
Spetta al giudice verificare se l'espressione negativa contestata può essere giustificata nell'ambito di un contesto critico e funzionale all'argomentazione, così da escludere la invettiva personale volta ad aggredire personalmente il destinatario con frasi inutilmente umilianti e gravemente infamanti.
L'imputato ricorre in Cassazione avverso la sentenza della Corte d'Appello di Ancona che lo aveva condannato per il delitto aggravato di diffamazione nei confronti di un ex Ministro italiano di origine congolese nonchè al risarcimento del danno.
Tra i motivi di doglianza, il ricorrente deduce la carenza di prova e il difetto di...
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del giorno 18 gennaio 2022 la Corte di appello di Ancona, in parziale riforma della pronuncia in data 16 aprile 2019 del Tribunale di Macerata, ha assolto T.G. - che aveva interposto gravame - perché il fatto non sussiste dall'imputazione di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa, ha rideterminato in euro 1.000 di multa la pena a lui inflitta ed ha confermato nel resto la sentenza di primo grado, che ne aveva altresì affermato la responsabilità per il delitto aggravato di diffamazione nei confronti di C.K., e lo aveva condannato al risarcimento del danno (da liquidarsi in separata sede) e alla rifusione delle spese di costituzione e assistenza sostenute dalla stessa K. (in favore della quale ha disposto altresì una provvisionale dei euro 2.000) e dall'Associazione ARCI, costituitesi parte civile.
2. Avverso la sentenza di appello il difensore dell'imputato ha proposto ricorso per cassazione, articolando sei motivi (di seguito enunciati nei limiti di cui all'art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.).
2.1. Con il primo motivo è stata denunciata l'erronea applicazione dell'art. 3, commi 1 e 6, del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, conv. con mod. dalla legge 25 giugno 1993, n. 205. Secondo il ricorrente, violando il diritto di difesa ed argomentando in maniera del tutto illogica e sibillina, la Corte territoriale in forza delle stesse motivazioni avrebbe escluso la responsabilità dell'imputato per il delitto di propaganda di idee fondate sull'odio razziale (a lui ascritto al capo A.) ed avrebbe invece ritenuto sussistente l'aggravante di agito per finalità di odio etnico e razziale contestata in relazione al delitto di diffamazione (descritto al capo B. della rubrica), non considerando neppure che il reato sarebbe stato in ipotesi commesso nel 2013 quando l'art. 604-bis cod. pen. non era in vigore.
2.2. Con il secondo motivo sono state dedotte la violazione dell'art. 595 cod. pen., la carenza assoluta di prova e il difetto di motivazione in relazione all'affermazione di responsabilità del G. per il delitto di diffamazione. Ad avviso della difesa, nella frase in imputazione («K. torna in Congo») non si ravviserebbero insulti, offese o «altri elementi costitutivi del reato», né con essa sarebbero stati attribuiti alla persona offesa fatti specifici che possano incidere sul suo onore o decoro; si tratterebbe, invece, di un semplice invito a tornare nel paese di origine, espresso nell'ambito di un dibattito politico sul tema della concessione della cittadinanza secondo il principio dello ius soli (dibattito in seno al quale la persona offesa, all'epoca Ministro del Governo, aveva compulsato in più occasioni l'opinione pubblica), da intendersi come una protesta (rispetto all'introduzione del detto criterio di assegnazione della cittadinanza) e, quindi, come esercizio del diritto di critica politica e non anche come diffamazione commessa per finalità di odio etnico e razziale, a fortiori dato che alla Corte di appello ha ritenuto insussistente il reato di propaganda razzista a carico del G.. Né il possibile richiamo, da parte dell'autore dello manifesto nel quale era contenuta l'espressione, alla legislazione sulla cittadinanza vigente nella Repubblica democratica del Congo potrebbe costituire espressione offensiva connotata da odio razziale in quanto, perché una tale espressione sussista, è necessario che ricorrano un concreto pericolo di comportamenti discriminatori e un riferimento a una qualità personale del soggetto vittima e non a un suo comportamento, da apprezzarsi nel contesto di riferimento al fine di contemperare il principio di non discriminazione con la libertà di espressione.
In secondo luogo, vi sarebbe un'assoluta carenza di prova del reato poiché, a fronte della già rilevata lettera dell'espressione in imputazione, non consta che l'imputato abbia mai professato espressioni e idee razziste; in realtà, l'interpretazione in senso diffamatorio della frase in discorso sarebbe faziosa, preconcetta e fondata su mere congetture da parte dei Giudici di merito, in difetto di alcun riscontro negli atti processuali e nella motivazione.
Infine, poiché la procedibilità d'ufficio del reato consegue esclusivamente dalla sussistenza dell'aggravante in discorso, dalla corretta applicazione della legge penale deriverebbe l'improcedibilità del reato, dato che la persona offesa non ha sporto querela.
2.3. Con il terzo motivo sono state dedotte l'erronea applicazione della legge penale e il vizio di motivazione in relazione alla valutazione degli indizi a carico dell'imputato.
Il ricorso ha evidenziato che in violazione dei princìpi cui dovrebbe uniformarsi la valutazione del giudice, si sarebbe pervenuti all'affermazione di responsabilità del G. in presenza di indizi generici, interpretati a suo sfavore in violazione del principio del favor rei e, comunque, inidonei a offrire la prova della sua responsabilità al di là di ogni ragionevole dubbio. Infatti:
- tutti gli elementi in atti - come ammesso dalla stessa Corte territoriale - sarebbero di carattere indiziario e, apprezzati singolarmente, sarebbero insufficienti a costituire prova poiché generici (ad eccezione del sequestro presso la casa dell'imputato, due giorni dopo il fatto, di una macchina fotografica nella quale era stata inserita una scheda di memoria su cui erano presenti alcuni file che ritraevano il manifesto, indizio che tuttavia neppure può risultare decisivo, in difetto della prova che la stessa macchina fotografica fosse in precedenza nella disponibilità dell'imputato e che lo fosse la scheda di memoria);
- e la motivazione si sarebbe sostanziata nella mera elencazione degli indizi senza rendere una spiegazione sulla loro gravità, precisione e concordanza; né potrebbe giovare lo stigmatizzato comportamento processuale dell'imputato (il quale non avendo commesso il fatto peraltro non avrebbe dovuto prendere le distanze da nulla).
2.4. Con il quarto motivo sono state dedotte l'erronea applicazione della legge penale e il vizio di motivazione in relazione alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, fondata su un asserto apodittico che ha richiamato le modalità del fatto e i precedenti del G., relativi peraltro a reati dichiarati estinti (poiché l'imputato si è astenuto dal ripetere le condotte incriminate o ha posto in essere condotte «virtuose/riparative nei confronti della collettività») e comunque «sostanzialmente di natura bagatella re».
2.5. Con il quinto motivo sono state dedotte l'erronea applicazione della legge penale e il vizio di motivazione in relazione alla mancata concessione della sospensione condizionale della pena, negata con motivazione carente nonostante ne ricorrano i presupposti (atteso che egli ha benificiato in una sola occasione per il reato di guida in stato di ebbrezza), non essendo dato comprendere da quali elementi sia stata tratta la concreta esistenza del pericolo di reiterazione di condotte criminose (atteso che sono decorso quasi dieci anni dal fatto, senza che il G., all'epoca ventitreenne, commettesse altri reati) e in che termini abbia deposto in senso sfavorevole il suo atteggiamento processuale, richiamato in maniera apodittica.
2.6. Con il sesto motivo sono state dedotte l'erronea applicazione della legge penale e il vizio di motivazione in relazione alla mancata esclusione della parte civile ARCI. Più in particolare, nonostante la specifica richiesta difensiva avanzata in sede di conclusioni (all'udienza del 18 gennaio 2022) nel giudizio di appello, vi sarebbe una totale mancanza di motivazione e l'associazione in discorso nulla avrebbe dimostrato sia in ordine al pregiudizio patito sia a proposito del «collegamento, anche astratto, con i fatti di reato», ragion per cui sarebbe ingiustificata la liquidazione del danno e delle spese processuali in suo favore.
3. Sono pervenute: il 9 maggio 2022 dichiarazione di rinuncia alla prescrizione dell'imputato (datata 22 aprile 2022); il 25 ottobre 2022 dichiarazione di revoca della detta rinuncia (in pari data).
L'avvocato A.M.B., nell'interesse della parte civile K., ha presentato conclusioni scritte con le quali ha chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso (e confermare la sentenza impugnata anche in ordine alle statuizioni civili).
Motivi della decisione
Il ricorso è inammissibile.
1. Il primo motivo è del tutto generico.
La prospettazione difensiva non si è in alcun modo relazionata all'iter argomentativo del provvedimento impugnato (Sez. 6, n. 8700 del 21/01/2013, Leonardo, Rv. 254584 - 01; conf. Sez. 2, n. 7667 del 29/01/2015, Cammarota, Rv. 262575 - 01), che ha assolto il G. dall'imputazione di propaganda per motivi di discriminazione razziale sol perché ha ritenuto che la sua condotta non potesse qualificarsi, per l'appunto, come propaganda e non certo perché ha negato che la sua azione (segnatamente, il fatto diffamatorio per cui ha confermato la decisione di condanna di primo grado) si rapportasse ad un pregiudizio manifesto di inferiorità di una sola razza, così argomentando - può rilevarsi sin d'ora - conformemente ai princìpi posti da questa Corte, in forza dei quali la circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, razziale o religioso (già prevista - per quel che qui interessa - dall'art. 3, comma 1, d.l. n. 122/1993, cit. e, oggi, dall'art. 604-ter, comma 1, cod. pen. Ex art. 2, comma 1, lett. i), d. lgs. 1 marzo 2018, n. 21) «è configurabile non solo quando l'azione, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto in cui si colloca, risulta intenzionalmente diretta a rendere percepibile all'esterno e a suscitare in altri analogo sentimento di odio e comunque a dar luogo, in futuro o nell'immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori, ma anche quando essa si rapporti, nell'accezione corrente, ad un pregiudizio manifesto di inferiorità di una sola razza, non avendo rilievo la mozione soggettiva dell'agente» (Sez. 5, n. 307 del 18/11/2020 - dep. 2021, D'Amore, Rv. 280146 - 01; Sez. 5, n. 7859 del 02/11/2017 - dep. 2018, Serafini, Rv. 272278 - 01).
Non occorre poi dilungarsi per evidenziare che non è dato comprendere, al fine di censurare la ritenuta sussistenza dell'aggravante del delitto di diffamazione, il richiamo al tempo di commissione della condotta rispetto alla vigenza dell'art. 604-bis cod. pen., che oggi contempla il reato di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa incrimina il reato per cui è stata resa pronuncia assolutoria (il cui contenuto precettivo corrisponde a quello all'art. 3, comma primo, lett. a), L. 13 ottobre 1975, n. 654, come modificato dall'art. 1 del D.L. 26 aprile 1993, n. 122, conv. con modd. in L. 25 giugno 1993, n. 205), per cui l'imputato è stato assolto.
2. Il secondo motivo è manifestamente infondato e generico, poiché si è limitato a reiterare il medesimo ordine di allegazioni già prospettate con il gravame e disattese dalla Corte territoriale con argomentazione congrua, logica e conforme a diritto (Sez. 2, n. 7667/2015, cit; Sez. 6, n. 8700/2013, cit.).
2.1. La giurisprudenza di questa Corte di legittimità è consolidata nel ritenere che:
«in tema di diffamazione, l'esimente del diritto di critica postula una forma espositiva corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell'altrui reputazione, ma non vieta l'utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, hanno anche il significato di mero giudizio critico negativo di cui si deve tenere conto alla luce del complessivo contesto in cui il termine viene utilizzato» (Sez. 5, n. 17243 del 19/02/2020, Lunghini, Rv. 279133 - 01; cfr. pure Sez. 5, n. 15089 del 29/11/2019 - dep. 2020, Cascio Rv. 279084 - 01; Sez. 5, n. 4938 del 28/10/2010 - dep. 2011, Simeone, Rv. 249239 - 01);
- difatti, «la nozione di "critica", quale espressione della libera manifestazione del pensiero» rimanda «anche e soprattutto» all'area «della disputa e della contrapposizione, oltre che della disapprovazione e del biasimo anche con toni aspri e taglienti, non essendovi limiti astrattamente concepibili all'oggetto della libera manifestazione del pensiero, se non quelli specificamente indicati dal legislatore. I limiti sono rinvenibili, secondo le linee ermeneutiche tracciate dalla giurisprudenza e dalla dottrina, nella difesa dei diritti inviolabili, quale è quello previsto dall'art. 2 cost., onde non è consentito» - per quel che qui importa - «trasmodare nella invettiva gratuita, salvo che la offesa sia necessaria e funzionale alla costruzione del giudizio critico» (Sez. 5, n. 12180 del 31/01/2019, Valente, Rv. 276033 - 01, che richiama, tra le altre, Sez. 5 n. 37397 del 24/06/2016, C., Rv. 267866; cfr. pure Sez. 5, n. 8721 del 17/11/2017 - dep. 2018, Coppola, Rv. 272432 - 01; Sez. 1, n. 40930 del 27/09/2013, Travaglio, Rv. 257794 - 01);
- al riguardo, «occorre contestualizzare le espressioni intrinsecamente ingiuriose, ossia valutarle in relazione al contesto spazio - temporale e dialettico nel quale sono state profferite, e verificare se i toni utilizzati dall'agente, pur forti e sferzanti, non risultino meramente gratuiti, ma siano invece pertinenti al tema in discussione e proporzionati al fatto narrato e al concetto da esprimere» (Sez. 5, n. 12180/2019, cit.; Sez. 5 n. 32027 del 23/03/2018, Maffioletti, Rv. 273573);
- e il giudice - chiamato a «verificare se il negativo giudizio di valore espresso possa essere, in qualche modo, giustificabile nell'ambito di un contesto critico e funzionale all'argomentazione, così da escludere la invettiva personale volta ad aggredire personalmente il destinatario [...], con espressioni inutilmente umilianti e gravemente infamanti»: Sez. 5, n. 12180/2019, cit.; cfr. pure Sez. 5 n. 31669 del 14/04/2015, Marcialis, Rv. 264442; Sez. 5 n. 15060 del 23/02/2011, Dessì, Rv. 250174) - deve apprezzare «il contesto dialettico nel quale si realizza la condotta» Sez. 5, n. 12180/2019, cit.; Sez. 5 n. 37397/2016, cit.).
Deve, altresì, ribadirsi che «in materia di diffamazione, la Corte di cassazione può conoscere e valutare l'offensività della frase che si assume lesiva della altrui reputazione perché è compito del giudice di legittimità procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie, dovendo, in caso di esclusione di questa, pronunciare sentenza di assoluzione dell'imputato» (Sez. 5, n. 486 del 19/09/2014, Demofonti, Rv. 261284; cfr. pure Sez. 5, n. 41869 del 14/02/2013, Fabrizio, Rv. 256706).
2.2. Nel caso in esame, la Corte distrettuale ha compiutamente argomentato, in conformità con i princìpi appena ribaditi, attribuendo alla frase in imputazione («K. torna in Congo») anzitutto una concreta portata diffamatoria, in quanto ha attribuito alla persona offesa l'indegnità a fare parte del consesso dei cittadini italiani, evocandone un'asserita inferiorità alla luce delle sue origini africane e al colore della sua pelle; ed ha escluso - pur tenendo conto del contesto in cui la condotta si è collocata - che essa possa essere scriminata, in quanto l'espressione in imputazione non contiene alcuna critica alle idee della K. ma si è sostanziata nella sua denigrazione non certo necessitata dalla contestazione delle sue posizioni politiche, ossia in un'invettiva personale inutilmente umiliante. E proprio in ragione della già richiamata matrice razziale dell'espressione, conformemente ai principi già richiamati retro, ha ritenuto il fatto aggravato ai sensi dall'art. 3, comma 1, d.l. n. 122/1993, cit. (da cui consegue per esso la procedibilità di ufficio ex art. 6, comma 1, stesso d.l.).
3. Il terzo motivo è manifestamente infondato e versato in fatto.
Con esso il ricorrente ha prospettato l'«erronea applicazione della legge in ragione di una carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta», ossia soltanto un vizio di motivazione e non anche la violazione della penale pure denunciata (Sez. 5, n. 47575 del 07/10/2016, Altoè, Rv. 268404 - 01).
Per costante giurisprudenza, il sindacato di legittimità sul vizio di motivazione deve «essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico ed adeguato le ragioni del convincimento senza vizi giuridici»; e il giudice della legittimità non può essere chiamato a sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella già effettuata nei gradi di merito, dovendo piuttosto «limitarsi a verificare l'adeguatezza delle considerazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per giustificare il suo convincimento» (Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, Rv. 268360 - 01); difatti, in tema di vizi della motivazione,
«il controllo di legittimità operato dalla Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se tale giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento» (Sez. 5, n. 1004 del 30/11/1999, dep. 2000, Moro, Rv. 215745 - 01; conf. Sez. 5, n. 11910 del 22/01/2010, Casucci, Rv. 246552).
Nel caso in esame la Corte di appello ha indicato in maniera congrua gli elementi di fatto in forza dei quali ha attribuito all'imputato la paternità del manifesto contenente l'espressione in imputazione, richiamando la sua collocazione in seno al movimento Forza Nuova (la cui sigla era nel manifesto), la presenza in loco la sera del fatto, i suo contatti telefonici con altri simpatizzanti (segnatamente le congratulazioni ricevute per l'ottimo manifesto), il rinvenimento in una macchina fotografica nella sua disponibilità dei file di due ritrazioni del manifesto (in particolare l'immagine, scattata la stessa sera del fatto, identica a quella inviata alle testate giornalistiche); e rilevando la contabilità della colla trovata in un secchio nella sua abitazione con quella usata per l'affissione e della scritta riportata sul manifesto con la sua grafia (elementi questi ultimi di cui la sentenza impugnata ha evidenziato il difetto ex se di univoca capacità dimostrativa). E sulla base di tale coacervo - che ha ritenuto convergente - ha disatteso le censure difensive con una motivazione non manifestamente illogica che non può qui essere sindacata, a fortiori per il tramite del diverso apprezzamento del compendio in atti, non consentito in questa sede di legittimità, che il motivo in esame finisce col prospettare.
4. Il quarto motivo è manifestamente infondato e generico, per la dirimente considerazione che la Corte di appello ha escluso la particolare tenuità del fatto alla luce delle modalità della condotta (evidenziandone la «capacità diffusiva» dovuta alla scelta del luogo di affissione del manifesto contenente l'espressione diffamatoria) e apprezzando, quale elemento dimostrativo della gravità di essa, l'elemento soggettivo sotteso all'agire dell'imputato, tratto dai dati probatori che il provvedimento aveva già esposto (cfr. art. 133, comma 1, cod. pen.). Dunque, la motivazione non può dirsi affatto apodittica ed il ricorso non muove puntuali censure alle ragioni poste a fondamento della decisione; ed anzi esso finisce anche a questo riguardo col prospettare irritualmente un diverso apprezzamento di fatto.
5. Il quinto motivo è manifestamente infondato e versato in fatto.
La Corte di appello, nell'esercizio dell'apprezzamento discrezionale ad essa riservato,
«che postula [... ] valutazioni di puro merito (Sez. U, n. 22533 del 25/10/2018 - dep. 2019, Salerno, Rv. 275376 - 01), ha negato la sospensione condizionale della pena poiché ha escluso che il G. si asterrà dal commettere ulteriori reati, e ciò alla luce della gravità del suo comportamento (come rimarcato nel provvedimento impugnato), dal quale aveva tratto la sua capacità a delinquere tutt'altro che rudimentale, oltre che alla luce del suo atteggiamento processuale (che pure la sentenza aveva già stigmatizzato), così indicando gli elementi ritenuti prevalenti in senso ostativo (Sez. 5, n. 17953 del 07/02/2020, Filipache, Rv. 279206 - 02; Sez. 5, n. 57704 del 14/09/2017, P., Rv. 272087 - 01). E il ricorso non ha mosso alcuna censura a tale statuizione sotto il profilo centrale della ritenuta gravità del fatto e della spiccata capacità a delinquere dell'imputato. Non occorre, allora, dilungarsi per osservare che il motivo in esame ha pure prospettato elementi di fatto volti a confutare la detta prognosi sfavorevole.
6. Il sesto motivo è inammissibile per la dirimente considerazione che la censura non era stata avanzata con l'atto di appello e, dunque, non poteva essere ritualmente prospettata
- come nella specie è avvenuto - in sede di discussione innanzi alla Corte territoriale, poiché estranea all'ambito di quanto devoluto con il gravame; e tale inammissibilità può essere qui rilevata (art. 591, comma 4, cod. proc. pen.).
7. Non essendo stata in alcun modo prospettata la prescrizione del reato, essa - in ragione dell'inammissibilità del ricorso - non può essere rilevata (cfr. Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015 - dep. 2016, Ricci, Rv. 266818 - 01). Il che rende superflua ogni considerazione relativa alla rinuncia ad essa e alla successiva revoca da parte dell'imputato.
8. Ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali e al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che appare equo determinare in euro tremila, atteso che l'evidente inammissibilità dei motivi di impugnazione impone di attribuirgli profili di colpa (cfr. Corte cost., sent. n. 186 del 13/06/2000; Sez. 1, n. 30247 del 26/01/2016, Failla, Rv. 267585 - 01).
L'imputato deve, inoltre, essere condannato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile A.R.C.I., che si liquidano in complessivi euro 3.510, oltre accessori di legge. Non deve invece rendersi condanna alla rifusione delle spese in favore della parte civile K. che non ha proposto domanda in tal senso (Sez. 6, n. 19271 del 05/04/2022, Palmeri, Rv. 283379 - 01; Sez. 4, n. 2311 del
05/12/2018 - dep. 2019, Grasso, Rv. 274957 - 01)
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile A.R.C.I., che liquida in complessivi euro 3.510, oltre accessori di legge.