Risposta affermativa dalla Cassazione, la quale indica le condizioni che devono sussistere per procedere in tal senso.
L'attuale ricorrente adiva il Tribunale di Trieste al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti per essere stato sottoposto ad un trattamento sanitario obbligatorio. Nello specifico, era stato attivato il TSO al ricorrente, affetto da un disturbo delirante cronico in fase di scompenso, dopo che egli aveva ripetutamente rifiutato gli...
Svolgimento del processo
1. Primo giudizio. Il signor S.B. conveniva m giudizio, innanzi al Tribunale di Trieste, l'A.S.S (omissis) e il ,Ministero dell'Interno, per sentirli condannare al risarcimento dei danni subiti per essere stato sottoposto ad un Trattamento sanitario obbligatorio.
L'attore deduceva che il 1'11 settembre 2001 si era recato presso il Centro di Salute Mentale di Udine per ritirare copia di una propria cartella clinica. In tale occasione, veniva trattenuto presso i locali della struttura, anche mediante l'ausilio della forza pubblica, per la sottoposizione ad un trattamento sanitario obbligatorio. Tale trattamento, proposto dalla dottoressa M.C. e convalidato dalla dottoressa M.B., era stato ordinato dal Sindaco del Comune di Udine nella sua qualità di Ufficiale di Governo, e il relativo provvedimento era stato convalidato, in data 13 settembre 2001, dal giudice tutelare di Udine.
Il trattamento sanitario obbligatorio si era reso necessario in conseguenza
della manifestazione, da parte del signor B., di un disturbo delirante cronico in fase di scompenso, nonostante il ricorrente non avesse inizialmente accettato gli interventi terapeutici proposti. Peraltro, dopo 16 giorni di trattamento, in data 27 settembre 2001, il paziente dichiarava di accettare volontariamente la prosecuzione dei trattamenti terapeutici.
Il Tribunale di Udine, dichiarato il difetto di legittimazione nei confronti del Comune di Udine, respinse la domanda proposta nei confronti dell'A.S.S. (omissis).
1.2. Secondo giudizio. A distanza di 10 anni circa dall'evento, sono stati convenuti in giudizio per il risarcimento dei danni derivanti da responsabilità contrattuale, sempre innanzi al Tribunale di Trieste e per i medesimi fatti, l'A.S.S. (omissis) e il Ministero dell'Interno.
Il Tribunale di Trieste, con la sentenza n. 655/2016, rigettò la domanda proposta net confronti del Ministero dell'Interno ritenendo impredicabile, nella specie, qualsiasi ipotesi di contatto sociale che giustificasse la proposizione di una richiesta risarcitoria a titolo di responsabilità contrattuale; quanto alla posizione dell'azienda Sanitaria Universitaria Integrata di Udine, ritenuto, per converso, configurabile la fattispecie del contatto sociale tra paziente e Struttura, la domanda fu respinta nel merito per difetto di prova.
2. Avverso tale sentenza il B. ha proposto appello, insistendo sulle argomentazioni già dedotte in primo grado e dolendosi che il Tribunale avesse rigettato la domanda di danno da mancato consenso informato perché non proposta in primo grado. Il Ministero dell'Interno si è costituito reiterando l'eccezione di difetto di legittimazione passiva atteso che, ai sensi dell'articolo 33 comma 3 della legge 23 dicembre 1978 numero 833, i trattamenti sanitari obbligatori sono disposti con provvedimento del Sindaco nella sua qualità di Autorità Sanitaria, su proposta motivata di un medico, con conseguente legittimazione passiva esclusiva del Servizio Sanitario.
2.1. La Corte d'appello, rilevata la tardività della domanda sul danno da mancanza del consenso informato, ha respinto nel mento l'impugnazione, ritenendo assorbita ogni altra questione sollevata dal Ministero in tema di contatto sociale.
3. Avverso tale sentenza S.B. propone ricorso sulla base di due motivi.
4. Resistono con controricorso il Ministero dell'Interno e l'Azienda Sanitaria Universitaria Integrata di Udine.
Motivi della decisione
4.1. Con il primo motivo di ricorso, parte ricorrente lamenta "la violazione dell'art. 163 c.p.c. in relazione all'art. 360 n.3 del c.p.c. per avere il giudice d'appello errato nel ritenere tardiva la richiesta risarcitoria relativa al difetto di consenso informato".
4.2. Con il secondo motivo di ricorso, si lamenta "la violazione dell'art. 2697 c.c. in relazione all'art. 360 n. 3 del c.p.c. per avere il giudice d'appello errato nel ritenere genericamente evocato il danno, come tale non riscontrabile in re ipsa".
5. Il ricorso pone, preliminarmente, una questione di ammissibilità per violazione dell'art. 366 n. 3 cod. proc. civ., in quanto l'esposizione del fatto in esso contenuta non risulta del tutto conforme ai criteri normativamente richiesti, per come interpretati dalla giurisprudenza di questa Corte.
La esposizione sommaria dei fatti, prescritta a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione dall'art. 366, primo comma n. 3, cod. proc. civ., e considerata dalla norma come uno specifico requisito di contenuto forma del ricorso, deve consistere, infatti, in una rappresentazione, sintetica ma esaustiva, funzionale a consentire alla Corte di cassazione una chiara e completa cognizione tanto del fatto sostanziale che ha originato la controversia, quanto di quello processuale, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti in suo possesso, compresa la stessa sentenza impugnata (Cass. sez. un. n. 11653 del 2006). La prescrizione del requisito in parola non risponde ad un'esigenza di mero formalismo, ma a quella di consentire una conoscenza chiara e completa dei fatti di causa, sostanziali e processuali, che permetta di bene intendere il significato e la portata delle censure rivolte al provvedimento impugnato (Cass. sez. un. n. 2602 del 2003).
Il ricorso, nell'esposizione del fatto, si pone ai limiti dell'ammissibilità, sub specie del rispetto di tali contenuti.
5.1. Procedendo, purtuttavia, allo scrutino nel merito dei due motivi di ricorso, entrambi risultano infondati per le ragioni che seguono.
Questa Corte, con la sentenza n. 7248/2018 - successivamente confermata, tra le altre, dalle pronunce n. 28985/ 2019, n. 9706/ 2020 e n. 24471 /2020 - ha affermato i seguenti principi (cui il collegio intende dare seguito) in tema di consenso informato: 1) la manifestazione del consenso del paziente alla prestazione sanitaria costituisce esercizio del diritto fondamentale all'autodeterminazione in ordine al trattamento medico propostogli e, in quanto diritto autonomo e distinto dal diritto alla salute, trova fondamento diretto nei principi degli artt. 2, 13 e 32, comma 2, Cost.; 2) sebbene l'inadempimento dell'obbligo di acquisire il consenso informato del paziente sia autonomo rispetto a quello inerente al trattamento terapeutico (comportando la violazione dei distinti diritti alla libertà di autodeterminazione e alla salute), in ragione dell'unitarietà del rapporto giuridico tra medico e paziente - che si articola in plurime obbligazioni tra loro connesse e strumentali al perseguimento della cura o del risanamento del soggetto - non può affermarsi una assoluta autonomia dei due illeciti tale da escludere ogni interferenza tra gli stessi nella produzione del medesimo danno; è possibile, invece, che anche l'inadempimento dell'obbligazione relativa alla corretta informazione sui rischi e benefici della terapia si inserisca tra i fattori "concorrenti" della serie causale determinativa del pregiudizio alla salute, dovendo quindi riconoscersi all'omissione del medico una astratta capacità plurioffensiva, potenzialmente idonea a ledere due diversi interessi sostanziali, entrambi suscettibili di risarcimento qualora sia fornita la prova che dalla lesione di ciascuno di essi siano derivate specifiche conseguenze dannose; 3) qualora venga allegato e provato, come conseguenza della mancata acquisizione del consenso informato, unicamente un danno biologico, ai fini dell'individuazione della causa "immediata" e "diretta" (ex art. 1223 c.c.) di tale danno-conseguenza, occorre accertare, mediante giudizio controfattuale, quale sarebbe stata la scelta del paziente ove correttamente informato, atteso che, se egli avesse comunque prestato senza riserve il consenso a quel tipo di intervento, la conseguenza dannosa si sarebbe dovuta imputare esclusivamente alla lesione del diritto alla salute, se determinata dalla errata esecuzione della prestazione professionale; mentre, se egli avrebbe negato il consenso, il danno biologico scaturente dalla inesatta esecuzione della prestazione sanitaria sarebbe riferibile "ab origine" alla violazione dell'obbligo informativo, e concorrerebbe, unitamente all'errore relativo alla prestazione sanitaria, alla sequenza causale produttiva della lesione della salute quale danno conseguenza; 4) le conseguenze dannose che derivino, secondo un nesso di regolarità causale, dalla lesione del diritto all'autodeterminazione, verificatasi in seguito ad un atto terapeutico eseguito senza la preventiva informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli, e dunque senza un consenso legittimamente prestato, devono essere debitamente allegate dal paziente, sul quale grava l'onere di provare il fatto positivo del rifiuto che egli avrebbe opposto al medico, tenuto conto che il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla sua scelta soggettiva (criterio della cd. vicinanza della prova), essendo il discostamento dalle indicazioni terapeutiche del medico eventualità non rientrante nell'id quod plemmque accidit (Cass. 2847/2010 e successive conformi): al riguardo, la prova può essere fornita con ogni mezzo, ivi compresi il notorio, le massime di esperienza e le presunzioni, non essendo configurabile, nell'attuale sistema della responsabilità civile, un danno risarcibile in re ipsa - nella specie, derivante esclusivamente dall'omessa informazione.
Pertanto, i confini entro cui ci si deve muovere ai fini del risarcimento in tema di consenso informato, con riferimento al caso di specie, sono i seguenti: a) nell'ipotesi di omessa o insufficiente informazione riguardante un intervento che non abbia cagionato danno alla salute del paziente e al quale egli avrebbe comunque scelto di sottoporsi, nessun risarcimento sarà dovuto; b) nell'ipotesi di omissione o inadeguatezza informativa che non abbia cagionato danno alla salute del paziente ma che gli ha impedito tuttavia di accedere a più accurati e attendibili accertamenti, il danno da lesione del diritto, costituzionalmente tutelato, all'autodeterminazione sarà risarcibile qualora il paziente alleghi che dalla omessa informazione siano comunque derivate conseguenze dannose, di natura non patrimoniale, in termini di sofferenza soggettiva e di contrazione della libertà di disporre di sé, in termini psichici e fisici.
In termini sostanzialmente analoghi si è sottolineato che "il diritto al consenso informato del paziente, in quanto diritto irretrattabile della persona, va comunque e sempre rispettato dal sanitario, a meno che non ricorrano casi di urgenza" (purché questi si profilino, comunque, "a seguito di un intervento concordato e programmato, per il quale sia stato richiesto ed ottenuto il consenso", e siano inoltre "tali da porre in gravissimo pericolo la vita della persona"), ovvero che non "si tratti di trattamento sanitario obbligatorio".
5.2. Osserva il collegio come l'ospedalizzazione in regime di trattamento sanitario obbligatorio (l'SO) per un disturbo mentale costituisce un evento intriso di problematicità, essendo associata ad una presumibile condizione di incapacità del paziente a prestare un valido consenso. Nonostante, dal punto di vista normativo, un paziente sia considerato, secondo una visione dicotomica, capace oppure incapace, la realtà clinica suggerisce che possano esistere degli spazi di autonomia e libertà decisionale residui anche in pazienti sottoposti a TSO.
Un approccio di tipo multidimensionale, basato sulla valutazione, nel singolo paziente, della capacità a prestare consenso (menta/ capacity), costituisce un possibile terreno sul quale ricostruire, all'interno della relazione medico-paziente, un percorso di ripristino della capacità di prestare consenso alle cure.
Esistono tuttavia alcune condizioni nelle quali si può prescindere dal consenso del paziente e tra queste, appunto, ci sono le quelle previste dagli artt. 34 e 35 della Legge 833/78 sui Trattamenti Sanitari Obbligatori.
Il Trattamento Sanitario Obbligatorio per malattia mentale prevede che le cure vengano prestate in condizioni di degenza ospedaliera solamente se sono contemporaneamente presenti tre condizioni:
a) l'esistenza di alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici;
b) la mancata accettazione da parte dell'infermo degli interventi di cui sopra;
c) l'esistenza di condizioni e circostanze che non consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extra-ospedaliere.
Il Trattamento Sanitario Obbligatorio e, pertanto, un evento straordinario - finalizzato alla tutela della salute mentale del paziente - che non deve essere considerato una misura di difesa sociale, che deve essere attivato solo dopo aver ricercato, con ogni iniziativa possibile, il consenso del paziente ad un intervento volontario, e che richiede una specifica procedura, attivata da parte di un medico che verifica e certifica l'esistenza:
- dell'avvenuta convalida della proposta da parte di un altro medico, dipendente pubblico, generalmente specialista in psichiatria;
- dell'emanazione da parte del Sindaco dell'ordinanza esecutiva (entro 48 ore);
- della notifica al Giudice Tutelare (entro 48 ore), che provvede a convalidare o meno il provvedimento, comunicandolo al Sindaco.
La durata del provvedimento è di 7 giorni, con possibilità di proroga se persistono le tre condizioni necessarie (da comunicare al Sindaco ed al Giudice Tutelare) o di cessazione se anche solo una delle condizioni viene meno (da comunicare al Sindaco ed al Giudice Tutelare).
5.3. Sulla base di tali presupposti procedurali, il principio di diritto da enunciare con riferimento al caso di specie è, pertanto, il seguente:
Il Trattamento Sanitario Obbligatorio è un evento terapeutico straordinario, finalizzato alla tutela della salute mentale del paziente, che può essere legittimamente disposto solo dopo aver esperito ogni iniziativa concretamente possibile, sia pur compatibilmente con le condizioni cliniche, di volta in volta accertate e certificate, in cui versa il paziente - ed ove queste lo consentano - per ottenere il consenso del paziente ad un trattamento volontario.
Si può intervenire con un trattamento sanitario obbligatorio anche a prescindere dal consenso del paziente se sono contemporaneamente presenti tre condizioni:
a) l'esistenza di alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici;
b) la mancata accettazione da parte del/'infermo degli" interventi terapeutici proposti;
c) l'esistenza di condizioni e circostanze che non consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extra-ospedaliere.
Nel caso di specie, era stato attivato il TSO al signor B., affetto da un disturbo delirante cronico in fase di scompenso, dopo che egli aveva ripetutamente rifiutato gli interventi terapeutici proposti, nella comprovata sussistenza dei tre presupposti poc'anzi indicati. Il paziente, inoltre, veniva trattenuto presso i locali della struttura ove si era recato in ragione della sua condizione psichica; il provvedimento di trattenimento veniva proposto dalla dottoressa M.C. e convalidato dalla dottoressa M.B.; il trattamento veniva ordinato dal Sindaco del Comune di Udine nella sua qualità di Ufficiale di Governo; tale provvedimento veniva successivamente convalidato dal giudice Tutelare di Udine.
6. Il ricorso va pertanto rigettato
6.1. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità in favore di ciascun controricorrente che liquida in complessivi Euro 3.200, oltre Euro 200 per esborsi, accessori di legge e spese generali; per il Ministero dell'Interno spese prenotate a debito.
Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall'art. 1, comma 17 della L n. 228 del 2012, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale ammesso al gratuito patrocinio, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis del citato art. 13.