
Pertanto, il suo contenuto resta sempre necessariamente esposto alla prova contraria e alla verifica ad opera dell'Amministrazione, verifica che è doverosa, prima di procedere all'emanazione del provvedimento finale, in caso di elementi dubbi o contestati.
Il TAR dichiarava improcedibile il ricorso principale e respingeva i connessi motivi aggiunti proposti dall'attuale appellante per l'annullamento dei provvedimenti adottati dal Comune, concernenti la demolizione di opere abusive. L'appellante ricorre dinanzi al Consiglio di Stato ribadendo la tesi secondo cui i manufatti oggetto di ordinanza di demolizione erano stati realizzati in epoca anteriore all'entrata in vigore della Legge urbanistica n. 1150/1942.
Lamenta, quindi, che il TAR non abbia considerato ammissibili, quali prova di tale circostanza, gli atti notori recanti le dichiarazioni attestanti l'epoca di realizzazione delle opere. A fondamento della sua doglianza, l'appellante sostiene che la produzione di tali dichiarazioni comporterebbe un «principio di prova» che avrebbe dovuto «invertire l'onere della prova» circa l'epoca di realizzazione dei manufatti.
Per il Consiglio di Stato il motivo è privo di fondamento. Sulla questione, si riportano alcuni indirizzi giurisprudenziali ripercorsi da Palazzo Spada:
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Per questi motivi, il Consiglio di Stato rigetta il ricorso con sentenza n. 343 dell'11 gennaio 2023.
Consiglio di Stato, sez. VII, sentenza (ud. 16 dicembre 2022) 11 gennaio 2023, n. 343
Svolgimento del processo / Motivi della decisione
La sentenza impugnata ha dichiarato improcedibile il ricorso principale e ha respinto i connessi motivi aggiunti proposti dall’attuale appellante per l’annullamento dei provvedimenti adottati dal comune di Carrara, concernenti la demolizione di opere abusive.
L’appellante ripropone le censure disattese dal TAR, limitatamente alla statuizione di rigetto dei motivi aggiunti, esponendo dettagliatamente le vicende che, a suo dire, hanno interessato gli immobili oggetto dei provvedimenti comunali.
Resistono al gravame il comune e la parte privata appellata, intervenuta volontariamente ad opponendum nel giudizio di primo grado, nella qualità di proprietaria di immobile confinante con quello dell’appellante, interessata alla conferma della legittimità dei contestati provvedimenti di demolizione.
L’appello è infondato.
L’appellante ribadisce, in primo luogo, la tesi, respinta dal TAR, secondo cui i manufatti oggetto dell’ordinanza di demolizione e della successiva rettifica sarebbero stati realizzati negli anni Trenta dagli utilizzatori dell’immobile (danti causa dell’appellante, “casieri e braccianti al servizio della nobil donna romana, signora Maria Arata”), in epoca anteriore all’entrata in vigore della legge urbanistica 17 agosto 1942 n. 1150 e del piano regolatore del comune di Apuania del 1941, quando non era necessario munirsi di alcun preventivo titolo autorizzatorio edilizio o nulla osta paesaggistico.
Lamenta, quindi, che il TAR non abbia considerato ammissibili, quali prova di tale circostanza, gli atti notori recanti le dichiarazioni attestanti l’epoca di realizzazione delle opere.
Sostiene, al riguardo, che la produzione di dette dichiarazioni comporterebbe un “principio di prova”, che avrebbe dovuto “invertire l’onere della prova” circa l’epoca di realizzazione dei manufatti.
Il motivo è destituito di fondamento.
La giurisprudenza civile e quella amministrativa hanno da tempo definito l’efficacia delle dichiarazioni contenute negli atti notori, escludendone la rilevanza probatoria in giudizio. Si è così affermato che la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà di cui al D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, artt. 46 e 47, non costituisce di per sé prova idonea dell’assunto della parte attrice, “esaurendo i sui effetti nell'ambito dei rapporti con la P. A. e nei relativi procedimenti amministrativi” (Cassazione civile, Sezioni Unite 29 maggio 2014, n. 12065). Resta fermo che “il giudice, in presenza della produzione della suddetta dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, deve adeguatamente valutare, anche ai sensi della nuova formulazione dell'art. 115 c.p.c., come novellato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 14, in conformità al principio di non contestazione, il comportamento in concreto assunto dalla parte nei cui confronti la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà viene fatta valere, con riferimento alla verifica della contestazione e, nell'ipotesi affermativa, al grado di specificità di tale contestazione, strettamente correlato e proporzionato al livello di specificità del contenuto della dichiarazione sostitutiva suddetta".
Nel caso di specie, tanto l’amministrazione, quanto la controinteressata, hanno decisamente contrastato le asserzioni di parte appellante. Ne consegue, pertanto, la piena correttezza della pronuncia del TAR. Analoghi principi, sono espressi da questo Consiglio. Tra le tante, è sufficiente citare la pronuncia della Quarta Sezione 25 maggio 2018, n. 5030, secondo cui nessuna rilevanza può essere attribuita alla dichiarazione sostitutiva di atto notorio presentata, ai sensi dell’art. 47 del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445.
Infatti, l’art. 4 l. n. 15/1968 (disciplinante "dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà", oggi sostituito dall’art. 46 DPR n. 445/2000) prevede: "l’atto di notorietà concernente fatti, stati o qualità personali che siano a diretta conoscenza dell’interessato è sostituito da dichiarazione resa e sottoscritta dal medesimo dinanzi al funzionario competente a ricevere la documentazione, o dinanzi ad un notaio, cancelliere, segretario comunale, o altro funzionario incaricato dal sindaco, il quale provvede alla autenticazione della sottoscrizione con la osservanza delle modalità di cui all’art. 20."
Tale dichiarazione sostitutiva concerne unicamente fatti, stati o qualità personali che siano a diretta conoscenza dell’interessato e che, di regola, non trovano riscontro in albi, registri o elenchi tenuta dalla p.a. o perché nessuna norma ne prevede la registrazione o perché questi ultimi sono andati dispersi, e si differenzia dalla dichiarazione sostitutiva di certificazione, ex art. 2 l. n. 15/1968, perché quest’ultima si caratterizza, invece, per la perfetta coincidenza tra il suo contenuto e il contenuto del certificato che essa sostituisce (Cons. Stato, sez. V, 17 maggio 1997 n. 519).
La dichiarazione ex art. 4, dunque, proprio perché non sostitutiva di "certificati", né, quindi, riproduttiva di dati presenti in archivi o registri della pubblica amministrazione non assume alcuna "valenza certificativa", né assume alcun particolare valore probatorio in ordine a quanto con essa dichiarato, ma essa ha la sola funzione di semplificazione procedimentale, fermo restando, tuttavia, il potere di controllo della pubblica amministrazione, il cui esercizio è doveroso allorchè quanto dichiarato si mostri palesemente non corrispondente al vero.
Ne consegue che, oltre a non avere alcuna rilevanza, sia pure indiziaria, nel processo civile o amministrativo (da ultimo, Cass. Civ., sez. III, 28 aprile 2010 n. 10191), la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà non ha "valore" certificativo o probatorio neanche nei confronti della pubblica amministrazione, o, più precisamente, nell’ambito del procedimento amministrativo, ma solo una "attitudine" probatoria provvisoria e fino a contraria risultanza, volta a consentire – salvo verifica – la più spedita conclusione del procedimento amministrativo. (Cons. Stato, sez. V, 25 agosto 2008 n. 4035; Cass. Civ., sez. II, 6 marzo 2008 n. 6132).
In definitiva, la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà è solo un mezzo di speditezza ed alleggerimento provvisori dell’attività istruttoria, cioè di semplificazione delle formalità del rapporto con la P.A., e non un mezzo di prova legale, sicché il suo contenuto resta sempre necessariamente esposto alla prova contraria e alla verifica ad opera dell’Amministrazione, verifica che è doverosa, prima di procedere all’emanazione del provvedimento finale, in caso di elementi dubbi o contestati.
D’altra parte, che la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà non ha "valore di prova" nei confronti della P.A., e, quindi, non costituisce piena prova di quanto in essa dichiarato (avendo essa solo una "attitudine" probatoria, provvisoria e revocabile), è dimostrato dall’art. 71, comma 1, del DPR n. 445/2000, il quale prevede che "le amministrazioni procedenti sono tenute ad effettuare idonei controlli, anche a campione, e in tutti i casi in cui sorgono fondati dubbi sulla veridicità delle dichiarazioni sostitutive".
Nello stesso senso, si è ribadita l’inutilizzabilità della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà nell’ambito del processo amministrativo, in quanto, sostanziandosi in un mezzo surrettizio per introdurre la prova testimoniale, non possiede alcun valore probatorio e può costituire solo un mero indizio che, in mancanza di altri elementi gravi, precisi e concordanti, non è idoneo a scalfire l'attività istruttoria dell'amministrazione (ex multis Cons. Stato, sez. IV, 7 agosto 2012, n. 4527; id., sez. VI, 8 maggio 2012, n. 2648; id., sez. IV, 3 agosto 2011, n. 4641; id., sez. IV, 3 maggio 2005, n. 2094; id., sez. IV, 29 aprile 2002, n. 2270).
D’altro canto, “l'attitudine certificativa e probatoria della dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà e delle autocertificazioni o auto dichiarazioni è limitata a specifici status o situazioni rilevanti in determinate attività o procedure amministrative e non vale a superare quanto attestato dall'amministrazione, sino a querela di falso, dall'esame obiettivo delle risultanze documentali” (Cons. Stato, sez. V, 20 maggio 2008, n. 2352)”. Con il secondo mezzo di gravame, l’appellante deduce, ancora, la violazione del principio di affidamento, il vizio di eccesso di potere, il difetto di motivazione e di istruttoria, anche ai sensi dell’art. 97 della Costituzione, in ragione del tempo trascorso tra la realizzazione dell’abuso e l’epoca di adozione dell’ordine di demolizione.
La censura è priva di pregio, alla luce del consolidato indirizzo della giurisprudenza di questo Consiglio, secondo cui il tempo trascorso dalla realizzazione dell’abuso edilizio non costituisce il presupposto di un obbligo di motivazione rafforzato, concernente l’interesse pubblico alla demolizione dell’opera. Né grava sull’amministrazione l’onere di specificare con precisione l’esatta data di effettuazione dell’intervento edilizio oggetto dei provvedimenti repressivi dell’abuso accertato.
Non va trascurato, poi, che nel caso di specie non risulta affatto acclarato l’assunto di parte appellante riguardante l’asserita risalenza nel tempo del manufatto realizzato senza titolo.
L’appellante si duole genericamente, inoltre, della mancata valutazione delle foto aeree dell’Istituto Geografico Militare IGM del 27 luglio 1965, 11 luglio 1971 e 21 agosto 1975, le quali dimostrerebbero l’assunto della preesistenza del manufatto alla rettifica del vincolo paesaggistico gravante sull’area, intervenuta con decreto ministeriale del 3 febbraio 1969. Tale profilo di censura è infondato, per le condivisibili ragioni dettagliatamente esposte dalla sentenza impugnata, anche prescindendo dalla sua dubbia ammissibilità, per l’assenza di specifiche critiche alle argomentazioni sviluppate dal TAR. A tale scopo non possono considerarsi utili le deduzioni espresse nella parte narrativa dell’atto di appello (pagina 4), in cui si sostiene che sia le ultime due ultime foto, “con risoluzione quasi palnimetrica”, sia la prima (“seppur sfuocata”) fanno “presumere che sull’attuale particella 661 fosse presente la capanna di cui si discute”. Con altro motivo, infine, l’appellante censura la scelta dell’amministrazione di irrogare la sanzione demolitoria, anziché quella pecuniaria, vigente all’epoca di commissione dell’abuso edilizio.
L’appellante deduce, al riguardo, la violazione e falsa applicazione dell’art. 167 del codice dei beni culturali e del paesaggio, nonché la violazione degli articoli 196 e 197 della legge regionale Toscana n. 65/2014, nonché eccesso di potere e difetto di motivazione.
Anche tale censura è priva di pregio, per le ragioni diffusamente espresse dal TAR e condivise dal collegio, incentrate sul principio secondo cui l’amministrazione ha il potere di applicare il regime vigente al momento di irrogazione delle sanzioni edilizie ripristinatorie. Va aggiunto che, in ogni caso, anche seguendo l’impostazione dell’appello, circa l’inapplicabilità della disciplina attualmente vigente, resterebbe intatta la legittimità delle determinazioni comunali, le quali, nell’applicare la sanzione demolitoria, hanno adottato provvedimenti pienamente consentiti dalla legislazione vigente, in presenza dei necessari presupposti, senza dovere indicare, analiticamente, le ragioni della mancata irrogazione della sanzione pecuniaria alternativa. In conclusione, quindi, l’appello deve essere respinto.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Settima), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna l’appellante a rimborsare agli appellati le spese di lite, liquidandole in euro tremila in favore di ciascuna. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.