero dovuto essere esaminati, il vizio che inficia la sentenza dà adito agli specifici mezzi di impugnazione esperibili contro le sentenze di merito» (Cass. 8295/2005; Cass. 26643/2018).
Sempre questa Corte a Sezioni Unite (Cass. n. 31032/2019) ha affermato che «L'impugnazione per revocazione delle sentenze della Corte di cassazione è ammessa nell'ipotesi di errore compiuto nella lettura degli atti interni al giudizio di legittimità, errore che presuppone l'esistenza di divergenti rappresentazioni dello stesso oggetto, emergenti una dalla sentenza e l'altra dagli atti e documenti di causa; pertanto, è esperibile, ai sensi degli artt. 391-bis e 395, comma 1, n. 4, c.p.c., la revocazione per l'errore di fatto in cui sia incorso il giudice di legittimità che non abbia deciso su uno o più motivi di ricorso, ma deve escludersi il vizio revocatorio tutte volte che la pronunzia sul motivo sia effettivamente intervenuta, anche se con motivazione che non abbia preso specificamente in esame alcune delle argomentazioni svolte come motivi di censura del punto, perché in tal caso è dedotto non già un errore di fatto (quale svista percettiva immediatamente percepibile), bensì un'errata considerazione e interpretazione dell'oggetto di ricorso e, quindi, un errore di giudizio».
Ora, nella specie, non sussiste la denunciata mancata pronuncia su motivo di ricorso effettivamente formulato, vale a dire sul criterio di determinazione della normativa applicabile in materia di prescrizione, in ragione della rilevanza del momento di apertura del procedimento anziché di quello della commissione del fatto, segnatamente con riguardo al supposto illecito costituente reato.
Questa Corte, nella sentenza qui impugnata, aveva infatti già respinto il primo motivo del ricorso del M., con il quale si denunciava un vizio di mancata pronuncia, in violazione dell’art.112 c.p.c., perche´ nella decisione impugnata del C.N.F. non era stato confutato, ai fini dell’applicazione della disciplina sulla prescrizione dettata dalla Riforma del 2012, il criterio indicato in ricorso del tempus regit actum, osservando che «il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, fissato dall'art. 112 cod. proc. civ. - che implica il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene non richiesto o comunque di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda – non e` violato se il giudice rende la pronuncia in base all'applicazione di una norma giuridica diversa da quella invocata dall'istante in quanto il vizio in discorso riguarda soltanto l'ambito oggettivo della pronuncia, e non anche le ragioni di diritto e di fatto assunte a sostegno della decisione (ex multis da ultimo Cass n. 1616 del 2021)».
Nell’esaminare il secondo motivo (che risultava ben individuato, essendosi rilevato che il ricorrente denunciava come, sulla prescrizione, la «normativa applicabile e` quella del procedimento disciplinare, da identificare con quella vigente al momento dell’instaurazione del procedimento, a prescindere dall’operativita` del principio del favor rei»), questa Corte lo ha ritenuto infondato, in quanto «il punto di riferimento per l’individuazione del regime della prescrizione dell’azione disciplinare e` e resta la commissione del fatto o la cessazione della sua permanenza ed e` a quel momento, quindi, che si deve avere riguardo per stabilire la legge applicabile, salvo restando che l’apertura del procedimento disciplinare funge da atto interruttivo della prescrizione con effetti istantanei», con conseguente applicazione del regime di prescrizione dettato dall’art.51 R.D.L. n. 1578/1933.
4. Con il secondo motivo, si lamenta l’errore di fatto, di percezione, conseguente al mancato rilievo di circostanza che avrebbe dovuto condurre alla declaratoria della nullita` assoluta, rilevabile d’ufficio e in ogni stato e grado, del procedimento disciplinare, essendo incontroverso che lo stesso fosse stato instaurato e proseguito prima della formazione del giudicato penale (avvenuta nel 2016, a seguito del pronunciamento della Corte di Cassazione, sull’inammissibilità del ricorso proposto avverso sentenza penale di merito).
5. Anche tale censura è inammissibile.
Vero è che, in tema di revocazione di sentenze della Corte di cassazione, «l'omessa percezione di questioni sulle quali il giudice d'appello non si è pronunciato in quanto ritenute, anche implicitamente, assorbite configura un errore di fatto denunciabile ex art. 395, n. 4, c.p.c., senza che rilevi, ai fini della sua decisività, l'eventuale omessa riproposizione in sede di legittimità della questione assorbita, su cui non si forma giudicato implicito, atteso che può essere riproposta e decisa nel giudizio di rinvio» (Cass. 26479/2016; Cass. 23502/2018; Cass. 1897/2022).
Tuttavia, nella specie, non ricorre un’ipotesi di errore percettivo per mancato rilievo da parte di questa Corte di una nullità assoluta rilevabile d’ufficio del procedimento disciplinare.
Questa Corte a Sezioni Unite (Cass. n. 14985/2005; Cass. n. 10071/2011; Cass. n. 1609/2020) ha, invero, affermato il seguente principio di diritto: «Agli effetti della prescrizione dell'azione disciplinare di cui all'art. 51 del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, recante l'ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore, occorre distinguere il caso, previsto dall'art. 38, in cui il procedimento disciplinare tragga origine da fatti punibili solo in tale sede, in quanto violino esclusivamente i doveri di probità, correttezza e dirittura professionale, dal caso, previsto dall'art. 44, in cui il procedimento disciplinare abbia luogo per fatti costituenti anche reato e per i quali sia stata iniziata l'azione penale. Nel primo caso, in cui l'azione disciplinare è collegata ad ipotesi generiche ed a fatti anche atipici, il termine prescrizionale comincia a decorrere dalla commissione del fatto; nel secondo, invece, l'azione disciplinare è collegata al fatto storico di una pronuncia penale che non sia di proscioglimento perché il fatto non sussiste o perché l'imputato non lo ha commesso, ha come oggetto lo stesso fatto per il quale è stata formulata una imputazione, ha natura obbligatoria e non può essere iniziata prima che se ne sia verificato il presupposto, con la conseguenza che la prescrizione decorre dal momento in cui il diritto di punire può essere esercitato, e cioè dal passaggio in giudicato della sentenza penale, costituente un fatto esterno alla condotta». Nella motivazione della pronuncia del 2011, si è chiarito, con riguardo al caso, previsto dall'art. 44 R.D.L. 1578/1933, in cui il procedimento disciplinare abbia luogo per fatti costituenti anche reato e per i quali sia stata iniziata l'azione penale, che l'azione disciplinare, collegata al fatto storico di una pronuncia penale che non sia di proscioglimento perché il fatto non sussiste o perché l'imputato non lo ha commesso, «ha come oggetto lo stesso fatto per il quale è stata formulata una imputazione, ha natura obbligatoria e non può essere iniziata prima che se ne sia verificato il presupposto, con la conseguenza che la prescrizione decorre dal momento in cui il diritto di punire può essere esercitato, e cioè dal passaggio in giudicato della sentenza penale, costituente un fatto esterno alla condotta», cosicché resta «irrilevante, secondo la disciplina dell'art. 44, il periodo decorso dalla commissione del fatto all'instaurazione del procedimento penale, anche se in tale periodo il Consiglio dell'Ordine, venuto a conoscenza del fatto, abbia avviato il procedimento disciplinare, per poi sospenderlo di fronte all'avvenuto inizio dell'azione penale» e «l’'indicata disciplina non è mutata per effetto dell'art. 653 (nuovo) c.p.p., ne' è incisa dalla L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 2 (nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi) (Sez. Un., 15 luglio 2005, n. 14985; 10 novembre 2006, n. 24093). Alla luce di siffatto principio appare assolutamente irrilevante ogni discussione sul tempo trascorso tra commissione del fatto e instaurazione del procedimento disciplinare e sulla eventuale sospensione deliberata (come è avvenuto nel caso di specie) per il procedimento disciplinare che sia stato eventualmente avviato».
Con la sentenza n. 14629/2003, è stato esaminato il problema della sospensione del procedimento disciplinare in presenza di un processo penale instaurato per lo stesso fatto, affermandosi che « in materia di sospensione del procedimento amministrativo disciplinare degli avvocati e di prescrizione dell'azione disciplinare, non è prevista la sospensione necessaria del procedimento, in attesa della definizione del processo penale promosso per gli stessi fatti nei confronti del professionista, con il conseguente effetto interruttivo permanente dei termini, fino al passaggio in giudicato della sentenza penale, ai sensi dell'art. 298 c.p.c. e 159, sec. comma c.p.. In base all'art. 295 c.p.c., a seguito dell'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, infatti, la sospensione è necessaria soltanto quando la previa definizione dell'altra controversia (quella penale) sia imposta da un'espressa previsione di legge ovvero quando la sua decisione, per il suo carattere pregiudiziale, costituisca l'indispensabile presupposto logico-giuridico dal quale dipende la decisione della causa pregiudicata ed il cui accertamento sia richiesto con efficacia di giudicato: ragioni entrambe escluse nel caso di specie. Pertanto la natura facoltativa della sospensione del procedimento disciplinare, in applicazione della regola della sua pronta definizione, può determinare solo una interruzione, con effetti istantanei, del termine quinquennale di prescrizione dell'azione disciplinare, di cui all'art. 51 R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578».
Sempre questa Corte (Cass. Sez. Un. n. 5995/2012) ha poi chiarito che «in tema di procedimento disciplinare nei confronti di avvocati, la mancata sospensione del giudizio e l'irrogazione di una sanzione in pendenza di procedimento penale per i medesimi fatti che successivamente si concluda con una pronuncia di condanna non determina nullità deducibili dall'incolpato, poiché l'obbligo di sospensione si impone proprio per evitare il contrasto tra il giudicato penale e la decisione disciplinare». In motivazione, si è rilevato che pur essendo vero che, in tema di procedimento disciplinare nei confronti di avvocati, qualora l'addebito abbia ad oggetto gli stessi fatti contestati in sede penale, si impone la sospensione del giudizio disciplinare, anche nella fase amministrativa, in pendenza del procedimento penale, ai sensi dell'art. 295 c.p.c., in quanto, per effetto della modifica dell'art. 653 c.p.p., operata dalla L. n. 97 del 2001, art. 1, (norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche), l'efficacia di giudicato - nel giudizio disciplinare - della sentenza penale di assoluzione non è più limitata a quella dibattimentale ed è stata estesa, oltre alle ipotesi di assoluzione perché «il fatto non sussiste» e «l'imputato non l'ha commesso», a quella del «fatto non costituisce reato», cosicché dalla definizione del procedimento penale può dipendere la decisione del procedimento disciplinare, ma, nella specie, la mancata sospensione non poteva essere lamentata dall'avvocato che fosse stato condannato in sede penale, in quanto la definizione del procedimento penale, già avvenuta, non aveva comportato nessun contrasto tra il giudicato penale e la sentenza disciplinare.
Orbene, nella specie, risulta, dalla stessa sentenza impugnata (pag. 3 premessa in fatto) di questa Corte, che il procedimento disciplinare per fatti per i quali era stata iniziata l’azione penale era stato intrapreso «prima del giudicato penale» e vi era stata interruzione della prescrizione «grazie agli altri atti propulsivi del procedimento».
In sostanza, il procedimento disciplinare, iniziato prima del formarsi del giudicato penale, aveva subito sospensioni e riattivazioni.
Ora, fermo restando che il termine iniziale resta fissato nel momento a partire dal quale l'azione puo` essere esercitata, coincidente, nelle ipotesi di illecito costituente anche reato, con il momento del passaggio in giudicato della sentenza penale, il presente ricorso per cassazione non afferma che l'azione disciplinare (iniziata pacificamente prima del 2016, epoca di formazione del giudicato penale) sia, invece, in concreto proseguita pur dovendo essere sospesa, ai fini della invalidita` degli atti del procedimento disciplinare compiuti, a dispetto della necessaria sospensione del medesimo.
Non essendo, quindi, ravvisabile la asserita nullità del procedimento disciplinare, non ricorre l’errore revocatorio consisistente nella mancata percezione della questione rilevabile d’ufficio.
6. Per tutto quanto sopra esposto, va dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione. Non v’e` luogo a provvedere sulle spese processuali non avendo la parte intimata svolto attività difensiva.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Ai sensi dell’art.13, comma 1 quater del DPR 115/2002, da` atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, a norma del comma 1 bis dello stesso art.13.