Esso costituisce una controprestazione straordinaria a carattere indennitario, corrisposta una tantum per una prestazione altrettanto straordinaria costituita dal risultato inventivo non rientrante nell'attività dovuta dal lavoratore, di cui il datore si appropria sfruttandola con la brevettazione o con l'utilizzazione segreta.
Il Tribunale di Roma accertava il diritto dell'attore, dipendente di una società, all'equo premio per attività inventivaex
Svolgimento del processo
- la T. s.p.a. propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Roma, depositata l’8 gennaio 2019, di reiezione del suo appello avverso la sentenza del locale Tribunale che aveva accertato il diritto di P.F. all’equo premio per attività inventiva ai sensi dell’art. 64, cod. prop. ind., demandando al collegio arbitrale l’esatta quantificazione dello stesso;
- dall’esame della sentenza impugnata si evince che, con l’atto di citazione, l’attore P.F. aveva allegato che: assunto dalle Ferrovie dello Stato nel 1969 con mansioni di capo tecnico operativo, era stato addetto alla divisione cargo manutenzione di (omissis) della convenuta T. s.p.a.; per far fronte alle esigenze dell'impianto di manutenzione presso il quale spettava la propria attività lavorativa aveva inventato e realizzato, con l’autorizzazione del datore di lavoro, un’apparecchiatura caratterizzata da novità inventiva consistente in un simulatore di carico per carri muniti di valvola di pesatura, il cui utilizzo aveva comportato una notevole semplificazione delle specifiche procedure operative; inoltre, nel 2008 aveva realizzato, di concerto con il datore di lavoro, due ulteriori apparecchiature finalizzate a consentire il raddrizzamento, rispettivamente, delle sponde laterali e delle porte laterali dei carri ferroviari, permettendo, in tal modo, il superamento delle difficoltà operative sino allora riscontrate nelle lavorazioni;
- la Corte di appello ha riferito che il Tribunale, stante la mancata contestazione da parte della società convenuta del fatto che l’attore fosse l’ideatore dei macchinari in oggetto e ritenuta, in adesione alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio nominato, la brevettabilità e l’utilizzabilità in regime di segretezza industriale delle dedotte invenzioni, aveva accolto la domanda attorea, limitatamente al riconoscimento del diritto all’equo premio, rimettendo nell’esatta quantificazione al collegio arbitrale di cui all’art. 64, terzo comma, cod. prop. ind.;
- ha, quindi, disatteso il gravame evidenziando che: la consulenza tecnica d’ufficio disposta in primo grado non era affetta da nullità, eccepita dall’appellante in ragione della mancata risposta alle osservazioni del consulente di parte, in quanto tali osservazioni erano state valutate in udienza, alla presenza del consulente e nel contraddittorio delle parti; le emergenze processuali deponevano nel senso che il P. aveva ideato le apparecchiature in oggetto; tali apparecchiature risultavano caratterizzate da creatività, novità e livello inventivo, essendo diverse da quelle utilizzate dalla società ferroviaria e offrendo una soluzione estremamente moderna a problemi tecnici di rilevante importanza per l’azienda, con risparmi dei costi sia in termini di personale utilizzato per gli specifici interventi, sia in termini di materiali utilizzati; la ideazione e costruzione di nuove attrezzature non rientrava tra i compiti spettanti all’attore, per cui, diversamente da quanto sostenuto dalla società appellante, le invenzioni dedotte non potevano qualificarsi quali invenzioni di servizio; infine, l’utilizzazione dei macchinari oggetto di tali invenzioni era stata effettuata in regime di segretezza industriale, in quanto presupponeva l’intervento su vagoni situati nei sedimi di pertinenza esclusiva della appellante;
- il ricorso è affidato a tre motivi;
- resiste con controricorso P.F.;
- la ricorrente deposita memoria ai sensi dell’art. 380-bis.1 cod. prop. ind.;
Motivi della decisione
- con l’ultimo motivo, esaminabile prioritariamente per motivi di ordine logico-giuridico, la ricorrente si duole, con riferimento all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., della violazione falsa applicazione dell’art. 195 cod. proc. civ., per aver la Corte di appello omesso di disporre la rinnovazione delle operazioni peritali;
- osserva, in proposito, che il consulente tecnico d’ufficio nominato in primo grado, chiamato dal giudice a rendere chiarimenti sulla relazione dal medesimo predisposta alla luce delle osservazioni formulate dal consulente tecnico della società, aveva erroneamente affermato di averle «recepite», in quanto la versione definitiva della relazione identica alla bozza precedentemente inviata alle le parti;
- il motivo è infondato;
- l’art. 195 cod. proc. civ., richiamato dalla ricorrente, prevede, all’ultimo comma, che il consulente tecnico d’ufficio deve trasmettere la sua relazione alle parti costituite nel termine stabilito dal giudice con ordinanza resa all’udienza in cui è intervenuto il conferimento dell’incarico e il relativo giuramento, che le parti possono trasmettere al consulente le proprie osservazioni sulla relazione entro l’apposito termine fissato dal giudice con la medesima ordinanza e che entro il successivo termine ivi fissato dal giudice il consulente deve depositare in cancelleria la relazione, le osservazioni delle parti e una sintetica valutazione sulle stesse;
- la ricorrente non contesta che siffatto iter procedimentale sia stato rispettato – né una deviazione dallo stesso emerge dall’esame degli atti –, ma deduce che, al termine di tali operazioni, il consulente, benché convocato dal giudice per rendere «chiarimenti» sul contenuto della sua relazione, in considerazione delle osservazioni formulate della parte, avrebbe omesso di esprimere il suo parere alla luce di tali osservazioni, affermando falsamente di averle «recepite», atteso che il suo elaborato finale non ne teneva conto;
- ciò posto, si osserva che rientra nel potere discrezionale del giudice di merito accogliere o rigettare l'istanza di riconvocazione del consulente d'ufficio per chiarimenti o per un supplemento di consulenza (cfr. Cass. 20 agosto 2019, n. 21525; Cass. 25 marzo 2015, n. 6025; Cass. 15 luglio 2011, n. 15666), per cui la decisione del giudice che ritenga non dare corso all’appendice del procedimento consulenziale con la richiesta di chiarimenti – o che, come nel caso in esame – ritenga che la stessa, benché originariamente disposta, non sia più necessaria non può costituire un error in procedendo;
- in ogni caso, dal tenore della sentenza impugnata appare evidente che il termine «recepite», utilizzato dal consulente tecnico d’ufficio con riferimento alle osservazioni della parte, sta a significare che il contenuto della relazione dal medesimo elaborata offre, secondo il suo avviso, adeguata risposta e confutazione di tali osservazioni;
- a una siffatta interpretazione del termine non osta il fatto, su cui la ricorrente pone particolare enfasi, dell’assenza di differenze tra la bozza di relazione e la stesura definitiva della stessa, in quanto il contenuto della bozza ben potrebbe essere idoneo a giustificare le conclusioni raggiunte anche in relazione a profili interessati dalle (future) osservazioni delle parti, ma che risultano già esaminati in tale documento;
- con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2590 cod. civ. e 64, 98 e 99 cod. prop. ind., per aver la Corte d’appello omesso di prendere in considerazione le argomentazioni spiegate con il proprio gravame a sostegno della tesi per cui le invenzioni poste dall’attore a fondamento della sua domanda fossero prive del requisito della novità, in quanto del tutto analoghe ad altri dispositivi utilizzati in officine della società convenuta diverse da quelle ove l’attore svolgeva la sua prestazione lavorativa;
- evidenzia, in proposito, che sul punto aveva articolato prova testimoniale in primo grado, ribadita in sede di appello, non presa in esame dal giudice di appello;
- il motivo è inammissibile;
- la doglianza si risolve in una – peraltro, generica – contestazione della valutazione operata dalla Corte di appello in ordine alla sussistenza del requisito della novità delle invenzioni in esame;
- orbene, l’accertamento della validità o meno di un'invenzione e dei requisiti costitutivi della loro novità è rimesso all'apprezzamento del giudice del merito e si sottrae al sindacato di legittimità se giustificato da motivazione logicamente congrua – ora nei limiti di cui all'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. – e giuridicamente corretta (cfr. Cass. 16 dicembre 2019, n. 33232; Cass. 3 febbraio 2006, n. 2435);
- la mancata prospettazione di vizi motivazionali osta, dunque, alla possibilità di esaminare la censura;
- quanto alla mancata ammissione della prova orale sul punto, si rammenta che l’ammissione di mezzi istruttori in appello è soggetta ad una valutazione discrezionale del giudice e l'esercizio di tali poteri da parte del giudice di merito è sindacabile in sede di legittimità solo se, interferendo sull'apprezzamento del materiale probatorio, si traduca in un vizio di motivazione della sentenza impugnata (cfr. Cass. 8 febbraio 2012, n. 1754; Cass. 29 marzo 2007, n. 7700; Cass. 29 novembre 2002, n. 16997) che, nel caso in esame, non è stato prospettato;
- né è possibile pervenire a diversa conclusine in ragione della mancata indicazione delle ragioni della mancata ammissione di detto mezzo, dovendosi ritenere per implicito che non se ne sia ravvisata la necessità (così, Cass. 22 aprile 2009, n. 9551);
- con il secondo motivo la ricorrente deduce la violazione falsa applicazione degli artt. 64, 98 e 99 cod. prop. ind., per aver la sentenza impugnata ritenuto che i dispositivi in oggetto fossero stati utilizzati dalla società datrice di lavoro in regime di segreto industriale, benché esistessero altri dispositivi che assicuravano le medesime utilità con funzionamento simili, l’eventuale conoscenza da parte di altre imprese concorrenti non avrebbe modificato di fatto il rendimento della società datrice di lavoro e, soprattutto, mancasse un sistema di controllo sulla divulgazione delle informazioni, non essendo a tal fine idonea la circostanza che tali dispositivi fossero collocati in aree protette in quanto ciò dipendeva da ragioni di sicurezza degli ambienti lavorativi e non già dall’esigenza di mantenere segrete le invenzioni;
- il motivo è, nei limiti che seguono, fondato;
- l’art. 64, secondo comma, cod. prop. ind. prevede che, in presenza di un’invenzione di azienda – che si distingue dall’invenzione di servizio per il fatto che, pur presupponendo entrambe la realizzazione di un’invenzione industriale nell'adempimento di un contratto di lavoro, il conseguimento di un risultato inventivo non rientra nell’oggetto del contratto, pur essendo a quest'ultimo collegato come frutto non dovuto né previsto della prestazione lavorativa (cfr., ex pluribus, Cass. 21 marzo 2011, n. 6367; Cass. 24 gennaio 2006, n. 1285; Cass. 19 luglio 2003, n. 11305) – i diritti derivanti dall’invenzione appartengono al datore di lavoro, spettando all’inventore, oltre al diritto di essere riconosciuto autore, un equo premio qualora il datore di lavoro o suoi aventi causa ottengano il brevetto o, come espressamente previsto dalla riformulazione della norma disposta dall’art. 37, primo comma, d.lgs. 13 agosto 2010, n. 131, utilizzino l’invenzione in regime di segretezza industriale;
- il diritto del lavoratore all'equo premio costituisce una controprestazione straordinaria a carattere indennitario, corrisposta una tantum per una prestazione altrettanto straordinaria costituita dal risultato inventivo non rientrante nell'attività dovuta dal lavoratore, di cui il datore di lavoro si appropria sfruttandola con la brevettazione o con l’utilizzazione segreta;
- brevettazione e segretazione sono, infatti, forme di sfruttamento strategicamente alternative di una invenzione brevettabile, per cui la scelta del datore di lavoro di non accedere alla tutela brevettuale e di fare affidamento sulla tutela riconosciuta ai segreti commerciali non può pregiudicare il diritto del lavoratore inventore all’equo compenso;
- tale diritto, sorge, dunque, con la dimostrazione da parte del dipendente inventore, oltre che della paternità dell’invenzione, della sua brevettazione da parte del datore di lavoro ovvero, in assenza di brevettazione, della brevettabilità dell’invenzione e del suo sfruttamento da parte di questi secondo la modalità della segretazione;
- ai fini dell’individuazione del concetto di utilizzazione «in regime di segretezza» deve farsi riferimento ai requisiti previsti per la tutela di tale forma di sfruttamento dell’invenzione, così come delineati dall’art. 98, primo comma, lett. c), cod. prop. ind.;
- tale disposizione richiede, come noto, che i segreti commerciali siano sottoposti, da parte delle persone al cui legittimo controllo sono soggette, a misure da ritenersi ragionevolmente adeguate a mantenerle segreti;
- orbene, la doglianza non è ammissibile nella parte in cui fa leva sull’argomento dell’esistenza di altri dispositivi idonei ad assicurare le medesime utilità con funzionamento simili, risolvendosi in una contestazione della valutazione fattuale – rimessa, come evidenziato in sede di esame del primo motivo di ricorso, al giudice di merito – in ordine alla novità delle invenzioni realizzate dal dipendente;
- del pari inammissibile è la censura nella parte in cui lamenta l’omesso accertamento in ordine al fatto che le invenzioni presentavano un valore economico in quanto segrete;
- l’allegazione della ricorrente della insensibilità degli utili aziendali a un’eventuale divulgazione delle invenzioni si scontra con l’accertamento fattuale della Corte di appello secondo cui tali invenzioni
«risultano in grado di assicurare enormi vantaggi alla società rispetto agli altri operatori, anche sotto il profilo del risparmio dei costi»;
- in relazione a tale aspetto, il motivo sotto l'apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, mira, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito non consentita in questa sede (cfr. Cass., Sez. Un., 27 dicembre 2019, n. 34476);
- fondata è, invece, la doglianza nella parte in cui lamenta che la Corte di appello ha ritenuto sussistente la fattispecie dell’utilizzazione dell’invenzione in regime di segretezza sul fondamento che i prodotti realizzati o i procedimenti ideati venivano impiegati su beni (vagoni) posti (necessariamente) nei sedimi di pertinenza esclusiva dell’azienda e, dunque, in aree ad accesso limitato a dipendenti appositamente autorizzati;
- si osserva, infatti, che le misure che il detentore dei segreti commerciali deve porre in esser al fine di usufruire della tutela offerta dagli artt. 98 e ss. cod. prop. ind. – la cui valutazione sotto il profilo della «ragionevole adeguatezza» al mantenimento del carattere riservato non è sindacabile in questa sede se non ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. – devono investire non solo il momento relativo al materiale utilizzo dell’invenzione, ossia alla realizzazione del prodotto o all’impiego del procedimento, ma anche quello relativo alla custodia delle relative informazioni – generalmente, documentali –, poiché con essa si esprime in modo puntale l’attività conoscitiva o inventiva e si permette l’utilizzazione della stessa per le finalità aziendali per un numero indefinito di volte;
- pertanto, la sottrazione del trovato e/o dei macchinari interessati dal procedimento ideato alla osservazione di terzi non esaurisce il novero delle misure che il titolare dell’informazione deve porre in essere al fine di mantenere tale informazione segreta, essendo, altresì, necessario che le stesse investano anche la conoscibilità degli elementi che caratterizzano l’invenzione e ne rendano possibile il ripetuto utilizzo;
- la sentenza impugnata va, dunque, cassata con riferimento al motivo accolto e rinviata, anche per le spese, alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione
P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso, dichiara inammissibile il terzo e rigetta il secondo; cassa la sentenza impugnata con rifermento al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione.