L'art. 1130, n. 4, c.c. pone addirittura come dovere proprio del suo ufficio quello di compiere gli atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell'edificio. Tale potere-dovere è da intendersi limitato agli atti cautelativi ed urgenti, ma esteso a tutti gli atti miranti a mantenere l'esistenza e la pienezza o integrità di detti diritti.
Una società conveniva dinanzi al Tribunale di Milano il Condominio al fine di ottenere il risarcimento dei danni derivanti da infiltrazioni di acqua verificatesi nell'unità immobiliare di sua proprietà e provenienti dal cortile condominiale.
Il Condominio resisteva in giudizio chiedendo in via riconvenzionale la condanna della società al...
Svolgimento del processo
1. – Con citazione notificata il 15 aprile 2009, la (omissis) S.r.l. conveniva, davanti al Tribunale di Milano, il Condominio di via (omissis) in Milano, al fine di ottenere il risarcimento dei danni derivanti dalle infiltrazioni di acqua verificatesi nell’unità immobiliare di sua proprietà, sita al piano interrato dell’edificio condominiale, provenienti dal cortile condominiale, con decorrenza dal 2006 fino al momento della condanna.
Si costituiva in giudizio il Condominio di via (omissis), il quale resisteva alla domanda avversaria e, in via riconvenzionale, chiedeva la condanna della società istante al risarcimento dei danni e, comunque, alla totale rimessione in pristino della situazione preesistente, in relazione ai lavori di ristrutturazione e demolizione eseguiti dalla (omissis) nel proprio immobile, che avevano reso inservibili per gli altri condomini parti comuni dell’edificio, e in particolare il sottosuolo, e determinato l’illegittima modificazione della facciata dell’edificio medesimo, in totale dispregio sia delle previsioni legali sia del regolamento condominiale.
A titolo di reconventio reconventionis, la (omissis) S.r.l. – con memoria depositata all’udienza di prima comparazione e trattazione – instava per la condanna del Condominio al risarcimento dei danni per il mancato utilizzo del bene di sua proprietà, danni quantificati nella misura di euro 670.000,00 per ogni anno di mancato utilizzo, a partire dall’1 gennaio 2005, oltre alla refusione della penale corrisposta all’impresa (omissis) per l’anticipata risoluzione del contratto di appalto riguardante opere da eseguire nella propria unità immobiliare.
Quindi, il Tribunale adito, con sentenza n. 13203/2014, depositata il 10 novembre 2014: 1) condannava parte attrice alla rimessione in pristino della situazione preesistente all’effettuazione dei lavori di scavo del sottosuolo e di modificazione della facciata dell’edificio; 2) condannava il Condominio convenuto ad effettuare i lavori indicati dal consulente tecnico d’ufficio per l’eliminazione delle infiltrazioni d’acqua presenti nell’immobile di proprietà della società attrice; 3) respingeva ogni altra domanda.
Al riguardo, la pronuncia rilevava: che era infondata l’eccezione preliminare relativa al difetto di legittimazione processuale dell’amministratore del Condominio a spiegare domanda in via riconvenzionale, atteso che in atti vi era una deliberazione assembleare del 5 ottobre 2004, la quale conferiva incarico ai legali per agire non solo in via amministrativa, ma anche per la tutela del Condominio in sede civilistica; che, comunque, l’assemblea aveva sostanzialmente ratificato l’operato dell’amministratore; che, in ogni caso, l’amministratore aveva agito per tutelare il sottosuolo dell’edificio compromesso dalle opere eseguite dall’attrice e, quindi, era legittimato, a prescindere da una specifica autorizzazione dell’assemblea condominiale, trattandosi del compimento di atti conservativi relativi alle parti comuni dell’edificio; che le opere di scavo eseguite dall’attrice nel sottosuolo dell’unità immobiliare di sua proprietà, sita ai piani terreno e seminterrato, erano lesive del diritto di comproprietà dei condomini sul sottosuolo dell’edificio, essendo vietato al singolo condomino di attrarre la cosa comune o una parte di essa nell’orbita della propria disponibilità esclusiva e di sottrarla, in tal modo, alla possibilità di godimento degli altri condomini; che parimenti erano illegittime le erosioni del muro perimetrale dell’edificio e del cavedio del Condominio, causate dalle opere eseguite dall’attrice, ricadendosi nell’ambito di innovazioni che avevano alterato il decoro architettonico del fabbricato; che le infiltrazioni lamentate dalla attrice erano dipese da incuria nella manutenzione delle parti comuni da parte del Condominio, sicché sussisteva la responsabilità di quest’ultimo per l’omessa custodia; che dalle rispettive condotte illecite delle parti non emergevano danni particolari da risarcire, comunque emendabili con la rimessione in pristino.
2. – Con citazione notificata il 28 luglio 2015, proponeva appello la (omissis) S.r.l., deducendo: l’erronea valutazione delle eccezioni inerenti al difetto di legittimazione processuale in capo all’amministratore del Condominio, l’erronea pronuncia di accoglimento della domanda di ripristino della situazione preesistente, i vizi della rilevata illegittimità dello scavo del sottosuolo e della modificazione della facciata dell’edificio, la mancata pronuncia sulle richieste di risarcimento danni avanzate.
Si costituiva nel giudizio di gravame il Condominio di via (omissis), opponendosi all’appello principale e spiegando, a sua volta, appello incidentale, con cui si doleva del mancato accoglimento della domanda di risarcimento dei danni subiti dal Condominio per il mancato godimento delle parti comuni, spettante ai singoli condomini, in conseguenza dell’abusiva occupazione delle stesse da parte dell’attrice, nonché dei danni derivanti dall’illegittima modificazione della facciata dell’edificio.
Decidendo sul gravame interposto, la Corte d’appello di Milano, con la sentenza di cui in epigrafe, in parziale accoglimento dell’appello principale, confermava la già disposta condanna della (omissis) alla rimessione in pristino della situazione preesistente all’effettuazione dei lavori di scavo nel sottosuolo dell’immobile seminterrato di sua proprietà, precisando che la quota del relativo piano di calpestio doveva essere riportata a livello di ml. 4,20, e rigettava la domanda riconvenzionale proposta dal Condominio, avente ad oggetto la condanna della (omissis) al ripristino della facciata interna dell’edificio. Quindi, dichiarava inammissibile la domanda riconvenzionale di risarcimento dei danni proposta dal medesimo Condominio e confermava le altre statuizioni contenute nella pronuncia impugnata.
A sostegno dell’adottata pronuncia la Corte territoriale sosteneva, per quanto interessa in questa sede: a) che la ribadita eccezione di carenza di legittimazione processuale attiva dell’amministratore del Condominio era parzialmente fondata, limitatamente alla proposizione della domanda riconvenzionale di risarcimento dei danni; b) che, in specie, le domande di rimessione in pristino nelle parti comuni dell’edificio asseritamente modificate (facciata interna) o sottratte all’uso degli altri condomini (sottosuolo) rientravano nelle attribuzioni proprie dell’amministratore del Condominio, in quanto riconducibili al novero degli atti conservativi relativi alle parti comuni dell’edificio;
c) che, per contro, la domanda di risarcimento dei danni, non solo non rientrava in alcuna delle attribuzioni dell’amministratore, ma ancor prima si riferiva a pregiudizi subiti, non già dal Condominio, bensì dai singoli condomini, in quanto impediti nel godimento di parti comuni dell’edificio, con la conseguenza che la legittimazione ad agire dell’amministratore avrebbe richiesto un apposito mandato da parte di ciascuno dei condomini interessati individualmente, non essendo sufficiente neppure un’autorizzazione, ancorché specifica, dell’assemblea; d) che, per l’effetto, detta domanda di risarcimento danni non poteva essere respinta nel merito, ma doveva essere dichiarata, in via pregiudiziale, inammissibile, con il conseguente assorbimento dell’appello incidentale spiegato dal Condominio; e) che, quanto alle opere di scavo effettuate nel sottosuolo dell’edificio, le risultanze delle schede catastali e le emergenze del procedimento di ATP eseguito ante causam confermavano la ricorrenza di tale opera di scavo, per una profondità di ml. 1,10; f) che la realizzata escavazione in profondità nel sottosuolo, al fine di ricavare nuovi locali o ingrandire quelli esistenti, comportava l’attrazione della cosa comune nella sfera della sua esclusiva disponibilità, con la conseguente lesione del diritto di comproprietà degli altri condomini sul bene comune, sicché si configurava uno spoglio denunciabile dall’amministratore con l’azione di reintegrazione; g) che, ancora, lo scavo realizzato costituiva innovazione lesiva del diritto di comproprietà, privando i condomini dell’uso e del godimento di una parte comune dell’edificio; h) che doveva essere accolto il motivo di gravame con il quale si contestava la disposta rimessione in pristino con riferimento all’apertura della facciata dell’edificio, e precisamente della facciata interna prospiciente il cavedio, poiché l’ausiliario del Giudice aveva riferito di non essere in grado di valutare se fossero state apportate modifiche idonee ad alterare la facciata, aumentando la dimensione delle aperture preesistenti, circostanza non comprovata neanche dalla documentazione in atti, né dalla prova testimoniale articolata; i) che, con riferimento all’eccepita omessa pronuncia in ordine alle domande di risarcimento dei danni asseritamente subiti, per effetto delle infiltrazioni d’acqua dal cortile condominiale e dei comportamenti illegittimi del Condominio, volti ad impedire l’utilizzo del bene di proprietà esclusiva della (omissis), tali domande risultavano espressamente respinte dal Tribunale, seppure sulla base di una motivazione stringata, secondo cui non sarebbero residuati danni particolari da risarcire all’esito della disposizione della rimessione in pristino; l) che, d’altra parte, con riferimento ai lamentati nocumenti da infiltrazioni d’acqua, il Giudice di primo grado aveva inteso risarcire in forma specifica, anziché per equivalente, il pregiudizio subito.
3. – Avverso la sentenza d’appello ha proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi, la (omissis) S.r.l. Ha resistito con controricorso l’intimato Condominio di via (omissis).
4. – Le parti hanno presentato memorie illustrative.
Motivi della decisione
1. – Con il primo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1130 e 1131 c.c., con riferimento anche agli artt. 460 e 1117-quater c.c., e – ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. – la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 81 c.p.c., con riferimento agli artt. 1130 e 1131 c.c., per avere la Corte di merito accolto la domanda riconvenzionale proposta dal Condominio di rimessione in pristino della situazione preesistente all’effettuazione dei lavori di scavo, disattendendo l’eccezione di difetto di legittimazione processuale attiva dell’amministratore, seppure in assenza di una valida delibera assembleare atta a conferirgli la necessaria specifica legittimazione nonché di una valida ratifica in corso di causa, ritenendo che tale azione fosse riconducibile al novero degli atti conservativi relativi alle parti comuni dell’edificio.
Deduce, sul punto, l’istante che la ricorrenza di un atto conservativo avrebbe presupposto l’insorgenza di un evento particolare, volto a postulare un rapido intervento dell’amministratore, mentre, nella specie, sarebbero difettati i requisiti di necessità e urgenza, posto che l’iniziativa processuale destinata a salvaguardare diritti sulla cosa comune era stata proposta sei anni dopo lo spoglio pretesamente subito dal Condominio.
D’altronde, aggiunge la ricorrente, le azioni a tutela delle destinazioni d’uso, volte a far cessare la violazione anche mediante iniziative giudiziarie, tra cui quella di specie, per espresso dettato normativo, avrebbero necessariamente richiesto l’autorizzazione dell’assemblea.
In ultimo, per le stesse ragioni per le quali la Corte d’appello aveva dichiarato l’inammissibilità della domanda di risarcimento danni per equivalente, conseguenti alla effettuazione dello scavo, avrebbe dovuto, allo stesso modo, dichiarare l’inammissibilità della domanda di rimessione in pristino, che avrebbe inciso sulla sfera giuridica dei singoli condomini e non del Condominio.
1.1. – La doglianza è infondata.
E tanto perché ricadono nell’ambito degli atti conservativi che l’amministratore può compiere, ai sensi dell’art. 1130, n. 4, c.c., senza la previa delibera autorizzativa dell’assemblea (o la successiva ratifica), eventualmente attraverso la promozione di azioni processuali per la tutela delle parti comuni dell’edificio, anche le iniziative non connotate dal requisito dell’urgenza, purché volte a salvaguardare l’integrità di un bene comune.
Sussiste, infatti, la legitimatio ad causam e ad processum dell’amministratore del condominio, senza bisogno di alcuna autorizzazione, allorquando egli agisca a tutela di beni condominiali, giacché i poteri promanano direttamente dalla legge e precisamente dall’art. 1130, n. 4, c.c., che pone addirittura come dovere proprio del suo ufficio quello di compiere gli atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio, potere-dovere da intendersi non limitato agli atti cautelativi ed urgenti, ma esteso a tutti gli atti miranti a mantenere l’esistenza e la pienezza o integrità di detti diritti (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5772 del 23/03/2004; Sez. 2, Sentenza n. 6494 del 06/11/1986).
Siffatta conclusione è avvalorata dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte in ordine alla portata degli “atti conservativi” che il chiamato all’eredità può compiere prima di accettare, ai sensi dell’art. 460, secondo comma, c.c.: essi si distinguono dalle azioni possessorie che possono essere intraprese ai sensi del primo comma di tale disposizione e consistono in atti di gestione dei beni indirizzati ad assicurare il mantenimento dello stato di fatto quale esistente.
La natura conservativa dell’atto non è, dunque, connotata dall’aspetto strumentale inerente all’indifferibilità del suo espletamento, bensì dal vincolo teleologico da cui è avvinto il suo compimento, essenzialmente indirizzato a preservare l’integrità fisica e giuridica nonché la consistenza materiale del bene comune (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6190 del 03/05/2001; Sez. 2, Sentenza n. 13611 del 12/10/2000; Sez. 2, Sentenza n. 6593 del 11/11/1986; Sez. 2, Sentenza n. 3510 del 28/05/1980).
Nella fattispecie, la rimessione in pristino dello stato del sottosuolo, di cui il condomino si è appropriato attraverso le opere di escavazione volte ad ingrandire il bene di sua proprietà esclusiva, costituisce azione propria diretta a far cessare la privazione di un bene comune, sicché il suo esperimento non era condizionato alla esclusiva formulazione di azioni possessorie o d’urgenza. Sono, infatti, atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio, sia gli atti materiali (riparazioni di muri portanti, di tetti e lastrici) sia quelli giudiziali (azioni contro comportamenti illeciti posti in essere da terzi), necessari per la salvaguardia dell’integrità dell’immobile, indipendentemente dal momento in cui essi siano avviati rispetto all’epoca di realizzazione delle condotte lesive di beni comuni.
Né la radicale privazione di tale bene può essere assimilata al mutamento della sua destinazione d’uso.
D’altronde, nessuna contraddizione è integrata per effetto della discriminazione tra tutela in forma specifica del bene comune mediante sua restitutio in integrum e azione risarcitoria connessa alla lesione di tale bene. Solo per quest’ultima è preclusa all’amministratore la proposizione, in difetto di mandato rappresentativo dei singoli condomini, delle azioni risarcitorie per i danni subiti dalle unità immobiliari di loro proprietà esclusiva (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 3846 del 17/02/2020; Sez. 2, Sentenza n. 217 del 12/01/2015; Sez. 2, Sentenza n. 22656 del 08/11/2010).
2. – Con il secondo motivo la ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1117 e 840 c.c., per avere la Corte distrettuale disposto la condanna alla rimessione in pristino della situazione preesistente ai lavori di scavo, senza verificare la riconducibilità del sottosuolo al novero delle parti dell’edificio necessarie all’uso comune.
Al riguardo, l’istante osserva che, nel caso di specie, l’edificio si sviluppava su muri, pilastri e altri manufatti d’appoggio, sicché il suolo avrebbe potuto essere considerato proprietà comune solo per la parte necessaria al suo sostentamento, né la proprietà condominiale avrebbe potuto estendersi sino alla porzione oggetto dello scavo posta ad una quota superiore rispetto al livello delle fondazioni.
2.1. – La censura è infondata.
E tanto perché la zona esistente in profondità, al di sotto dell’area superficiaria che è alla base dell’edificio, in mancanza di un titolo che attribuisca ad alcuno di essi la proprietà esclusiva, rientra per presunzione in quella comune tra i condomini, anche ai sensi del disposto dell’art. 1117 c.c. all’esito della novella di cui alla legge n. 220/2012. Nessuno di costoro, pertanto, può, senza il consenso degli altri, procedere all’escavazione del sottosuolo per ricavarne nuovi locali o per ingrandire quelli preesistenti, in quanto, attraendo la cosa comune nell’orbita della sua disponibilità esclusiva, limiterebbe l’altrui uso e godimento ad essa pertinenti (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 33163 del 16/12/2019; Sez. 6-2, Ordinanza n. 29925 del 18/11/2019; Sez. 2, Sentenza n. 6154 del 30/03/2016; Sez. 3, Sentenza n. 15383 del 13/07/2011).
E ciò a prescindere dalla funzione portante in concreto dell’edificio esercitata dal suolo.
Nella fattispecie, è pacifico che il condomino proprietario del piano seminterrato non vanti alcun titolo dominicale sul suolo sottostante il suo immobile, sicché – in base alla predetta presunzione – deve ritenersi che il bene rientri tra quelli condominiali.
3. – Con il terzo motivo la ricorrente contesta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1102 c.c., anche con riferimento all’art. 1117 c.c., per avere la Corte territoriale ritenuto che la mera attrazione della porzione di un bene comune nella disponibilità di utilizzo di un solo condomino concretizzasse automaticamente una violazione tutelabile, mentre l’auspicata protezione giudiziaria avrebbe presupposto l’indagine sull’alterazione della destinazione del bene e sull’impedimento per gli altri partecipanti di farne parimenti uso.
Obietta, in proposito, l’istante che avrebbe dovuto farsi riferimento alla distinzione tra beni comuni che svolgono una funzione particolare, di cui ciascun condomino può beneficiare in via diretta, essendo suscettibili di godimento da parte del singolo anche su ogni loro frazionata porzione, e beni comuni che svolgono una funzione generale, di cui ciascun condomino può beneficiare in via solamente indiretta, essendo suscettibili di godimento da parte del singolo solo nella loro integralità, quali appunto il suolo, con la conseguenza che la preclusione al pari uso – corrispondente all’esercizio di un diritto di godimento diretto – non avrebbe potuto riferirsi al suolo.
3.1. – La censura è inammissibile.
E ciò perché il Giudice del gravame ha disposto la rimessione in pristino della situazione preesistente allo scavo sulla scorta di due ragioni concorrenti, ciascuna delle quali da sola sufficiente a giustificarne l’esito. Segnatamente è stata prospettata, per un verso, la privazione di un bene comune alla stregua della consistenza in sé dello scavo (ml. 1,10 di abbassamento del livello del pavimento) e, per altro verso, l’alterazione della destinazione del bene comune per effetto dello scavo.
Ne discende che non ha alcuna utilità pratica lo scrutinio del mezzo di critica volto a contestare l’incidenza dello scavo sulla funzione di sostegno alla stabilità dell’edificio o sull’idoneità dell’intervento a pregiudicare l’interesse degli altri condomini al pari uso della cosa comune (su cui si richiama Cass. Sez. 2, Sentenza n. 19915 del 22/09/2014), una volta che sia stata disattesa l’altra ratio decidendi, da sola idonea a sorreggere la decisione, in base al giudizio di fatto non sindacabile in sede di legittimità (se non nei limiti di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.), secondo cui il condomino ha proceduto ad un’appropriazione di una porzione rilevante del sottosuolo, che ha comportato una modifica significativa del bene condominiale, in rapporto alla sua estensione e alla destinazione della modifica stessa, e che perciò non si può spiegare soltanto come modalità di uso più intenso della cosa comune da parte del condomino, in prospettiva del migliore godimento dell’unità immobiliare di proprietà esclusiva.
Qualora, infatti, la decisione di merito si fondi su una pluralità di ragioni, tra loro distinte e autonome, singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza delle censure mosse ad una delle rationes decidendi rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 31211 del 21/10/2022; Sez. 5, Ordinanza n. 11493 del 11/05/2018; Sez. 3, Sentenza n. 2108 del 14/02/2012).
4. – Con il quarto motivo la ricorrente si duole, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., dell’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, nonché – ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. – della violazione e/o falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., in ordine al valore probatorio del fatto non contestato, per avere la Corte d’appello tralasciato di valutare: a) la relazione asseverata, completa di elaborati grafici conformi, da cui sarebbe emersa una diversa consistenza della profondità dello scavo; b) il rilievo circa la carenza di un’automatica corrispondenza tra il preteso aumento di altezza del locale per cui è causa e la pretesa occupazione di sottosuolo, essendo l’aumento di altezza in buona misura attribuibile alla riduzione dello spessore del pavimento, la cui proprietà esclusiva faceva capo alla (omissis), per assenza di qualsivoglia funzione strutturale in uno stabile dei primi del 900, che risultava fondato esclusivamente sui muri perimetrali e su alcuni plinti centrali, la cui quota d’appoggio era molto inferiore a quella del pavimento.
4.1. – Il motivo è inammissibile.
Esso mira a una rivalutazione dei fatti non sindacabile in sede di legittimità (Cass. Sez. U, Sentenza n. 34476 del 27/12/2019; Sez. 6-3, Ordinanza n. 8758 del 04/04/2017), viola il divieto di impugnativa per omesso esame nell’ipotesi di doppia conforme (Cass. Sez. 6-2, Ordinanza n. 7724 del 09/03/2022; Sez. 1, Sentenza n. 26774 del 22/12/2016; Sez. 2, Sentenza n. 5528 del 10/03/2014) ed è volto a scardinare un convincimento del giudice, fondato su ragioni meramente valutative (Cass. Sez. 6- 2, Ordinanza n. 27847 del 12/10/2021; Sez. 2, Ordinanza n. 20553 del 19/07/2021; Sez. 3, Sentenza n. 15276 del 01/06/2021; Sez. U, Sentenza n. 20867 del 30/09/2020).
5. – Il quinto motivo investe, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2043, 2051, 2056, 2058 e 1223 c.c., per avere la Corte distrettuale confermato il rigetto delle domande di risarcimento danni per equivalente, sostenendo, dapprima, che il gravame fosse avvenuto solo per omessa pronuncia – mentre in realtà il Giudice di primo grado si era pronunciato – e reputando, poi, che la domanda di rimessione in pristino, in quanto ipotesi di tutela in forma specifica, avrebbe avuto una valenza pienamente satisfattiva anche di eventuali pregiudizi di cui si invocava il risarcimento per equivalente.
5.1. – La critica è inammissibile.
E ciò nonostante, in astratto, le due forme di tutela risarcitoria in ordine allo stesso fatto lesivo possano coesistere, allorché la rimessione in pristino sia finalizzata a inibire la protrazione del nocumento (per il futuro) e il risarcimento per equivalente sia diretto a consentire la riparazione dei pregiudizi già consolidati (per il passato), con precipuo riguardo alle condotte illecite permanenti destinate a produrre effetti prolungati nel tempo.
Infatti, il mezzo di critica non aggredisce la ratio decidendi fatta propria dal Giudice d’appello (e già esposta dal Giudice di prime cure), secondo cui, all’esito della disposizione della rimessione in pristino, non sono emersi, in ragione delle condotte illecite perpetrate, danni particolari da risarcire per equivalente, così negandosi l’integrazione di un danno per mancata disponibilità dell’immobile (Cass. Sez. U, Sentenza n. 33659 del 15/11/2022).
In altri termini, il Giudice di merito ha ritenuto che, per effetto delle infiltrazioni – provenienti dal cortile condominiale –, subite dal locale seminterrato destinato a laboratorio, che la società proprietaria acquirente intendeva sfruttare commercialmente ospitandovi mostre, esibizioni, ricorrenze e piccoli eventi in genere, all’esito degli interventi edilizi di risanamento realizzati, non si fosse determinato pregiudizio alla concreta possibilità di esercizio del diritto di godimento, diretto o indiretto mediante concessione del godimento ad altri dietro corrispettivo.
Non si tratta, infatti, di un danno automaticamente integrato alla stregua della realizzazione della condotta illecita, ove appunto si escluda che il contegno illecito posto in essere – pur suscettibile di tutela inibitoria, volta ad impedirne la reiterazione (nella specie, la persistenza delle infiltrazioni d’acqua) – abbia cagionato nocumento alla facoltà di godimento della cosa.
6. – Conseguentemente, il ricorso deve essere rigettato.
Le spese e i compensi di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento – ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 -, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla refusione, in favore del controricorrente, delle spese di lite, che si liquidano in complessivi euro 4.200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.