Secondo la Cassazione, la tenuta della "contabilità separata" in un contesto familiare-societario ristretto non costituisce, di per sé, atto gestorio dell'ente.
Svolgimento del processo
1.I sigg.ri G.A. e F.B. ricorrono congiuntamente per l'annullamento della sentenza del 26/10/2021 della Corte di appello di Roma che, in riforma della sentenza del 07/0572019 del Tribunale capitolino, pronunciata all'esito di giudizio ordinario e da loro impugnata, ha dichiarato non doversi procedere nei loro confronti per i reati di cui ai capi H) ed I), perché estinti per prescrizione, ha confermato nel resto la condanna per i residui reati di cui ai capi D), E) ed F), ascritti ad entrambi, nonché dei reati di cui ai capi M), N) e O), ascritti alla G., 5), T) ed U), ascritti al B., rideterminando per entrambi la pena principale nella misura di due anni e due mesi di reclusione ciascuno e riducendo ad euro 1.051.036,31 l'entità del profitto confiscabile in forma equivalente.
1.1. Con i primi tre motivi deducono la violazione dell'art. 5, d.lgs. n. 74 del 2000, in relazione agli artt. 192, comma 2, e 495, comma 2, cod. proc. pen., sotto tre profili: a) il mancato accertamento della soglia di non punibilità; b) la mancata assunzione di una prova decisiva a diS. (la perizia contabile); c) il malgoverno logico degli indizi nella parte in cui sono stati computati, ai fini dell'imponibile, i costi sostenuti negli esercizi precedenti l'anno di imposta di riferimento.
1.2. Con il quarto motivo deducono l'omessa motivazione in ordine alla richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale mediante l'assunzione della testimonianza dei sigg.ri C., B., S., S., non ammessi in primo grado, che, quali fornitori dell'impresa legalmente rappresentata dalla G., erano stati indicati nella lista testimoniale per indicare la persona con cui trattavano.
1.3. Con il quinto motivo deducono la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione alla valutazione della posizione del B. illogicamente ritenuto dalla Corte di appello amministratore di fatto dell'azienda di famiglia solo perché socio e utilizzatore esclusivo del computer attraverso il quale venivano gestiti i dati contabili. La presunzione della Corte di appello è oltremodo smentita dall'istruttoria dibattimentale che ne ha rimandato l'immagine di un mero fac-totum.
2.Con note scritte del 26/09/2022, il difensore di fiducia dei ricorrenti ha replicato alla richiesta del PG di rigetto dei ricorsi.
Motivi della decisione
1. E' fondato il ricorso del B., è inammissibile quello della G..
2. Gli odierni ricorrenti rispondono del reato di cui all'art. 5, d.lgs. n. 74 del 2000, perché, la G. quale legale rappresentante della società «Eredi di B. M. S.n.c.», il B. quale amministratore di fatto, al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, non avevano presentato le dichiarazioni relative a dette imposte per gli anni di imposta 2010 (capo D), 2011 (capo E) e 2012 (capo F), evadendo la relativa imposta sul valore aggiunto. La G. degli ulteriori reati di cui ai capi M), N) ed O) perché aveva evaso, quale socia, anche le imposte sul reddito; il B. dei reati di cui ai capi S), T) ed U) perché aveva evaso, quale socio, anche le imposte sul reddito.
3. il primo motivo è inammissibile perché generico, esplorativo e manifestamente infondato.
3.1. Ai sensi dell'art. 1, lett. f), d.lgs. n. 74 del 2000, per «imposta evasa» si intende la differenza tra l'imposta effettivamente dovuta e quella indicata nella dichiarazione. Nel caso in esame, in assenza di scritture contabili relative proprio agli anni di imposta in contestazione (2011, 2012, 2013), tale differenza è stata ottenuta nel seguente modo: calcolando i ricavi in base agli scontrini emessi (e dunque il totale degli incassi) e detraendo i costi presumibilmente sostenuti secondo l'incidenza percentuale che essi avevano certamente avuto negli anni precedenti, nei quali erano stati documentati. Nè, afferma la Corte di appello, con riferimento agli anni di imposta in contestazione (2011-2013) «sono stati documentati ulteriori costi sostenuti non emergenti dalle scritture contabili o dai misuratori fiscali esaminati dagli operanti». Di qui la non necessità, per i Giudici distrettuali, di una perizia volta ad accertare il superamento o meno della soglia di punibilità.
3.2. Nel caso di specie, dunque, secondo quanto risulta dal testo stesso del provvedimento impugnato, anche in mancanza di una contabilità ufficiale, l'accertamento del maggior reddito imponibile ai fini IRPEF è stato effettuato ai sensi dell'art. 41, primo e secondo comma, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600. L'accertamento dell'imposta sul valore aggiunto è stato invece effettuato ai sensi dell'art. 55, primo comma, d.P.R. n. 633 del 1972, che impone di scomputare «in detrazione soltanto i versamenti eventualmente eseguiti dal contribuente e le imposte detraibili ai sensi dell'art. 19 risultanti dalle liquidazioni prescritte dagli artt. 27 e 33».
3.3. Ciò consente di giungere ad una prima conclusione: ai fini del calcolo dell'imposta sul valore aggiunto non rilevano i costi sostenuti per l'esercizio dell'impresa, ma solo l'ammontare dell'imposta eventualmente assolta o dovuta dal soggetto passivo o quella a lui addebitata a titolo di rivalsa (ex art. 18, d.P.R. n. 633 del 1972) in relazione ai beni ed ai servizi importati o acquistati nell'esercizio dell'impresa, arte o professione. La base imponibile dell'IVA è, in generale, costituita dall'ammontare complessivo dei corrispettivi dovuti al cedente o prestatore, "compresi gli oneri e le spese inerenti a/l'esecuzione e i debiti o altri oneri verso terzi accollati al cessionario o al committente» (art. 13, d.P.R.n. 633 del 1972) e che il volume di affari si calcola in base all'ammontare complessivo delle cessioni dei beni e delle prestazioni di servizi effettuate, registrate o soggette a registrazione nell'anno solare (art. 20, d.P.R. n. 633 del 1972).
3.4. La giurisprudenza delle sezioni civili della Corte di cassazione spiega, nel suo più autorevole consesso, che la neutralità dell'imposizione armonizzata sul valore aggiunto comporta che, pur in mancanza di dichiarazione annuale per il periodo di maturazione, l'eccedenza d'imposta, che risulti da dichiarazioni periodiche e regolari versamenti per un anno e sia dedotta entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto è sorto, va riconosciuta dal giudice tributario se il contribuente abbia rispettato tutti i requisiti sostanziali per la detrazione, sicché, in tal caso, nel giudizio d'impugnazione della cartella emessa dal fisco a seguito di controllo formale automatizzato non può essere negato il diritto alla detrazione se sia dimostrato in concreto, ovvero non sia controverso, che si tratti di acquisti compiuti da un soggetto passivo d'imposta, assoggettati ad IVA e finalizzati ad operazioni imponibili (Cass. civ., Sez. U, n. 17757 del 08/09/2016, Rv. 640943 - 01).
3.5. Sennonché, l'argomento "detrazione" di cui all'art. 19, d.P.R. n. 633 del 1972, non è mai stato oggetto di devoluzione nei termini sopra indicati, nemmeno in appello, con conseguente irrilevanza (e inammissibilità) del tema relativo ai costi deducibili e la cristallizzazione del dato numerico indicato ai capi di imputazione D), E) ed F) che riguardano esclusivamente l'evasione dell'imposta sul valore aggiunto.
3.6. Quanto, invece, alla determinazione dell'imposta evasa ai fini dell'imposizione diretta, la deduzione difensiva è generica e totalmente infondata.
3.7. Trattandosi di impresa che per anni non aveva dichiarato i propri redditi, l'accertamento poteva essere condotto anche sulla base di presunzioni semplici, sfornite cioè dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.
3.8. Secondo la giurisprudenza delle Sezioni civili di questa Corte l'esistenza dei presupposti per l'applicazione del metodo induttivo, ai sensi dell'art. 39, secondo comma, lett. d) del d.P.R. n. 600 del 1973, non esclude che l'amministrazione finanziaria possa servirsi, nel corso del medesimo accertamento e per determinate operazioni, del metodo analitico ex art. 39, primo comma, del d.P.R. n. 600 cit., oppure contemporaneamente di entrambe le metodologie (Cass. civ. Sez. 5, n. 13350 del 10/06/2009, Rv. 608513; Sez. 5, n. 27068 del 18/12/2006, Rv. 595882).
3.9. La questione non è di poco conto poiché se è vero che la determinazione sintetica del reddito, comportando la detrazione dai ricavi dei costi di produzione, necessariamente comprende questi ultimi (Cass. civ. Sez. 5, n. 23848 del 11/11/2009, Rv. 610276), è altrettanto vero che il metodo totalmente induttivo può avvalersi anche di semplici indizi sforniti dei requisiti necessari per costituire prova presuntiva che non possono perciò fornire di per sé soli la base di un giudizio in sede penale, nemmeno a fini cautelari.
3.10. Ove, invece, il reddito fosse stato ricostruito incrociando la contabilità di impresa con quella "in nero", sarebbe stato preciso onere del contribuente indicare gli ulteriori costi non contabilizzati effettivamente sostenuti per il conseguimento dei maggiori ricavi a loro volta non contabilizzati (Cass. civ., Sez. 5, n. 16198 del 27/10/2001, Rv. 551333; Cass. civ. Sez. 5, n. 11514 del 07/09/2001, Rv. 549206; Cass. civ. Sez. 5, n. 12330 del 08/10/2001, Rv. 549549; Cass. civ. Sez. 5, n. 1709 del 26/01/2007, Rv. 595661; Cass. civ. Sez. 5, n. 11205 del 16/05/2007, Rv. 599458; Cass. civ. Sez. 5, n. 21184 del 08/10/2014, Rv. 632824; Cass. civ. Sez. 6-5, ord. n. 27458 del 09/12/2013, Rv. 629460; cfr. altresì Cass. civ. Sez. 5, n. 5192 del 04/03/2011, 617112; Cass. civ. Sez. 5, n. 2935 del 13/02/2015, Rv. 634377; Cass. civ. Sez. 5, n. 20679 del 01/10/2014, Rv. 632502).
3.11. Non sussiste, infatti, alcuna automatica correlazione tra ricavi non contabilizzati ed eventuali costi anche essi (in tesi) non contabilizzati. La mancata contabilizzazione di ricavi, insomma, non necessariamente comporta che i costi sostenuti per ottenerli non siano stati a loro volta annotati nei registri. Le spese e gli altri componenti negativi, infatti, concorrono a formare il reddito nell'esercizio di competenza solo se certi o comunque determinabili in modo obiettivo (art. 109, comma 1, d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917), non possono essere presunti.
3.12. il giudice penale non è certamente vincolato ai risultati degli accertamenti effettuati ai sensi degli artt. 38, 39, 41, d.P.R. n. 600 del 1973, né ai criteri di giudizio previsti dalla legislazione fiscale e civilistica, essendo suo preciso dovere ricostruire in modo autonomo e con le regole proprie del processo penale i fatti che danno luogo a responsabilità penale (Sez. 3, n. 2246 del 01/02/1996, Zullo, Rv. 205395; Sez. 3, n. 7078 del 23/01/2013, Piccolo, Rv. 254852).
3.13. Ciò non significa che in sede penale si possa prescindere dalle specifiche regole stabilite dalla legislazione fiscale per determinare e quantificare l'imponibile dell'imposta sui redditi e quella sul valore aggiunto (e dunque l'imposta evasa): cambia la regola di giudizio, non la regola da applicare. La diversa regola di giudizio può condizionare l'ambito di applicabilità della norma tributaria, ma impone comunque al giudice penale di tenerne conto.
3.14. Sicché anche ai fini della ricostruzione dell'imposta evasa ai sensi dell'art. 1, lett. f), d.lgs. n. 74 del 2000, è necessario attingere alle regole stabilite dalla normativa fiscale ma con le limitazioni che derivano dalla diversa finalità dell'accertamento penale, per cui i costi concorrono sì alla determinazione dell'imponibile purché ne sussista la certezza o anche solo il ragionevole dubbio circa la loro esistenza.
3.15. Poiché l'ammontare della «imposta evasa» è elemento costitutivo del reato di cui all'art. 5, d.lgs. n. 74 del 2000, della relativa prova deve farsi carico il Pubblico Ministero il quale, dovendo svolgere accertamenti anche su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini, deve individuare i costi sostenuti per il conseguimento dei ricavi non dichiarati che siano stati comunque accertati, senza attendere che a ciò provveda la persona sottoposta alle indagini.
3.16. E' necessario, però, che di tali costi non contabilizzati sussista, come detto, la prova, diretta o indiziaria.
3.17. Sicché, ove a fronte dell'esistenza certa di ricavi non dichiarati la persona sottoposta alle indagini lamenti la mancata deduzione dei costi ad essi inerenti, deve provarne l'esistenza (artt. 187 e 190, cod. proc. pen.), o comunque allegare i dati dai quali l'esistenza di tali costi poteva essere desunta e dei quali né il Pubblico Ministero, né il Giudice hanno (in tesi) tenuto conto.
3.18. Non è perciò legittimo, nemmeno in sede penale, presumere l'esistenza di costi deducibili in assenza quantomeno di allegazioni fattuali che rendano almeno legittimo il dubbio in ordine alla loro sussistenza (cfr., sul punto, Sez. 3, n 37131 del 09/04/2013, Siracusa, Rv. 257678).
3.19. Il criterio di giudizio imposto dall'art. 533, comma 1, cod. proc. pen., investe tutti gli elementi costitutivi del reato, sicché ove sussista il ragionevole dubbio circa il superamento delle soglie di punibilità indicate dall'art. 5, d.lgs. n. 74 del 2000 (e dunque l'ammontare dell'imposta evasa), il giudice deve affermare l'insussistenza del fatto; purché si tratti di un dubbio "ragionevole", fondato cioè su fatti verificabili, non su mere congetture, ipotesi, astrazioni ed automatismi.
3.20. Non costituisce, dunque, "violazione di legge" quantificare l'imposta evasa contabilizzando i maggiori ricavi conseguiti senza detrarre i costi che non siano stati contabilizzati in ordine alla sui esistenza effettiva (o anche solo al ragionevole dubbio in ordine alla loro esistenza) manchino specifiche deduzioni o allegazioni. Nessun criterio di giudizio legittima la deduzione di costi non contabilizzati in base a presunzioni sganciate da qualsiasi dato fattuale che renderebbe irragionevole il dubbio sulla loro esistenza e arbitraria persino la loro quantificazione.
3.21. Peraltro, correttamente (e secondo un giudizio prudenziale), in assenza di allegazioni sul punto, è stato ritenuto che l'incidenza dei costi sui ricavi non dichiarati negli anni 2011-2013 fosse percentualmente pari a quella relativa ai costi sostenuti (e documentati) negli anni precedenti, trattandosi di presunzione (ancorché) semplice non vinta però da allegazioni di natura contraria.
3.22. Date le premesse, appare allora evidente la natura esplorativa della perizia correttamente negata dalla Corte di appello (Sez. 3, n. 42711 del 23/06/2016, Rv. 267974, secondo cui nel giudizio di appello, la presunzione di tendenziale completezza del materiale probatorio già raccolto nel contraddittorio di primo grado rende inammissibile - sicché non sussiste alcun obbligo di risposta da parte del giudice del gravame - la richiesta di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale che si risolva in una attività "esplorativa" di indagine, finalizzata alla ricerca di prove anche solo eventualmente favorevoli al ricorrente).
3.23. Va in ogni caso ricordato che la perizia, per il suo carattere "neutro" sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, non rientra nella categoria della "prova decisiva" ed il relativo provvedimento di diniego non è sanzionabile ai sensi dell'art. 606, comma primo, lett. d), cod. proc. pen., in quanto costituisce il risultato di un giudizio di fatto che, se sorretto da adeguata motivazione, è insindacabile in sede di legittimità posto che la lettera d) dell'art. 606, cit., attraverso il richiamo all'art. 495, comma 2, cod. proc. pen., si riferisce esclusivamente alle prove a diS. che abbiano carattere di decisività. (Sez. U, n. 39746 del 23/03/2017, Rv. 270936 - 01; Sez. 4, n. 7444 del 17/01/2013, Rv. 255152, Sez. 6, n. 43526 del 03/10/2012, Rv. 253707; Sez. 4, n. 14130 del 22/01/2007, Rv. 236191; Sez. 5, n. 12027 del 06/04/1999, Rv. 214873; Sez. 3, n. 13086 del 28/10/1998, Rv. 212187; Sez. 1, n. 9788 del 17/06/1994, Rv. 199279).
4.il quarto e il quinto motivo devono essere esaminati congiuntamente.
4.1. AI ricorrente è contestato, ai capi S), T) ed U), di aver, nella qualità di socio, non di amministratore di fatto, omesso di presentare le dichiarazioni relative alle imposte sul valore aggiunto e sui redditi così evadendo l'IRPEF. Gli importi evasi riguardano, dunque, solo l'imposta sul reddito e sono identici a quelli contestati alla G. (euro 179.080,60 per l'anno di imposta 2010, euro 203.495,47 per l'anno di imposta 2011, euro 185.200,20 per l'anno di imposta 2012).
4.2. Si deve ritenere, perciò, che il titolo dell'addebito sia identico a quello relativo ai reati di cui ai capi D), E) ed F), e cioè che i redditi evasi riguardino la società e non il socio. Infatti, i redditi delle società semplici, in nome collettivo e in accomandita semplice, sono imputati a ciascun socio, indipendentemente dalla percezione, proporzionalmente alla quota di partecipazione (art. 9, d.P.R. n. 917 del 1986). Sicché il socio in quanto tale, che non sia anche amministratore, può rispondere sì del delitto di cui all'art. 5, d.lgs. n. 74 del 2000, ma in relazione ai soli redditi a lui imputabili ai sensi dell'art. 9, d.P.R. n. 917, cit., non a quelli prodotti dalla società nell'anno di imposta i quali devono essere dichiarati dal legale rappresentante. La dichiarazione dei redditi della società in nome collettivo, infatti, deve essere redatta e sottoscritta non sa qualunque ma solo da quello che, a norma di statuto, ne ha l'amministrazione e la rappresentanza (art. 1, comma 4, d.P.R. n. 322 del 1998, in relazione agli artt. 2295, n. 3, e 2298 cod. civ.).
4.3. Del resto, da tempo, ormai, le sezioni civili di questa Corte hanno riconosciuto anche alle società di persone, nonostante la loro non perfetta autonomia patrimoniale, - in relazione alle previsioni degli art. 2267, 2268 e 2304 cod. civ. in materia di responsabilità personale dei soci per le obbligazioni sociali -, la soggettività giuridica (o personalità) e quindi la titolarità di situazioni giuridiche distinte da quelle facenti capo alle persone fisiche dei soci singolarmente o cumulativamente considerati, a norma dell'art. 2266, primo comma, secondo cui "la società acquista i diritti e assume le obbligazioni per mezzo dei soci che ne hanno la rappresentanza e sta in giudizio in persona dei medesimi", e delle disposizioni che riconoscono a tali società un proprio nome (utilizzabile anche in sede di trascrizione degli acquisti immobiliari, ai sensi dell'art. 2659 cod. civ., nel testo novellato dalla legge 27 febbraio 1985 n. 52) e una propria sede (Cass. civ., Sez. 1, n. 7228 del 07/08/1996, Rv. 499011 - 01) e ciò anche se i diritti e gli obblighi ad esse imputati sono destinati a tradursi in situazioni individuali in capo ai singoli membri (Cass. civ., Sez. U, n. 3022 del 16/02/2015, Rv. 634104 - 01; Cass. civ., Sez. 1, n. 12310 del 05/11/1999, Rv. 530898 - 01).
4.4. Poiché al B. è stata imputata la violazione del precetto facente formalmente capo al legale rappresentante della società, viene in rilievo il tema della amministrazione di fatto della società.
4.5. Questa Corte ha da tempo affermato il principio secondo il quale, in tema di reati tributari, ai fini della attribuzione ad un soggetto della qualifica di amministratore "di fatto" non occorre l'esercizio di "tutti" i poteri tipici dell'organo di gestione, ma è necessaria una significativa e continua attività gestoria, svolta cioè in modo non episodico od occasionale (Sez. 3, n. 22108 del 19/12/2014, dep. 2015, Berni, Rv. 264009 - 01); ciò sul rilievo che la nozione di amministratore di fatto, introdotta dal art. 2639 cod. civ. postula l'esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri tipici inerenti alla qualifica od alla funzione; nondimeno, "significatività" e "continuità" non comportano necessariamente l'esercizio di "tutti" i poteri propri dell'organo di gestione, ma richiedono l'esercizio di un'apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico od occasionale (Sez. 2, n. 36556 del 24/05/2022, Desiata, Rv. 283850 - 01; Sez. 5, n. 35346 del 20/06/2013, Tarantino, Rv. 256534 - 01; Sez. 5, n. 43388 del 17/10/2005, Carboni, Rv. 232456 - 01; Sez. 5, n. 22413 del 14/04/2003, Sidoli, Rv. 224948 - 01). E' stato al riguardo precisato che, ai fini dell'attribuzione della qualifica di amministratore "di fatto", è necessaria la presenza di elementi sintomatici dell'inserimento organico del soggetto con funzioni direttive in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell'attività della società, quali i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare ed il relativo accertamento costituisce oggetto di una valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimità, ove sostenuta da congrua e logica motivazione (Sez. 5, n. 45134 del 27/06/2019, Rv. 277540 - 01; Sez. 5, n. 8479 del 28/11/2016, Rv. 269101 - 01; Sez. 5, n. 35346 del 2013, cit.).
4.6. Nel caso di specie, la Corte di appello ha ritenuto che il B. amministrasse di fatto la società legalmente rappresentata dalla madre perché gestiva i dati contabili in un computer esclusivamente a lui in uso, «attività che finisce con l'attribuirgli una funzione di amministratore di fatto, tanto più esercitata nell'ambito di una società di persone in nome collettivo, a ristretta base familiare, laddove è più facilmente confondibile e non distinguibile l'attività amministrativa in capo ai familiari membri della componente societaria». Nel PC del B., infatti, erano state rinvenute «annotazioni contabili (...) in ordine alle fatture emesse e ai costi sostenuti, annotazioni dalle quali è possibile ricavare il guadagno d'impresa e, infine, le imposte dovute. E' stata cioè riscontrata la presenza di una contabilità parallela che ha consentito di ricostruire analiticamente gli incassi giornalieri».
4.7. Ora, in termini generali, alla luce dei principi sopra indicati, la tenuta della contabilità non costituisce, di per sé, atto gestorio dell'ente, nemmeno se si tratta, come nel caso di specie, di "contabilità separata". Quando questa Corte ha ritenuto non irragionevole desumere l'amministrazione di fatto dall'attività manipolatoria (e, non dunque dalla semplice tenuta) dei bilanci e della contabilità, ha però contestualizzato l'affermazione del principio ricordando che l'imputato, in quel caso, aveva anche prestato determinate garanzie personali alle banche, mostrando così un concreto e diretto interesse nella conduzione della società e del concreto esercizio di un ruolo gestorio, confermato peraltro da testimonianze di dipendenti e fornitori (Sez. 3, n. 22413 del 2003, cit.).
4.8. Nè costituisce argomento persuasivo il fatto che il B. tenesse la contabilità in un contesto familiare-societario ristretto; si tratta, a ben vedere, di dato neutro che può valere, al più, a far ritenere la consapevolezza della «condizione di totale illegalità in cui l'azienda era collocata» (così il primo Giudice) ma tale consapevolezza non è di per sé sufficiente a integrare il concorso fattivo nella gestione della società se non si dimostra, al di là di ogni ragionevole dubbio, che tenendo la contabilità egli avesse agevolato/favorito/ istigato la commissione del reato omissivo per il quale si procede e comunque concorso nella gestione societaria. Va piuttosto evidenziato che la Corte territoriale non sembra aver dato peso al possibile contributo dichiarativo dei testimoni indicati nell'atto di appello che avevano escluso qualsiasi atto gestorio del B., non potendo certamente ritenersi tale lo svolgimento di mansioni esercitabili da un qualsiasi lavoratore dipendente.
4.9. La sentenza impugnata deve perciò essere annullata nei confronti del solo B..
4.10. Sennonché per i reati di cui ai capi D ed S, commessi rispettivamente il 27/12/2011 ed il 31/10/2011, il tempo necessario a prescrivere, pur tenuto conto della sospensione di 102 giorni, è ormai maturato. Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, nei confronti del B., perché i reati a lui ascritti ai capi D ed S sono estinti per prescrizione, e con rinvio, ad altra sezione della Corte di appello di Roma, per i residui reati di cui ai capi E, F, T ed U, ad oggi non prescritti.
4.11. La inammissibilità del ricorso della G. preclude, invece, la possibilità di rilevare cause di estinzione del reato, quale la prescrizione, verificatesi successivamente alla pronunzia della sentenza impugnata. Alla detta declaratoria consegue, ex art. 616 c.p.p., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa della ricorrente (C. Cost. sent. 7-13 giugno 2000, n. 186), l'onere per la stessa delle spese del procedimento nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, che si fissa equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di euro 3000,00
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di B.F. limitatamente ai reati di cui ai capi D) ed S) perché estinti per prescrizione e con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Roma limitatamente ai residui reati ascritti al B..
Dichiara inammissibile il ricorso di G.A. che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di € 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.