Nel caso concreto i danni risarcibili erano stati prospettati quale conseguenza diretta dell'illecita segnalazione dei dati personali del ricorrente alla Centrale-Rischi, per cui era stato applicato nel giudizio di primo grado il rito speciale di cui all'art. 152 D. Lgs. n. 196/2003.
Il Tribunale di Crotone accoglieva parzialmente la domanda degli attori, condannando la società convenuta al risarcimento del danno causato a uno di loro per aver illegittimamente inserito il suo nominativo nei dati della Centrale-Rischi per un finanziamento non richiesto. In tal modo, l'attore, dopo aver sporto querela contro ignoti per le firme false che erano state...
Svolgimento del processo
Il Tribunale di Crotone, in parziale accoglimento della domanda proposta da M. R. e C. C. – il primo quale debitore principale e la seconda quale garante – nei confronti della F. s.p.a., condannò quest’ultima al risarcimento del danno causato al solo R. in conseguenza dell’illegittimo inserimento del suo nominativo nei dati della Centrale-Rischi per un finanziamento non richiesto. In particolare, gli attori si erano avveduti di un addebito della somma di euro 265,62 sul conto corrente postale del R., in data 28.7.09, da ricondurre ad un rateo per un finanziamento, disconosciuto, stipulato il 10.6.09 presso un esercizio commerciale, mentre F. s.p.a. era stata diffidata ad annullare il RID dell’addebito; era stata sporta querela contro ignoti per le firme false apposte, di cui fu informata la stessa F., che aveva poi comunicato di aver richiesto al SIC la cancellazione dei dati del R.; nonostante ciò, al 16.3.2010, il prestito personale richiesto dal R. alla F. era stato negato per l’avvenuta segnalazione dei dati erroneamente inseriti nella Centrale-Rischi; solo il 29.6.2010 la posizione debitoria rispetto alla F. s.p.a. era risultata venuta meno; pertanto, nelle more, il R. era stato costretto a ricorrere ad un prestito privato per euro 10.000,00 al tasso d’interessi del 16% annuo.
Il R. impugnò la citata sentenza per omessa liquidazione del danno non patrimoniale, mentre la F. s.p.a. si costituì eccependo in via preliminare l’inammissibilità dell’appello e proponendo, in subordine, appello incidentale per la riforma della sentenza nel senso di escludere qualsiasi responsabilità della società finanziaria.
La Corte d’appello di Catanzaro, con sentenza del 30 novembre 2017, dichiarò inammissibile il gravame escludendo l’appellabilità della sentenza di primo grado ai sensi dell’art. 152, comma 10, d.lgs. 30 giugno 2003 n. 196 (poi sostituito dall’art. 10, comma 10, del d.lgs. 1° settembre 2011 n. 150), in quanto emessa all’esito di un giudizio vertente in materia di dati personali, osservando che: su tale presupposto il Tribunale aveva disposto il mutamento di rito, estendendo il contraddittorio al Garante per la protezione dei dati personali; l’applicazione al giudizio della disciplina sui dati personali non aveva costituito oggetto dell’impugnazione da parte dell’appellante, che anzi aveva osservato quel rito; al riguardo, il Tribunale nel rigettare l’eccezione della F. aveva altresì affermato la propria competenza in ragione del criteri dettati dal codice del consumatore rispetto al quale era recessiva la normativa sulla privacy. Avverso questa sentenza il R. propone ricorso per cassazione affidato a cinque motivi, illustrati con memoria. Resiste con controricorso la F. s.p.a., mentre non si è costituito il Garante.
Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso, si deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 5, 7 e 152, comma 10, d.lgs. n. 196 del 2003, e dell’art. 10, comma 6, d.lgs. 150 del 2011, nella parte in cui la Corte d’appello ha ritenuto che la controversia rientri nel novero di quelle aventi ad oggetto il trattamento dei dati personali e come tale sia soggetta all’applicazione del rito previsto dall’art. 152 d.lgs. 196 del 2003 (ora sostituito dall’art. 10 d.lgs. 150 del 2011).
Al riguardo, secondo il ricorrente, il giudice d’appello avrebbe erroneamente inteso l’affermazione del Tribunale di Crotone, secondo la quale, poiché non si discuteva di un provvedimento dell’Autorità garante, ma di una domanda di risarcimento del danno conseguente ad una illegittima segnalazione alla Centrale-Rischi, alla causa sarebbe stata applicabile “la competenza e la disciplina ordinaria e non quella del Codice della privacy”: tale affermazione non sarebbe da intendersi limitata alla questione della competenza (con prevalenza del foro del consumatore su quello previsto dall’art. 152 del d.lgs. 196 del 2003), come ritenuto dalla Corte territoriale, ma all’intero giudizio, con conseguente inapplicabilità alla controversia del rito speciale disciplinato dal Codice della privacy.
A supporto della propria argomentazione il ricorrente adduce che il Tribunale, nonostante il mutamento del rito disposto ai sensi dell’art. 152 del d.lgs. 196 del 2003, aveva emesso la propria sentenza ai sensi dell’art. 281-sexies cod. proc. civ. senza richiamare il più pertinente articolo del Codice della privacy.
Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione degli artt. 5, 7 e 152, d.lgs. n. 196 del 2003 e dell’art. 10, comma 6, d.lgs. 150 del 2011, nella parte in cui la sentenza impugnata aveva ricondotto la controversia in oggetto nell’alveo della disciplina sul trattamento dei dati personali.
Il terzo motivo denunzia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2043 cod. civ., nonché degli artt. 5, 7 e 152 d.lgs. n. 196 del 2003, 10, comma 6, d.lgs. 150 del 2011, sempre in relazione alla supposta erronea qualificazione giuridica dei fatti posti a base della domanda proposta dal R. nel giudizio di merito: la corte d’appello avrebbe dovuto rilevare non già una violazione delle modalità di trattamento dei dati personali, ma una violazione del principio generale del neminem ledere, con conseguente applicazione della disciplina ordinaria in tema di risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2043 cod. civ.
Il quarto motivo denunzia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 5, 7 e 152 d.lgs. n. 196 del 2003, 10, comma 6, d.lgs. 150 del 2011, in quanto la sentenza impugnata, ad ulteriore conferma dell’inquadramento dell’oggetto della controversia nell’alveo della disciplina sul trattamento dei dati personali, aveva citato erroneamente un precedente della Corte di cassazione.
I primi quattro motivi, esaminabili congiuntamente poiché tra loro connessi, e in parte ripetitivi, sono infondati. A norma dell’art. 10, c.6, d.l. n. 150/11, modificativo del predetto art. 152, d.lgs. n. 196/03, le controversie di cui al comma 1 dello stesso art. 152, circa l’applicazione della normativa in materia di protezione dei dati personali, sono decise con sentenza non appellabile.
Al riguardo, parte ricorrente si duole che la Corte d’appello abbia ritenuto applicabile la normativa dettata dal d.lgs. n. 152 con la relativa inappellabilità della sentenza del Tribunale, che a suo dire, riguarderebbe solo l’ipotesi in cui vi sia stata una violazione in merito al trattamento dei dati personali – ipotesi nella quale è obbligatorio fare ricorso al Garante – mentre nel caso concreto il ricorrente non lamentava una siffatta violazione, avendo piuttosto formulato una domanda di risarcimento dei danni a causa dell’illegittima segnalazione alla Centrale-Rischi, non riguardante una richiesta di cancellazione, sospensione o modifica dell’illegittima segnalazione (essendo essa stata cancellata prima dell’introduzione del giudizio). Tale argomentazione sarebbe confermata dal fatto che non sussiste un provvedimento del Garante da impugnare.
Invero, la doglianza in esame, afferente al perimetro applicativo del suddetto art. 152, è erronea in quanto l’azione risarcitoria è proponibile nei confronti dei soggetti ritenuti responsabili dell’illegittima segnalazione alla Centrale-Rischi, a prescindere se venga o meno in rilievo un provvedimento del Garante, come desumibile dalla uniforme giurisprudenza di questa Corte in tema (Cass., n. 186/11; n. 23280/07). Va altresì osservato che, nel giudizio avente ad oggetto tanto la lesione del diritto alla protezione dei dati personali, cui si applica la disciplina processuale speciale di cui al d.lgs. n. 150 del 2011 (che non prevede la impugnabilità in appello), quanto la domanda di risarcimento del danno per la lesione dei diritti alla riservatezza ed all'immagine, cui si applica il rito ordinario, al fine di identificare il mezzo di impugnazione esperibile, in ossequio al principio dell'apparenza, deve farsi riferimento esclusivo a quanto previsto dalla legge per le decisioni emesse secondo il rito in concreto adottato in relazione alla qualificazione dell'azione effettuata dal giudice a quo; pertanto, qualora il tribunale abbia ritenuto di giudicare unitariamente sulle domande, applicando il rito speciale, in quanto i danni risarcibili erano stati prospettati come conseguenza dell'illecita diffusione dei dati personali, l’appello avverso la decisione del tribunale é inammissibile (Cass. n. 29336/20).
Nel caso concreto, la Corte d’appello ha correttamente considerato inammissibile l’appello in quanto il giudice di primo grado aveva deciso la domanda del R. applicando il rito speciale, poiché i danni risarcibili erano stati prospettati come diretta conseguenza dell’illecita segnalazione dei dati personali alla Centrali-rischi della Banca d’Italia. Con il quinto motivo si deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 323 e 329 cod. proc. civ., e dell’art. 24 Cost. Al riguardo, il ricorrente, pur rilevando di aver promosso il giudizio con ricorso e non con citazione, si duole della ritenuta inappellabilità, in quanto la Corte territoriale avrebbe dovuto tener conto della sanatoria del vizio nell’ambito del principio di conservazione degli atti, perché il ricorso era stato non solo depositato, ma anche notificato a controparte nel termine perentorio di cui all’art. 327 cod. proc. civ.
Il motivo è inammissibile poiché non coglie la ratio decidendi, relativa all’inappellabilità della sentenza di primo grado perché avente ad oggetto controversia afferente alla materia della protezione dei dati personali, sicché non veniva in rilievo alcuna sanatoria dell’atto introduttivo.
Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio che liquida nella somma di euro 7.200,00 di cui 200,00 per esborsi, oltre alla maggiorazione del 15% quale rimborso forfettario delle spese generali ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater, del d.p.r. n.115/02, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.