Non basta che il mediatore abbia messo in relazione le parti per conferire all'intervento di questi il carattere di adeguatezza.
L'attrice domandava l'accertamento del rapporto di mediazione ex art. 1754 c.c. intercorso tra costei ed i convenuti (rispettivamente venditore e acquirente di un immobile), l'accertamento della causalità del suo intervento nella conclusione del contratto di compravendita immobiliare tra i convenuti e la condanna di quest'ultimi al pagamento...
Svolgimento del processo
A.R., già titolare della ditta (omissis) e legale rappresentante della (omissis) s.r.l., ha impugnato in cassazione la sentenza di secondo grado di conferma della pronuncia di primo grado, che ha rigettato le domande da costei proposte nei confronti di F.R. e N.M.. In particolare, l’attrice ha domandato: (a) l’accertamento del rapporto di mediazione ex art. 1754 c.c. intercorso tra costei ed i convenuti, nonché l’accertamento della causalità del suo intervento nella conclusione del contratto di compravendita immobiliare tra i convenuti; (b) l’accertamento della simulazione del prezzo di acquisto indicato nel rogito, nonché l’accertamento dell'effettivo prezzo di vendita; (c) la condanna dei convenuti al pagamento del compenso di mediazione. In via subordinata, per il caso che sia accertata la cooperazione di più mediatori, l’attrice chiede: (d) l'accertamento della misura della provvigione che le spetta, sia da parte del venditore che dell’acquirente, con condanna dei convenuti al pagamento.
Nel costituirsi in giudizio, per quanto rileva ancora in questa sede, F.R. rileva che le persone messe in contatto tra di loro dall’attrice siano differenti dalle parti della compravendita de qua; afferma che, dopo la scadenza del contratto con la (omissis), si è rivolto ad un’altra agenzia, la «(omissis)» di C.A., con la quale ha sottoscritto un nuovo contratto di mediazione; eccepisce che la vendita si è conclusa per effetto esclusivo dell’intervento del secondo mediatore e che quindi nessuna provvigione è da riconoscere all'attrice; aggiunge che il prezzo di vendita indicato nel rogito, in assenza di diversa prova, è l'unico parametro di determinazione del compenso da riconoscere eventualmente all’attrice.
Nel costituirsi in giudizio, per quanto rileva ancora in questa sede, N.M., acquirente dell'immobile in comunione con il marito, ritiene che nessun rapporto sia intercorso tra l’attrice e lei, che si è limitata ad accompagnare sua madre, signora P., all’epoca interessata all’acquisto. Chiama in causa il secondo mediatore, che ha ricevuto da lei il compenso, per essere tenuta indenne rispetto alla quota di provvigione eventualmente dovuta all’attrice.
Nel costituirsi in giudizio, «(omissis)» di C.A. conferma di aver messo in contatto il venditore R. e l’acquirente M.; sostiene di aver rinunciato al compenso dovuto dal venditore e di aver ricevuto la provvigione esclusivamente dagli acquirenti, in misura inferiore al dovuto.
Nella sentenza di primo grado, per quanto ancora rileva in questa sede, il Tribunale di Bologna ha rigettato le domande attoree, ritenendo che: (a) la vicenda sia da inquadrare giuridicamente come mediazione; (b) l'attività dell’attrice non abbia avuto incidenza causale determinante nella conclusione dell'affare, che si è perfezionato per effetto dell'attività svolta in via autonoma da altra agenzia; (c) l’art. 1758 c.c. (sul diritto pro quota alla provvigione in caso di pluralità di mediatori) sia inapplicabile.
Il ricorso in cassazione è affidato a quattro motivi, illustrati da memoria. Resistono F.R. e N.M. con due controricorsi, illustrati rispettivamente da memorie.
Motivi della decisione
1.1. – Con il primo motivo, proposto ex art. 360, n. 3 e n. 4 c.p.c., si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 132 e 342 c.p.c., per avere la Corte di appello rigettato il primo motivo di gravame in quanto generico e privo di una specifica indicazione delle parti della sentenza di primo grado oggetto di censura. In particolare, la parte ricorrente assume che il giudice di secondo grado abbia applicato l’art. 342 c.p.c. nella versione vigente dal 2012, mentre il giudizio d’appello de quo è sottoposto ancora al vecchio regime, essendo stato instaurato nel 2011.
1.2. - Il primo motivo non è fondato. Il giudice di secondo grado non ha applicato l’art. 342 c.p.c., che sancisce l’inammissibilità dell’appello privo dei requisiti ivi previsti. È vero che la Corte ha parlato di «assenza di una specifica indicazione delle parti della motivazione oggetto di censura» e che, nell’esprimersi così, può ben essere stata influenzata dalla nuova versione dell’art. 342 c.p.c., ma si tratta di un accidentale condizionamento imitativo-lessicale, privo di effetti giuridico-processuali, che altrimenti si sarebbero tradotti in termini di dichiarazione d’inammissibilità del motivo d’appello. Invece, esso è stato dichiarato infondato nel merito, con un’argomentazione che la ricorrente sottopone a censura con il secondo motivo di ricorso, oggetto di esame nel successivo paragrafo.
In conclusione, il primo motivo è rigettato.
2.1. - Con il secondo motivo, proposto ex art. 360, n. 3, n. 4 e n. 5 c.p.c., si deduce, sotto un primo profilo, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1754, 1755 e 1758 c.c.; si deduce inoltre, sotto un secondo profilo, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 c.c., nonché di conseguenza la nullità della sentenza per viola- zione dell’art. 132, co. 2, n. 4 c.p.c.; si deduce infine, sotto un terzo profilo, l’omesso esame di fatti decisivi.
È opportuno innanzitutto distinguere nettamente tra di loro il primo profilo del motivo dagli altri due, non tanto perché il secondo e il terzo profilo hanno un ruolo ancillare rispetto al primo (e quindi saranno esaminati successivamente), ma soprattutto perché è il primo che solleva la centrale questione di violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto sostanziale. In particolare, alla stregua di tale profilo del secondo motivo, la Corte d’appello avrebbe applicato falsamente gli artt. 1754, 1755 c.c. poiché ha escluso che il diritto del mediatore sorga sol che questi abbia messo in relazione le parti e così abbia posto l’antecedente indispensabile per pervenire alla conclusione del contratto, secondo i principi della causalità adeguata, quand’anche egli non intervenga poi in ogni fase della trattativa e il processo di formazione della volontà negoziale delle parti sia complesso e articolato nel tempo.
2.2. - La quaestio iuris è la seguente: al fine di considerare che la conclusione dell’affare sia l’effetto dell’intervento del mediatore, è sufficiente o meno che questi abbia messo in relazione le parti e così abbia posto l’antecedente indispensabile per pervenire alla conclusione del contratto? La tesi giuridica sostenuta dalla ricorrente si risolve sostanzialmente nella risposta positiva a questa domanda, come si può desumere dall’accento che costei pone sulla «messa in relazione» delle parti da parte del mediatore, mentre è fatto scivolare in secondo piano il carattere adeguato dell’apporto causale di quest’ultimo, al fine di affermare che la conclusione dell’affare sia l’effetto dell’intervento del mediatore.
2.3. - Il Collegio reputa che tale tesi – pur argomentata con valorizzazione defensionale degli indirizzi giurisprudenziali a proprio vantaggio - non possa essere condivisa.
La tesi non può essere accolta – si badi bene – non già solo a cagione dell’intervento autonomo di un secondo mediatore (al quale un peso nella vicenda dovrà pur essere accordato). Infatti, l’intervento di un secondo mediatore non spezza di per sé il nesso di causalità tra l’opera del primo mediatore e la conclusione dell’affare. Ciò si ricava univoca- mente e direttamente dalla disciplina legislativa, cioè dalla presenza di una disposizione quale l’art. 1758 c.c., e trova conferma in giurisprudenza (così, tra le altre, Cass. 25762/2018).
La tesi non può incontrare consenso, poiché altrettanto univoco, in quanto direttamente desumibile dalla disciplina legislativa, è che la messa «in relazione di due o più parti per la conclusione di un affare» (art. 1754 c.c.) non è elemento sufficiente, di per sé, a far ritenere che l’affare sia «concluso per effetto» dell’intervento del mediatore (art. 1755 c.c.).
Ciò si ricava dalla interdipendente distinzione di ruolo e di portata normativa tra l’art. 1754 c.c. e l’art. 1755, co. 1 c.c. In sé considerata, la prima disposizione si limita a definire la figura del mediatore come «colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare, senza essere legato ad alcuna di esse da rapporti di collabora- zione, di dipendenza o di rappresentanza». Considerato invece nella sua relazione con l’art. 1755, co. 1 c.c., l’art. 1754 c.c. consegue una portata normativa ulteriore rispetto al carattere esclusivamente definitorio che gli è proprio in sé. La portata è di ordine negativo: diretta a negare, per l’appunto, che la semplice messa in relazione delle parti sia requisito idoneo, di per sé, a far reputare l’affare concluso per effetto dell’intervento del mediatore.
2.4. - Ci si persuade di ciò già se si pensa al circolo essenzialmente vizioso in cui si risolverebbe l’art. 1755, co. 1 c.c., ove fosse riscritto alla luce della tesi criticata. La riscrittura suonerebbe così: «colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare ha diritto alla provvigione […], se l'affare è concluso per effetto della semplice messa in relazione delle parti». In altre parole, due e distinte sono le domande: (a) chi è il mediatore (art. 1754 c.c.); b) che cosa deve fare il mediatore per avere diritto alla provvigione (art. 1755, co. 1 c.c.). Non si può rispondere alla seconda domanda, evocando più o meno sic et simpliciter la risposta alla prima, altrimenti il senso normativo dell’art. 1755, co. 1 c.c. si appiattirebbe su quello dell’art. 1754 c.c. La nozione di causalità efficiente dell’intervento del mediatore ac- colta dall’art. 1755, co. 1 c.c. si ridurrebbe a considerare quest’ultimo una condicio sine qua non della conclusione dell’affare.
Di ciò è consapevole la giurisprudenza di questa Corte, come si può ricavare in controluce dalla stessa analisi condotta dalla parte ricorrente, ove si restituisca in primo piano ciò che quest’ultima, in una prospettiva defensionale, richiama fuggevolmente: il concetto di causalità adeguata, cioè la portata normativa della qualificazione di adeguatezza dell’opera del mediatore, laddove la giurisprudenza ricostruisce nel caso concreto l’efficienza causale dell’intervento del mediatore rispetto alla conclusione dell’affare (cfr., fra le più recenti, Cass. 11443/2022, 3134/2022, 7029/2021, 5495/2021, 4644/2021, 3055/2020).
2.5.- È appena il caso di ricordare che la nozione di «causalità adeguata» è stata sviluppata proprio al fine di mitigare la rigorosa imputazione dell’evento in base alla causalità condizionalistica (o della condicio sine qua non), nel senso che non tutte le condizioni sono considerate cause. Mutato ciò che si deve mutare nel passaggio da una branca del diritto all’altra, nel quadro dei rapporti tra art. 1754 e art. 1755, co. 1 c.c., il riferimento giurisprudenziale alla causalità adeguata assolve alla medesima funzione: di evitare che la causalità efficiente dell’intervento del mediatore di cui all’art. 1755, co. 1 c.c. si riduca alla causalità condizionalistica, si appiattisca cioè sulla definizione della figura del mediatore di cui all’art. 1754 c.c.
In altri termini, la nozione di causalità adeguata serve a rendere elastico il termine «effetto» di cui all’art. 1755, co. 1 c.c., nonostante sia prima facie percepibile la sua sudditanza linguistica alla teoria della causalità condizionalistica, se non della causalità naturale («causa-effetto»). Il concetto di «effetto» si arricchisce della qualità della «adeguatezza».
2.6. - Con sguardo riassuntivo che si volge al caso di specie, si devono riconoscere infatti due dati.
In primo luogo, la ricostruzione di «effetto adeguato» o di «efficienza causale adeguata» dell’intervento del mediatore rispetto alla conclusione dell’affare si muove elasticamente all’interno di un campo delimitato, ai due capi opposti, da due elementi rigidi, di ordine negativo: (a) di per sé, la semplice messa in relazione delle parti ad opera del primo mediatore non è sufficiente ad integrare l’efficienza causale adeguata ex art. 1755, co. 1 c.c.; (b) di per sé, il semplice intervento di un secondo mediatore non è sufficiente a privare ex post l’opera del primo mediatore della sua qualità di adeguatezza ex art. 1755, co. 1 c.c.
Il secondo dato è che la ricostruzione in positivo dell’efficienza causale adeguata dell’opera del mediatore è frutto dell’applicazione di un termine elastico, qual è quello di effetto adeguato di cui all’art. 1755, co. 1 c.c., nel senso precisato nel capoverso precedente.
2.7. - A proposito dell’adeguatezza dell’effetto di cui all’art. 1755, co. 1 c.c., si può richiamare pertanto il consolidato orientamento sul sindacato delle norme elastiche (rectius, delle disposizioni con parole o sintagmi elastici): esse sono «disposizion[i] di contenuto precettivo ampio e polivalente, destinato ad essere progressivamente precisato, nell'estrinsecarsi della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, fino alla formazione del diritto vivente mediante puntualizzazioni di carattere generale ed astratto», per cui «l'operazione valutativa, compiuta dal giudice di merito […] non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità» (così, tra le molte, Cass. 12789/2022).
Orbene, l’osservazione del caso di specie non offre al Collegio occasione di compiere puntualizzazioni correttive dell’applicazione compiuta dai giudici di merito. Al fine di escludere l’efficienza causale adeguata dell’opera del primo mediatore rispetto alla conclusione della compravendita pesano in particolare le seguenti circostanze, così come correttamente apprezzate dai giudici nelle due istanze di merito: (a) la parte interessata all’acquisto che è stata messa in relazione con il venditore dalla ditta (omissis) in esecuzione dell’incarico ricevuto da quest’ultimo è la signora P. (madre di N.M.), che non coincide con la parte acquirente nella compravendita de qua (N.M., che ha accompagnato la madre nelle visite all’immobile svoltesi nel periodo di efficacia dell’incarico alla ditta (omissis)); (b) l’affare si è concluso dopo un lasso di tempo significativo dalla scadenza dell’incarico conferito al primo mediatore; (c) il venditore si è rivolto ad un secondo mediatore, la cui opera – autonoma rispetto a quella del primo – ha avuto un ruolo di efficienza causale adeguata rispetto alla conclusione dell’affare.
Merita di sottolineare che – ad avviso del Collegio – nessuna di queste circostanze isolatamente considerata è in grado di giustificare un giudizio di correttezza dell’operazione ermeneutica dei giudici di merito. Esse cospirano a fondare un tale giudizio solo nella loro concomitanza nell’intero arco temporale della vicenda, nonché nel loro intreccio.
2.8. – La forza persuasiva che tale concomitante intreccio conferisce all’apprezzamento compiuto dai giudici di merito non è scalfita dalle censure articolate nel secondo e terzo profilo del secondo motivo. Alla stregua del secondo profilo, la ricorrente si lamenta che la seconda visita dell’immobile da parte di N.M. non sia stata valutata come un indizio grave, preciso e concordante con altri indizi (ex art. 2729 c.c.), idoneo a contribuire a provare l’efficienza causale dell’attività del mediatore adeguata all’effetto della successiva conclusione dell’affare. Tale difetto di valutazione ridonderebbe nella violazione dell’art. 2697 c.c., poiché la Corte ha ritenuto che la ditta (omissis) abbia mancato di fornire prove sufficienti del fatto costitutivo del diritto alla provvigione, e si rifletterebbe anche nell’omessa motivazione.
Alla stregua del terzo profilo del secondo motivo, la ricorrente censura che la Corte abbia omesso di esaminare ulteriori circostanze dalle quali si desumerebbe la consapevolezza che gli altri partecipanti della vicenda (le parti della compravendita, il secondo mediatore) hanno avuto del ruolo determinante del primo mediatore nella conclusione dell’affare. Si tratta in particolare delle circostanze che il secondo mediatore ha rinunciato a percepire la provvigione da parte del venditore ed ha concesso uno sconto anche all’acquirente.
I due profili si risolvono sostanzialmente nel questionare la prudenza o ragionevolezza dell’accertamento del giudice di merito circa i fatti rilevanti. Ciò vale in modo manifesto per il terzo profilo, che riguarda appunto l’omesso esame di circostanze decisive. Ma non vale in misura minore per il secondo motivo, ché l’episodica questione di violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto colà proposta – sotto specie di censura relativa agli artt. 2729 e 2697 c.c. - concerne pur sempre il mancato apprezzamento di un fatto (la seconda visita) come fatto se- condario fonte di presunzioni idonee alla prova dell’efficienza causale adeguata dell’attività del mediatore.
È evidente che il giudizio che si fonda sul concomitante intreccio delle circostanze elencate nel paragrafo precedente non può essere scalfito nel suo carattere di prudenza e di ragionevolezza dalla valutazione del peso da attribuire alle circostanze di una seconda visita all’immobile, dell’esonero dalla corresponsione della provvigione, che il venditore ottiene dal secondo mediatore, e dello sconto praticato da quest’ultimo all’acquirente. Pertanto, gli apprezzamenti giudiziali bersagliati dal secondo e terzo profilo del secondo motivo di ricorso non potrebbero essere ribaltati in sede di legittimità se non al prezzo che questa Corte indebitamente sostituisca sic et simpliciter il proprio accertamento a quello proprio del giudice di merito (cfr. il significativo aggettivo possessivo «suo» impiegato dall’art. 116, co. 1 c.p.c.).
In conclusione, il secondo motivo non è fondato nel suo complesso ed è pertanto rigettato.
3. – Con il terzo motivo, proposto ex art. 360, n. 4 c.p.c., si deduce la nullità della sentenza e del procedimento per violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 132 e 246 c.p.c. per avere la Corte d’appello «con decisione sul punto del tutto priva di motivazione, confermato una incapacità [della teste B.L. a testimoniare] non pronunciata dal primo giudice e fondato immotivatamente ed apoditticamente il suo convincimento su tale inesistente presupposto».
Il motivo è da dichiarare inammissibile. Dal brano rilevante della sentenza di primo grado emerge che: «non è invece stato efficacemente dimostrato in causa che tale prima visita sia stata seguita da una seconda […], stante la ritenuta incapacità a testimoniare dell'unica teste dedotta dalla attrice (L.B.). Sul punto si osserva quanto segue: anche a ritenere che non ricorresse nella fattispecie interesse concreto della teste tale da prefigurare la incapacità a testimoniare ex art. 246 c.p.c., reputa questo giudice che alla luce dei dati tutti di giudizio emergenti agli atti la testimonianza sia da valutarsi superflua ai fini del decidere».
Il motivo di ricorso muove dal presupposto erroneo che il giudice di primo grado non si sia pronunciato nel senso della incapacità della teste B.L. a testimoniare. In realtà, come si è potuto constatare dalla lettura del brano rilevante, la decisione di non ammettere la de- posizione della teste si fonda vuoi sulla «ritenuta incapacità a testimoniare», vuoi sulla valutazione di superfluità della testimonianza ai fini del decidere. Viceversa, l’argomentazione del terzo motivo concentra le proprie censure solo sui vizi da cui sarebbe affetta la decisione basantesi «semplicemente» sulla seconda delle due ragioni (la superfluità della testimonianza).
Orbene, si osserva che ove una pronuncia sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l'omessa impugnazione di una di esse (nel caso di specie: di quella relativa all’incapacità a testimoniare) rende inammissibile la censura relativa alle altre. Infatti, quand’anche tale censura fosse fondata, essa non potrebbe sfociare nell’annullamento della sentenza sul punto incompletamente censurato, essendo divenuta definitiva l'autonoma motivazione non impugnata (in questo senso, tra le molte, cfr. Cass. 17182/2020).
In conclusione, il terzo motivo è inammissibile.
4. - Con il quarto motivo, proposto ex art. 360, n. 3 c.p.c., si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1365, 1366 e 1369 c.c. per avere la Corte d’appello trascurato di applicare una clausola contrattuale dell’accordo tra la ditta (omissis) e F.R.. Pertanto, il quarto motivo coinvolge soltanto la posizione di quest’ultimo.
Con tale motivo si deduce in particolare che la Corte d’appello abbia trascurato di applicare una clausola contrattuale dell’accordo tra la ditta (omissis) e F.R.. Tale clausola prevede: «In caso di vendita effettuata direttamente nel periodo dell'incarico, in caso di vendita effettuata direttamente dopo la scadenza a clienti da Voi presentati nel periodo dell'incarico e per revoca del presente, Vi sarà corrisposta una somma, a titolo di penale, pari al 75% del compenso pattuito».
Il quarto motivo di ricorso è fondato nel senso specificato di seguito. Esso è stato già proposto come motivo di gravame e la Corte d’appello lo ha rigettato poiché, alla stregua di una interpretazione secondo buona fede, ha ritenuto che la clausola non dovesse applicarsi al caso di specie, in cui il venditore non ha effettuato una vendita direttamente, ma si è avvalso dell’opera di un secondo mediatore. Viceversa, la clausola avrebbe potuto trovare applicazione nel caso in cui R. avesse approfittato dell’attività svolta dalla ditta (omissis) per concludere direttamente la compravendita, dopo la scadenza dell’incarico, senza l’apporto di alcun altro mediatore. Al contrario, nel caso di esame - conclude la Corte d’appello – la conclusione dell’affare è avvenuta, a distanza di un apprezzabile lasso di tempo rispetto alla scadenza del primo incarico, con l’intervento di un secondo mediatore, incaricato in modo autonomo dal primo.
Con tale argomentazione, il giudice d’appello ha violato innanzitutto l’art. 1362 c.c., privilegiando unilateralmente l’interpretazione letterale dell’avverbio «direttamente» rispetto alla comune intenzione delle parti, quale può essere ricostruita in modo relativamente agevole dalla qualificazione giuridica che costoro hanno attribuito alla clausola de qua, dal contenuto negoziale di quest’ultima, nonché dal comportamento delle parti anche posteriore alla conclusione dell’accordo. Con ciò la Corte d’appello ha sostanzialmente rovesciato l’ordine di priorità fissato dall’art. 1362 c.c. per l’impiego dei canoni ermeneutici dei contratti.
Innanzitutto, le parti hanno espressamente qualificato la clausola come «penale». La qualificazione è corretta, con la precisazione che essa è diretta a determinare previamente e in modo forfettario l’ammontare della cifra dovuta a titolo di indennizzo per l’attività svolta dal mediatore nell’interesse del venditore nel periodo di vigenza dell’incarico, indipendentemente dal fatto che l’affare si sia successivamente concluso per effetto dell’intervento del mediatore. L’irrilevanza del contributo causale dato dall’attività del mediatore alla posteriore conclusione della compravendita emerge dall’elemento portante della fattispecie cui la clausola collega l’obbligo del pagamento al 75% del compenso pattuito. L’elemento è che il compratore rientri nel novero delle persone che il mediatore ha presentato al venditore. Infatti, nella struttura e nella funzione della clausola, fondamentale è il contributo dato dal mediatore all’individuazione della controparte, non già la mera modalità (diretta o indiretta, mercé l’intervento di un secondo mediatore) con cui si è concluso l’affare.
In primo luogo, tale elemento è indizio che la funzione della penale non è afflittiva (a cagione d’un ipotetico inadempimento, che invece non esiste nemmeno nella supposizione delle parti, come si può desumere dall’aggiunta «per revoca del presente»: in realtà ultronea, ma pur sempre indice dell’intenzione), bensì indennitaria delle spese incontrate dal mediatore nel mettere in contatto le parti. In secondo luogo, tale elemento nel suo essere condizione necessaria e sufficiente al sorgere dell’obbligo pecuniario esclude la rilevanza di qualsiasi altro aspetto. Esso rende cioè irrilevante che la conclusione dell’affare sia l’effetto dell’intervento del primo mediatore (come invece hanno ritenuto i giudici di primo e di secondo grado, condizionati dall’idea che il nesso di causalità sia sotteso anche all’operatività della clausola penale), sia l’effetto dell’opera del secondo mediatore, oppure sia dovuta all’attività diretta del venditore. Cosicché l’aspetto che la Corte d’appello ha reputato centrale (cioè che la vendita sia avvenuta «direttamente», nel significato attribuito) si rivela in realtà come una modalità accidentale.
Che questa sia l’interpretazione maggiormente persuasiva si profila anche alla luce di aspetti complementari, attinenti al comportamento successivo delle parti, in particolare del venditore, dal momento che egli si è dato premura di ottenere l’esonero dal pagamento della provvigione al secondo mediatore. Con ciò l’interpretazione così determinata è in linea con gli altri canoni ermeneutici di cui agli artt. 1362 ss. c.c., quali l’interpretazione secondo buona fede (art. 1366 c.c.), la conservazione degli effetti della clausola (art. 1367 c.c.), l’equo contemperamento degli interessi delle parti (art. 1371 c.c.).
Le ragioni sottese alla fondatezza del quarto motivo di ricorso la- sciano impregiudicata, e pertanto affidata al giudice di rinvio, la valutazione se la già menzionata clausola, nei termini in cui è stato testé ricostruito il suo valore giuridico, rivesta o meno un carattere vessato- rio ai sensi degli artt. 33 ss. cod. cons.
In conclusione, il quarto motivo è accolto.
5. - In relazione al rigetto del secondo motivo di ricorso, il Collegio enuncia il seguente principio di diritto:
«Al fine del sorgere del diritto alla provvigione ex art. 1755, co. 1 c.c., è necessario che la conclusione dell’affare sia effetto causato adeguatamente dal suo intervento, senza che il mettere in relazione delle parti tra di loro ad opera del mediatore sia sufficiente di per sé a conferire all’intervento di questi il carattere di adeguatezza, né che l’intervento di un secondo mediatore sia sufficiente di per sé a privare ex post l’opera del primo mediatore di tale qualità di adeguatezza».
6. – In conclusione, è accolto il quarto motivo di ricorso; è dichiarato inammissibile il terzo motivo; sono rigettati i primi due motivi; è cassata con rinvio la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto.
P.Q.M.
La Corte accoglie il quarto motivo di ricorso nei sensi di cui in motivazione; dichiara inammissibile il terzo motivo; rigetta i primi due motivi; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte d’appello di Bologna in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.