La Consulta dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 656, comma 9, lettera a), c.p.p., nella parte in cui stabilisce che non può essere disposta la sospensione dell'esecuzione nei confronti dei condannati per il delitto di incendio boschivo colposo ex art. 423-bis, secondo comma, c.c..
Svolgimento del processo
1. – Con ordinanza del 15 dicembre 2021 (reg. ord. n. 5 del 2022), il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Savona ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale, «nella parte in cui prevede “423 bis del codice penale” senza specificazione del riferimento al solo primo comma ovvero all’ipotesi dolosa».
1.1. – Il rimettente espone che il 7 gennaio 2021 è stata pronunciata nei confronti di L. F. sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti per il delitto di incendio boschivo colposo di cui all’art. 423-bis, secondo comma, cod. pen.
Come si apprende dal fascicolo del procedimento a quo, la pena applicata a L. F. è di otto mesi di reclusione. Il pubblico ministero, nell’emettere (nel novembre 2021) il relativo ordine di esecuzione, aveva contestualmente chiesto al giudice rimettente, in qualità di giudice dell’esecuzione, di sollevare questioni di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. nei termini poc’anzi indicati.
Il GIP ha quindi sollevato le predette questioni di legittimità costituzionale, disponendo – con separata e contestuale ordinanza, presente nel fascicolo del procedimento a quo – la sospensione dell’ordine di esecuzione nelle more dell’incidente di illegittimità costituzionale.
1.2. – In punto di rilevanza, il rimettente osserva che sulla base del tenore letterale della disposizione censurata la sospensione dell’ordine di esecuzione non potrebbe essere disposta in alcuno dei casi previsti dall’art. 423-bis cod. pen., e dunque anche nell’ipotesi in cui il fatto sia stato commesso per colpa.
1.3. – Tale esclusione dalla regola generale della sospensione dell’ordine di esecuzione di pene detentive non superiori a quattro anni creerebbe tuttavia, secondo il giudice a quo, una irragionevole disparità di trattamento tra il delitto di incendio boschivo colposo e altri reati colposi «parimenti e più gravi», come «l’omicidio stradale, l’omicidio sul lavoro, l’omicidio dovuto a colpa medica o l’incendio ferroviario [sic]». In tal modo, il legislatore avrebbe ingiustificatamente «considerato pericoloso e dunque meritevole della carcerazione chi ha commesso un reato di modesta gravità e ha riportato condanna ad una pena detentiva breve», sulla base di una «aprioristica presunzione di pericolosità che travalica il limite costituzionale della ragionevolezza».
La disposizione censurata violerebbe, peraltro, anche il principio secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, dal momento che «tale finalità rieducativa rimarrebbe completamente frustrata con un sistema automatico di carcerazione immediata senza possibilità di valutazione individualizzata da parte del tribunale di sorveglianza». Il legislatore avrebbe in tal modo «sabotato la finalità rieducativa della pena a fronte di una condotta non particolarmente grave».
2. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.
Rammenta l’interveniente che, secondo l’insegnamento di questa Corte, la disposizione censurata si fonda su una presunzione di pericolosità che concerne i condannati per i delitti da essa indicati (è citata la sentenza n. 125 del 2016). La ragionevolezza della norma, nella parte che viene qui in discussione, potrebbe «essere legittimamente predicata ravvisandone la ratio – avendo esclusivamente riguardo alle caratteristiche intrinseche del delitto di omicidio colposo [sic], indipendentemente dalla considerazione della gravità dello stesso – in una maggiore pericolosità del condannato, tale da giustificare, anche in un’ottica generalpreventiva, la scelta legislativa di prevedere che la valutazione circa la possibilità per il condannato di accedere alle misure alternative alla detenzione sia da compiere successivamente all’ingresso in carcere».
Dovrebbe d’altra parte escludersi anche il dedotto contrasto con l’art. 27, terzo comma, Cost., dal momento che «la possibilità comunque garantita al condannato che abbia fatto ingresso in carcere di presentare al tribunale di sorveglianza istanza di accesso ai benefici previsti dall’ordinamento penitenziario vale ad assicurare il rispetto del principio della necessità di una valutazione individualizzata del condannato, in relazione alla possibilità di consentirgli l’accesso ai benefici in questione, desumibile dalla poc’anzi citata disposizione costituzionale» (è richiamata la sentenza di questa Corte n. 216 del 2019).
Motivi della decisione
1. – Con ordinanza del 15 dicembre 2021, il GIP del Tribunale di Savona ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen., «nella parte in cui prevede “423 bis del codice penale” senza specificazione del riferimento al solo primo comma ovvero all’ipotesi dolosa».
Il GIP rimettente è adito, in sede di incidente di esecuzione, dal pubblico ministero che, nell’emettere ordine di esecuzione della pena a carico di L. F. per il delitto di incendio boschivo colposo, di cui all’art. 423-bis, secondo comma, cod. pen., aveva chiesto allo stesso giudice di sollevare le predette questioni di legittimità costituzionale.
Condividendo l’avviso del pubblico ministero, il rimettente dubita dunque della compatibilità con i due parametri costituzionali evocati del divieto, sancito dalla disposizione censurata, di sospendere l’ordine di esecuzione della pena detentiva ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. a carico dei condannati per il delitto di incendio boschivo anche nella sua forma meramente colposa.
2. – Le questioni sono ammissibili.
Il rimettente ha, invero, già sospeso – come risulta dal fascicolo del procedimento a quo – l’ordine di esecuzione, nelle more del giudizio incidentale di legittimità costituzionale.
Con tale provvedimento, tuttavia, il giudice a quo non si è ancora pronunciato sulla domanda di sospensione fondata sull’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. proposta dal pubblico ministero, e non ha pertanto esaurito la propria potestas iudicandi (su cui, ex multis, sentenza n. 10 del 2018, punto 7.2. del Considerato in diritto), ma ha semplicemente anticipato – con un provvedimento meramente “interinale”, destinato a operare sino alla ripresa del giudizio dopo l’incidente di legittimità costituzionale (sentenza n. 162 del 2021, punto 2 del Considerato in diritto e ulteriori precedenti ivi citati) – gli effetti dell’auspicata pronuncia di illegittimità costituzionale della disposizione censurata, in esito alla quale soltanto potrebbe essere accolta la domanda del pubblico ministero.
La rilevanza delle questioni prospettate permane, dunque, intatta.
3. – Nel merito, le questioni sono fondate, in riferimento tanto all’art. 3, quanto all’art. 27, terzo comma, Cost.
3.1. – Il comma 9 dell’art. 656 cod. proc. pen. stabilisce una serie di eccezioni alla regola generale, fissata dal precedente comma 5, secondo cui l’ordine di esecuzione della pena detentiva, emesso dal pubblico ministero quando la sentenza di condanna divenga definitiva, deve essere sospeso allorché la pena inflitta, anche se costituente residuo di maggior pena, non sia superiore a quattro anni, ovvero a sei anni nei casi previsti dagli artt. 90 e 94 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza).
In particolare, l’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. – oggetto delle censure del rimettente – stabilisce che la predetta sospensione non possa avere luogo nei confronti dei condannati per i delitti di cui all’art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nonché dei condannati per una serie di ulteriori delitti, tra cui per l’appunto quello di incendio boschivo, di cui all’art. 423-bis cod. pen.
Il rimettente, come anticipato, censura la disposizione nella sola parte in cui esclude dalla sospensione dell’ordine di esecuzione le condanne per il delitto di incendio boschivo nella sua forma colposa, prevista dal secondo comma dell’art. 423-bis cod. pen. Tale esclusione darebbe luogo, a suo avviso, a irragionevoli disparità di trattamento, e assieme frustrerebbe la finalità rieducativa della pena.
3.2. – La disciplina della sospensione dell’ordine di esecuzione della pena di cui all’art. 656, commi 5 e 9, cod. proc. pen. è già stata oggetto di una nutrita serie di pronunce di questa Corte, di cui la recente sentenza n. 238 del 2021 ha dato conto analiticamente.
Da tale giurisprudenza emerge l’idea secondo cui «[i]l tendenziale collegamento della sospensione dell’ordine di esecuzione con i casi di accesso alle misure alternative costituisce un punto di equilibrio ottimale» (sentenza n. 41 del 2018, punto 5 del Considerato in diritto) dal punto di vista del principio di eguaglianza-ragionevolezza.
In altre parole, la soluzione ottimale sarebbe – in linea di principio – quella di prevedere la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva nei confronti di ogni condannato che non si trovi già in carcere in stato di custodia cautelare (ipotesi, questa, cui si riferisce l’art. 656, comma 9, lettera b, cod. proc. pen.), ogniqualvolta la pena che egli debba integralmente espiare, ovvero la pena residua, sia contenuta entro i limiti temporali compatibili con l’accesso a misure alternative alla detenzione. Ciò al fine di consentire al condannato di proporre – nei trenta giorni successivi all’emanazione dell’ordine di esecuzione – istanza di ammissione a una di tali misure al tribunale di sorveglianza, ed evitargli così l’ingresso in carcere nelle more della decisione.
L’ingresso in carcere per condannati che si trovano nelle condizioni di poter chiedere una misura alternativa è, in effetti, problematico tanto dal punto di vista del principio di eguaglianza-ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., quanto dal punto di vista della necessaria finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27, terzo comma, Cost. E ciò per una pluralità di ragioni.
Anzitutto, perché l’ingresso in carcere determina sempre una brusca frattura dei legami del condannato con il proprio contesto familiare, sociale e – soprattutto – lavorativo, ostacolandone un percorso di risocializzazione che potrebbe essere già iniziato durante il processo, quando il condannato stesso si trovava in stato di libertà o era comunque sottoposto a misura cautelare non carceraria (sul punto, mutatis mutandis, sentenza n. 28 del 2022, punto 5.1. del Considerato in diritto).
In secondo luogo, perché – come già rammentato dalla sentenza n. 216 del 2019 (punto 4 del Considerato in diritto) – quando la pena da scontare sia breve, è assai probabile «che la decisione del tribunale di sorveglianza intervenga dopo che il soggetto abbia ormai interamente o quasi scontato la propria pena»; eventualità quest’ultima «purtroppo non infrequente, stante il notorio sovraccarico di lavoro che affligge la magistratura di sorveglianza, nonché il tempo necessario per la predisposizione della relazione del servizio sociale in merito all’osservazione del condannato in carcere».
Infine, perché – come posto in luce dalla menzionata sentenza n. 41 del 2018 (punto 6 del Considerato in diritto) – ogni disallineamento tra i limiti temporali della pena ai fini della sospensione dell’ordine di esecuzione e quelli per l’accesso alle misure alternative concedibili sin dall’inizio dell’esecuzione della pena rende di fatto impossibile la concessione di misure alternative prima dell’ingresso in carcere, ogniqualvolta la condanna sia ancora contenuta nel limite che consentirebbe l’accesso alla misura ma sia superiore a quello fissato per la sospensione dell’ordine di esecuzione. Il che finisce per frustrare lo stesso intento perseguito dal legislatore nel dettare la disciplina della misura alternativa.
In particolare sulla base di quest’ultima considerazione, la medesima sentenza n. 41 del 2018 ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il limite di tre anni di pena detentiva, originariamente previsto dall’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. per la sospensione dell’ordine di esecuzione: limite che la sentenza in parola ha evidenziato risultare irragionevolmente disallineato rispetto a quello, attualmente di quattro anni, fissato dall’art. 47, comma 3-bis, ordin. penit. ai fini dell’accesso alla misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale.
3.3. – La giurisprudenza costituzionale ha, peraltro, riconosciuto la possibilità per il legislatore di individuare, nell’esercizio della propria discrezionalità, eccezioni al «punto di equilibrio ottimale» rappresentato dalla regola generale della corrispondenza tra il limite di pena stabilito per l’accesso alla misura alternativa e quello stabilito ai fini della sospensione dell’ordine di esecuzione. Al tempo stesso, questa Corte ha tuttavia precisato che proprio la natura «ancillare della sospensione rispetto alle finalità delle misure alternative» deve rendere «particolarmente stretto» il controllo di legittimità costituzionale riservato a tali ipotesi (sentenza n. 41 del 2018, punto 5 del Considerato in diritto).
Nella stessa sentenza n. 41 del 2018 si è osservato che l’eccezione prevista nei confronti dei condannati per i delitti di cui all’art. 4-bis ordin. penit. riposa sulla considerazione secondo cui, in tali ipotesi,
«l’accesso alla misura alternativa è soggetto a condizioni così stringenti da rendere questa eventualità meramente residuale, sicché appare tollerabile che venga incarcerato chi all’esito del giudizio relativo alla misura alternativa potrà con estrema difficoltà sottrarsi alla detenzione» (ancora punto 5 del Considerato in diritto).
Proprio sulla base di questa considerazione, la recente sentenza n. 238 del 2021 ha ritenuto non irragionevole il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della condanna per il delitto di contrabbando di tabacchi lavorati esteri commesso adoperando mezzi di trasporto appartenenti a persone estranee al reato previsto dall’art. 291-ter, comma 1, del d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale), che rientra per l’appunto tra i delitti sottoposti allo speciale regime di preclusioni all’ordinario accesso alle misure alternative dettato dall’art. 4-bis ordin. penit.
Parimenti, la sentenza n. 216 del 2019 ha ritenuto immune da censure sotto il profilo costituzionale la puntuale eccezione rappresentata dal divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione nei confronti dei condannati per il delitto di furto in abitazione di cui all’art. 624-bis, primo comma, cod. pen. Il fondamento giustificativo di tale eccezione è stato qui ravvisato, in particolare, nella «discrezionale, e non irragionevole, presunzione del legislatore relativa alla particolare gravità del fatto di chi, per commettere il furto, entri in un’abitazione altrui, ovvero in altro luogo di privata dimora o nelle sue pertinenze, e della speciale pericolosità soggettiva manifestata dall’autore di un simile reato» (punto 3.1.1. del Considerato in diritto); speciale pericolosità che il legislatore ha ritenuto, con valutazione non censurabile da questa Corte, costituire «ragione sufficiente per negare in via generale ai condannati per il delitto in esame il beneficio della sospensione dell’ordine di carcerazione, in attesa della valutazione caso per caso, da parte del tribunale di sorveglianza, della possibilità di concedere al singolo condannato i benefici compatibili con il suo titolo di reato e la durata della sua condanna» (punto 3.1.2. del Considerato in diritto).
La precedente sentenza n. 125 del 2016 aveva, invece, giudicato «incongru[o]» (punto 2 del Considerato in diritto) il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione rispetto ai condannati per il delitto di furto con strappo di cui all’art. 624-bis, secondo comma, cod. pen., essenzialmente sulla base della considerazione che tale divieto non opera rispetto alla rapina (non aggravata), nella quale il furto con strappo può facilmente sfociare, a fronte della prevedibile reazione della vittima. Con conseguente illogicità di una disciplina più sfavorevole per chi sia condannato per un reato meno grave, pur se contiguo dal punto di vista criminologico.
3.4. – Questa Corte è ora chiamata a valutare se – al metro di quel “controllo stretto” di legittimità costituzionale evocato dalla sentenza n. 41 del 2018 – sussistano sufficienti ragioni per sottrarre anche i condannati per il delitto di incendio boschivo colposo alla regola generale della sospensione dell’ordine di esecuzione, che vige per tutti i condannati a una pena contenuta in limiti che consentano l’accesso immediato a misure alternative alla detenzione, i quali non si trovino in stato di custodia cautelare in carcere al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna.
La risposta, come anticipato, non può che essere negativa.
3.4.1. – Anzitutto, il richiamo integrale all’art. 423-bis cod. pen. compiuto dalla disposizione censurata fa sì che esso comprenda anche l’ipotesi, disciplinata dal secondo comma dello stesso art. 423-bis, in cui l’incendio sia cagionato per mera colpa. Per effetto di tale indifferenziato richiamo, l’incendio boschivo colposo si presenta oggi come l’unico reato colposo tra quelli per i quali l’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. prevede il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione.
Questa anomalia non viene in alcun modo giustificata nei lavori preparatori del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 24 luglio 2008, n. 125, al cui art. 2, comma 1, lettera m), si deve l’inserimento del riferimento all’art. 423-bis cod. pen. nella disposizione censurata. In tali lavori preparatori ci si limita a generici riferimenti a gravi e allarmanti fenomeni criminosi rispetto ai quali le esigenze di sicurezza della collettività appaiono maggiormente bisognose di tutela; fenomeni criminosi tra i quali il legislatore ha ritenuto evidentemente di iscrivere anche il delitto di incendio boschivo. Dai lavori preparatori non si evince, però, alcuna specifica illustrazione sulle ragioni che hanno indotto il legislatore a includere tra i reati per i quali non opera la regola della sospensione dell’ordine di esecuzione anche quel delitto nella sua forma colposa; ciò che potrebbe addirittura condurre a dubitare che la mancata esclusione di tale ipotesi – disciplinata all’interno della medesima disposizione che prevede la corrispondente fattispecie dolosa anziché, come di solito accade, in una separata disposizione – sia frutto di una mera svista del legislatore.
3.4.2. – Proprio la natura colposa del delitto in questione rende, d’altra parte, estremamente problematica una plausibile giustificazione di tale eccezione. Ferma l’indubbia gravità del reato dal punto di vista oggettivo, è davvero arduo affermare che – dal punto di vista soggettivo – l’autore di una condotta meramente colposa manifesti una speciale pericolosità, tale da giustificare la scelta del legislatore di assicurarne un “passaggio in carcere”, in attesa della valutazione da parte del tribunale di sorveglianza dei presupposti per l’ammissione a una misura alternativa alla detenzione.
In proposito, conviene rammentare che la generalità degli istituti che, nel vigente sistema penale, comportano aggravamenti della pena o del suo regime esecutivo in relazione alla particolare pericolosità soggettiva dell’autore si basano sulla commissione, da parte sua, di reati dolosi, evidentemente ritenuti gli unici che consentono affidabili prognosi di ulteriore commissione di reati. «[N]on colposo» è il precedente delitto, accertato con condanna definitiva, che giustifica l’applicazione al soggetto della circostanza aggravante della recidiva (art. 99, primo comma, cod. pen.), il cui fondamento radica tanto nella maggiore colpevolezza dell’autore, quanto – appunto – nella sua accentuata pericolosità (da ultimo, sentenza n. 230 del 2022, punto 3.3. del Considerato in diritto); di delitti «non colposi» parlano le norme dedicate all’abitualità, tanto se presunta dalla legge (art. 102 cod. pen.) quanto se ritenuta dal giudice (art. 103 cod. pen.); dolosi sono i delitti “ostativi” all’accesso ai benefici penitenziari (art. 4-bis ordin. penit.) e quelli, in materia di misure cautelari, rispetto ai quali operano le presunzioni di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere (art. 275, comma 3, cod. proc. pen.).
Il criterio utilizzato dal legislatore in tutte queste discipline ha un solido fondamento razionale: se non può in assoluto escludersi che anche chi ha commesso il fatto per negligenza, imprudenza o imperizia possa nuovamente incorrere in un’analoga disattenzione o trascuratezza, è solo l’intenzionale violazione della legge penale che può essere posta alla base di presunzioni non arbitrarie, da parte del legislatore, di un pericolo significativo di reiterazione di condotte criminose, tale da giustificare discipline che in via generale aggravino il trattamento sanzionatorio dell’autore, o lo sottraggano a benefici concessi alla generalità dei condannati.
3.4.3. – A ragione il rimettente denuncia, poi, la disparità di trattamento – creata dalla norma censurata – tra l’incendio boschivo colposo (punito con la reclusione da uno a cinque anni) e la generalità degli altri delitti colposi, ancorché questi siano di pari o superiore gravità, come si evince dal raffronto tra i beni giuridici tutelati e le rispettive cornici edittali – generalmente considerate, queste ultime, espressive della valutazione della gravità del reato da parte dello stesso legislatore. Nel caso in cui la pena inflitta non superi i quattro anni di reclusione, ad esempio, l’ordine di esecuzione della pena detentiva resta sospeso nei confronti di chi sia stato condannato per omicidio colposo aggravato (punito con la reclusione da due a sette anni nel caso previsto dal secondo comma dell’art. 589 cod. pen., e con la reclusione da tre a dieci anni in quello previsto dal terzo comma della medesima disposizione), per omicidio stradale di cui all’art. 589-bis cod. pen. (punito nella fattispecie base con la reclusione da due a sette anni, e con pene ancor più severe in tutte le altre ipotesi), nonché per tutti i disastri colposi (soggetti, ai sensi dell’art. 449 cod. pen., alla medesima cornice edittale della reclusione da uno a cinque anni).
Particolarmente illogica appare, in questo contesto, la disparità di trattamento tra i condannati per il delitto in esame e i condannati per il delitto, strutturalmente affine, di incendio colposo, che è posto a tutela dell’incolumità pubblica – e cioè della vita e dell’incolumità di una pluralità indeterminata di persone, dunque di un bene ancor più importante rispetto al patrimonio boschivo – e che è comunque punito con il medesimo quadro edittale previsto per l’incendio boschivo colposo.
3.4.4. – L’impossibilità di presentare domanda di ammissione ai benefici penitenziari in stato di libertà determinata dalla disposizione censurata comporta, infine, un ostacolo alla funzione rieducativa della pena, che ridonda in questo caso in una violazione anche dell’art. 27, terzo comma, Cost.
Laddove, infatti, il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione abbia una sua ragionevole giustificazione, come nelle ipotesi esaminate dalle sentenze n. 216 del 2019 e n. 238 del 2021, tale ostacolo – creato dalla necessità di ingresso in un istituto carcerario per scontare una pena detentiva breve o molto breve, con le conseguenze negative poc’anzi illustrate (supra, punto 3.2.) – appare bilanciato dalla necessità, non arbitrariamente apprezzata dal legislatore, di far fronte a una spiccata pericolosità del condannato rivelata dalla particolare natura del reato (doloso) commesso; o comunque discende dalla necessità di prendere atto di uno speciale sistema di preclusioni che rende «residuale» (sentenza n. 41 del 2018, punto 5 del Considerato in diritto) l’accesso alle misure alternative per i condannati per determinati reati.
Non così, invece, allorché una simile ragionevole giustificazione difetti, come accade nel caso dei condannati per incendio boschivo colposo, per i quali la disciplina censurata comporta un sacrificio del tutto inutile – anche nell’ottica di un’efficace tutela della collettività – rispetto all’orientamento rieducativo della pena, imposto dall’art. 27, terzo comma, Cost.
3.5. – Da tutto ciò consegue che la disposizione censurata deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima, nella parte in cui stabilisce che non può essere disposta, nei casi di cui all’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., la sospensione dell’esecuzione nei confronti dei condannati per il delitto di incendio boschivo colposo di cui all’art. 423-bis, secondo comma, cod. pen.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale, nella parte in cui stabilisce che non può essere disposta la sospensione dell’esecuzione nei confronti dei condannati per il delitto di incendio boschivo colposo di cui all’art. 423-bis, secondo comma, del codice penale.