Nel caso di specie, sbaglia la Corte d'Appello a non considerare, in sede di commisurazione della pena, la sanzione amministrativa irrogata al ricorrente per il medesimo fatto.
Un promotore finanziario ricorre in Cassazione per chiedere l'annullamento della sentenza della Corte d'Appello con cui era stato condannato a un anno e due mesi di reclusione (oltre alle pene accessorie) per il reato di omessa presentazione della dichiarazione ai fini delle imposte dirette.
Tra i motivi di doglianza, il ricorrente...
Svolgimento del processo
1.II sig. FD ricorre per l'annullamento della sentenza del 07/09/2021 della Corte di appello di Trieste che, decidendo la sua impugnazione, ha confermato la condanna alla pena (principale) di un anno e due mesi di reclusione (oltre pene accessorie) irrogata dal Tribunale di Udine per il reato di cui agli artt. 81, cpv., cod. pen., 5, d.lgs. n. 74 del 2000, a lui ascritto perché, quale esercente l'attività di promotore e mediatore finanziario, al fine di evadere le imposte sui redditi, non aveva presentato le dichiarazioni relative a dette imposte per gli anni 2012 e 2013.
1.1. Con il primo motivo deduce l'erronea applicazione dell'art. 238-bis, cod. proc. pen., e la mancanza di motivazione in ordine alla prospettata incongruenza della determinazione dei proventi illeciti imputabili a reddito negli esercizi fiscali 2012/2013, calcolati, lamenta, in base alla semplice differenza aritmetica tra la somma dei valori conferiti da tutti i clienti nell'anno solare e quanto loro restituito nel medesimo periodo, con quanto ne consegue In ordine alla prova dell'effettivo superamento della soglia di punibilità.
Sostiene, in estrema sintesi, che l'imponibile calcolato dai Giudici di merito è errato per eccesso essendo stato utilizzato un criterio semplicistico (proventi affidati dai clienti nell'anno di Imposta, al netto delle somme disinvestite e restituite net medesimo anno), laddove per "provento" deve intendersi il risultato delle indebite appropriazioni conseguenti alla destinazione data alle rimesse dei singoli clienti a loro insaputa come calcolate da una precedente sentenza di condanna per appropriazione Indebita della medesima Corte di appello, passata in giudicatç, della quale la sentenza impugnata non ha fatto buon governo, omettendo in tal modo di spiegare le ragioni del rigetto dell'appello avverso la sentenza di primo grado.
1.2. Con il secondo motivo deduce l'erronea applicazione dell'art. 5, d.tgs. n. 74 del 2000, e il vizio di motivazione mancante/illogica in ordine alla sussistenza del dolo che, afferma, presuppone la piena consapevolezza dell'esistenza di un imponibile non dichiarato superiore alla soglia di punibilità.
1.3. Con il terzo motivo deduce la violazione dell'art. 649, cod. proc. pen., e dell'art. 4, Prot. n. 7, Conv. EDU, sotto il profilo della mancanza di motivazione in ordine alla proporzionalità complessiva delle sanzioni irrogate.
1.4. Con il quarto motivo deduce l'inosservanza e l'erronea applicazione dell'art. 81, cpv., cod. pen., e il vizio di motivazione mancante e manifestamente illogica in ordine al mancato riconoscimento della continuazione tra i fatti oggetto di odierno giudizio e quelli oggetto di precedente condanna irrevocabile per appropriazione indebita.
2.11 Procuratore Generale ha chiesto, con requisitoria scritta, l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata limitatamente all'esclusione della continuazione e la declaratoria di inammissibilità del ricorso nel resto.
3. Con memoria trasmessa telematicamente, il ricorrente ha insistito per la fondatezza del primo motivo.
Motivi della decisione
1.II ricorso è fondato per quanto di ragione.
2.11 primo motivo è infondato.
2.1. In fatto non è contestato che Il ricorrente (è lui stesso ad affermarlo ponendo tale deduzione a fondamento delle proprie doglianze): a) dal mese di aprile dell'anno 2002 al mese di febbraio dell'anno 2015 aveva esercitato l'attività di promotore e mediatore finanziario; b) dal 29/06/2008 aveva esercitato abusivamente tale attività perché non più collegato, come agente, ad alcuna impresa di investimento, banca o intermediario finanziario abilitato al collocamento di strumenti fina ziari; c) aveva occultato tale condizione ai suoi clienti dai quali aveva continuato a percepire ingenti somme parte delle quali restituite a seguito di richieste di disinvestimento; d) per tali fatti era stato separatamente (e.precedentemente) condannato per il delitto di appropriazione indebita; e) dal 2002 al 2015 non aveva mai presentato la dichiarazione dei redditi.
2.2. 11 ricorrente deduce la violazione dell'art. 238-bis cod. proc. pen. (nei termini indicati in premessa) e tuttavia, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso, non ha allegato al ricorso la sentenza di condanna del separato processo impedendo a questa Corte di apprezzarne il contenuto e la rilevanza della questione dedotta e di comprendere, altresì, in che modo sia stato calcolato il profitto confiscabile.
2.3. Sotto altro profilo, egli confonde il profitto del reato di appropriazione indebita con i proventi imponibili derivanti da reato soggetti alla particolare disciplina stabilita per essi dagli artt. 14, commi 4 e 4-bis, legge n. 537 del 1993, e 36, comma 34-bis, d.l. n. 223 del 2006, convertito con modificazioni dalla legge n. 248 del 2006.
2.4. Secondo quanto stabilisce l'art. 14, commi 4 e 4-bis, legge n. 537, cit., nella versione all'epoca vigente, «{n]elle categorie di reddito di cui all'articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatn atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria. 4-bis. Nella determinazione dei redditi di cui all'articolo 61 comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, non sono ammessi in deduzione i costi e le spese de, beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l'azione penale o, comunque, qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell'articolo 424 del codice di procedura penale ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell'articolo 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall'articolo 157 del codice penale. Qualora intervenga una sentenza definitiva di assoluzione ai sensi dell'articolo 530 del codice di procedura penale ovvero una sentenza definitiva di non luogo a procedere ai sensi dell'articolo 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza di motivi diversi dalla causa di estinzione Indicata nel periodo precedente, ovvero una sentenza definitiva di non doversi procedere ai sensi dell'articolo 529 del codice di procedura penale, compete il rimborso delle maggiori Imposte versate In relazione alla non ammissibllftà in deduzione prevista dal periodo precedente e dei relativi interessi».
2.5. L'art. 36, comma 34-bis, d.l. n. 223 del 2006, ha Interpretato le disposizioni dell'art. 4, comma 14, legge n. 537, nel senso che i «proventi illeciti ivi indicati, qualora non stano classificabili nelle categorie di reddito di cui all'artico/o 61 comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917», sono comunque considerati come redditi diversi.
2.6. Nel caso di specie, comunque si vogliano qualificare le somme percepite dal ricorrente dopo che non era più titolato a svolgere l'attività di promotore finanziario ("redditi di lavoro autonomo" o "redditi diversi"), resta il fatto che ciò che avrebbe potuto dedurre erano, semmai, solo i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio resi ai clienti, purché non direttamente utilizzati per ìl compimento delle appropriazioni indebite.
2.7. La successiva restituzione a questi ultimi delle somme "disinvestite" non esclude che tali proventi avessero medio tempore accresciuto il patrimonio personale del ricorrente, non rilevando in alcun modo le restituzioni "postume", né costituendo tali "restituzioni" spese deducibili sostenute ai fini dell'attività illecitamente svolta. E' lo stesso ricorrente, del resto, ad ammettere (e comunque a non contestare) che le somme di denaro ricevute venivano in parte accreditate su un conto acceso a nome della moglie (ed utilizzate per le spese personali e familiari quotidiane oppure spostate da un conto corrente all'altro al fine di ripianare ammanchi o di evitare che i conti finissero in rosso), in parte investite in fondi di investimento ad alto rischio all'insaputa dei clienti.
3.II secondo motivo è manifestamente infondato e si risolve nella deduzione di un inammissibile errore di diritto allorquando predica l'ignoranza della natura reddituale (e dunque imponibile) delle somme a lui consegnate dai clienti e del conseguente superamento della soglia di punibilità di cui all'art. 5, d.lgs. n. 74 del 2000.
4. E' fondato il terzo motivo.
4.1. Va In primo luogo verificata l'applicabilità al caso concreto del principio di specialità di cui all'art. 19, d.lgs. n. 74 del 2000, alla uce dell'unico criterio utilizzabile del rapporto strutturale tra fattispecie (Sez. U, n. 20664 del 23/02/2017, Stalla, Rv. 269668 - 01; Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, Rv. 248864 - 01).
4.2. L'omessa presentazione della dichiarazione ai fini delle imposte dirette è sanzionata in via amministrativa dall'art. 1, comma 1, d.lgs. n. 471 del 1997; al fini della integrazione dell'illecito amministrativo non è richiesto il dolo specifico di evasione, che qualifica, invece, il delitto di "omessa dichiarazione" di cui all'art. 5, d.lgs. n. 74 del 2000, né il superamento di una soglia di punlbllltà: è sufficiente che, anche solo peri colpa, 11 contribuente ometta di presentare la dichiarazione, non rilevando l'entità dell'imposta evasa né il fine della condotta. Sul plano strutturale, dunque, non v'è piena sovrapposizione tra le due fattispecie. La condotta del ricorrente integra, pertanto, due diversi fatti, autonomamente e separatamente sanzionati sia in sede penale che in sede amministrativa.
4.3. Ciò non esclude che, ai fini del divieto del "bis in idem" di cui all'art. 4, Rrot. n. 7, CEDU, il reato oggi addebitato possa essere considerato, sul piano sostanziale/naturalistico, come "stesso fatto" già sanzionato a livello amministrativo.
4.4. Con la sentenza Grande Camera, 10/2/2009, caso Sergey Zolotukhin contro Russia, la Corte EDU, nell'esaminare i trattati e gli strumenti internazionali che sanciscono il divieto del bis in idem, ha constatato che non tutti usano gli stessi termini. L'art. 4 del Protocollo n. 7 della Convenzione EDU, l'art. 14, § 7, del Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, e l'art. 50 della Carta Europea dei Diritti Fondamentali utilizzano i termini: "[same] offence/[meme] infraction".
L'art. 8 § 4 della Convenzione Americana sui diritti umani utilizza invece i termini "[same] cause", così interpretato dalla Corte Inter-americana sui diritti umani:
«Diversamente dalla formula utilizzata da altri strumenti internazionali di protezione dei diritti umani (ad esempio, il Patto internazionale delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici, articolo 14 § 7), che fa riferimento allo stesso "crimine", la Convenzione americana usa l'espressione "[same] cause/[meme] faits': che è un termine decisamente più favorevole alla vittima» (Corte Interamericana, caso Loayza-Tamayo c. Perù, 17 settembre 1997, Serie C N. 33, § 66, richiamata dalla Corte EDU al § 40 della sentenza Zolotukhin).
4.5. L'art. 54 della Convenzione Schengen del 1985 utilizza i termini ''[same]facts/[meme] faits". L'art. 20 dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale utilizza i termini "[same] conduct"/[memes] actes constitutifs".
4.6. La Corte EDU annota che la distinzione tra i termini "stessi atti" o "stessi fatti", da un lato, e "stesso reato", dall'altro, è stata ritenuta sia dalla CGUE che da quella Inter-americana un elemento importante a favore dell'adozione di un approccio basato strettamente sull'identità degli atti materiali e del rifiuto della qualificazione giuridica di tali atti giudicata come Irrilevante. Un tale approccio interpretativo, secondo le due Corti, è più favorevole perché l'autore del reato saprebbe che, una volta condannato o assolto, non deve temere ulteriori procedimenti penali per la medesima condotta o il medesimo fatto. La Corte EDU prende spunto da questa constatazione e, ribadendo che la Convenzione EDU deve essere interpretata ed applicata In modo da rendere pratici ed effettivi e non teorici o illusori i diritti in essa riconosciuti, afferma che l'uso del termine "offence/lnfractfon" nell'art. 4 del Protocollo n. 7 non giustifica un approccio interpretativo di tipo restrittivo; il ricorso alla mera qualificazione giuridica del medesimo fatto rischia di Indebolire Il divieto di bis In idem piuttosto che renderlo pra lco ed effettivo perché non impedisce che per la medesima condotta una persona possa essere processata e/o condannata due volte. Di conseguenza, chiosa sul punto la Corte EDU, l'art. 4 del Protocollo n. 7 deve essere interpretato nel senso che il reato è il medesimo se i fatti che lo integrano sono identici oppure sono sostanzialmente gli stessi (§ 82), dovendosi intendere per fatto «l'insieme di circostanze di fatto concrete che coinvolgono lo stesso imputato e che sono inestricabilmente legate tra loro nel tempo e nello spazio, la cui esistenza deve essere dimostrata al fine di ottenere una condanna o avviare un procedimento penale» (§84).
4.7. Anche secondo la giurisprudenza di questa Corte, l'identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005, Rv. 231799 - 01; Sez. 7, n. 42994 del 20/10/2021, Rv. 282187 - 01; Sez. 4, n. 54986 del 24/10/2017, Rv. 271717 - 01; cfr., altresì, Corte cost., sent. n. 200 del 2016, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 649, cod. proc. pen., nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale; secondo il giudice delle leggi, «è In questi termini, e soltanto in questi, in quanto segnati da una pronuncia delle sezioni unite, che l'art. 649 cod. proc. pen. vive nell'ordinamento nazionale con il significato che V(J posto alla base dell'odierno incidente di legittimità costituzionale. E si tratta di un'affermazione netta e univoca a favore dell'idem factum, sebbene il fatto sia poi scomposto nella triade di condotta, nesso di causalità, ed evento f naturalistico. A condizione che tali elementi siano ponderati con esclusivo riferimento alla dimensione empirica, si è già testata favorevolmente la compatibilità di questo portato normativo con la nozione di fatto storico, sia nella sua astrattezza, sia nella concretezza attribuita dalla consolidata giurisprudenza europea (...) solo un giudizio obiettivo sulla medeslmezza dell'accadimento storico scongiura il rischio che la proliferazione delle figure di reato, alle quali In astratto si potrebbe ricondurre lo stesso fatto, offra l'occasione per iniziative punitive, se non pretestuose, comunque tali da porre perennemente in soggezione l'individuo di fronte a una tra le più penetranti e invasive manifestazioni del potere sovrano dello Stato-apparato. Costituzione e CEDU si saldano, dunque, nella garanzia che la persona già giudicata in via definitiva In un processo penale non possa trovarsi Imputata per il medesimo fatto storico, e ripudiano !'Intorbidamento de/fa valutazione comparativa in forza di /'\, considerazioni sottratte alla certezza della dimensione empirica, cosJ come accertata nel primo giudizio»).
4.8. Dunque, l'omessa presentazione della dichiarazione dei redditi costituisce un unico fatto materiale che viola due disposizioni tra loro diversamente sanzionate, allo stesso modo in cui un'unica condotta può integrare due reati diversi in concorso formale tra loro.
4.9. Tanto premesso, secondo la giurisprudenza della Corte EDU, il divieto del bis in idem sancito dall'art. 4, Prot. n. 7, Convenzione EDU, presuppone l'esistenza di una sentenza definitiva di condanna o di assoluzione. Ciò comporta che il diritto di non essere punito due volte si estende a quello di non essere perseguito o giudicato due volte. Se così non fosse, non sarebbe stato necessario aggiungere la parola "condannato" alla parola "processato" poiché si tratterebbe di mera duplicazione (così Corte EDU, Grande Camera, 10/2/2009, caso Sergey Zolotukhin c. Russia, §§ 110-111). Tuttavia, poiché il testo della norma fa esplicito riferimento ad una sentenza definitiva (di condanna o di assoluzione), il divieto del bis in idem non si applica ai casi di litispendenza, quando cioè una medesima persona sia perseguita o sottoposta contemporaneamente a più procedimenti penali per il medesimo fatto. Non comporta violazione del divieto l'interruzione del secondo procedimento parallelo dopo che il primo è stato definito con una sentenza di condanna o di assoluzione (Corte EDU, Sez. 1, 3/10/2002 (dee.), caso Zigarel/a c. Italia), ma se ciò non accade, se cioè il secondo procedimento prosegue il suo corso, sussiste la violazione del divieto (Corte EDU, Sez. 4, 18/10/2011, caso Tomasovié c. Croazia, §§ 29-32; Corte EDU, Sez. 4, 14/1/2014, caso Muslija c. Bosnia ed Herzegovina, §§ 29-32; Corte EDU, Sez. 4, 20/5/2014, Nykanen c. Finlandia, §§ 47-54, e Corte EDU, Sez. 41 20/5/2014, caso Glantz c. Finlandia, §§ 57-64, queste ultime due in tema di applicazione di sanzioni amministrative e sovrattasse per la mancata Indicazione di ricavi nella dichiarazione dei redditi e di successiva condanna penale per frode fiscale). Per la violazione del divieto è necessaria la discontinuità dei due procedimenti. Tale discontinuità non esiste quando tra i due procedimenti vi è una stretta connessione sostanziale e temporale. Dall'esame della giurisprudenza della Corte emerge che tale connessione sussiste quando il provvedimento amministrativo viene adottato, 'ex lege', in conseguenza della condanna penale, senza una apprezzabile soluzione di continuità, sulla base degli stessi fatti così come accertati in sede penale, quando cioè presupposto e condizione per l'adozione del provvedimento amministrativo sia esclusivamente la condanna inflitta in quella sede (oltre le sentenze già citate, cfr., altresì, Corte EDU, Sez. 4, 17/2/2015, caso Boman c. Finlandia e Corte EDU, Sez. 3, 4/10/2016, caso I Rivard c. Svizzera).
4.10. Terreno elettivo di formazione e applicazione di tale principio è proprio quello della materia fiscale.
4.11. Analizzando i sistemi finlandesi e svedesi, la Corte EDU (Grande Camera, 15/11/2016, caso A e B, contro Norvegia) ha rilevato che le sanzioni amministrative fiscali e quelle penali vengono irrogate da autorità diverse all'esito di procedimenti tra loro diversi ed in alcun modo connessi; ciascuno di essi segue la propria strada e viene definito in modo indipendente l'uno dall'altro. Inoltre, nel determinare la sanzione, nessuna delle due autorità prende in considerazione quelle imposte dall'altra; non c'è alcuna relazione tra loro. Non si tratta, però, di una peculiarità dei suddetti paesi. Quasi tutti i Paesi dell'Unione Europea - afferma la Corte - adottano il doppio sistema sanzionatorio, non solo in materia tributaria, ma anche in tema di tutela dell'ambiente e della sicurezza pubblica. La Corte EDU ne è consapevole (§§ 117-118). Ed è consapevole del fatto che il Protocollo n. 7 (contenente il divieto di bis in idem) è stato introdotto circa quaranta anni dopo la firma della Convenzione EDU, che quattro di essi (Germania, Paesi Bassi, Gran Bretagna e Turchia) non lo hanno ratificato, e che altri quattro (Italia, Austria, Francia e Portogallo) hanno espresso riserve sull'art. 4 del Protocollo osservando che il termine "reato" deve essere interpretato nel senso attribuito dagli ordinamenti interni (le riserve di Italia ed Austria non sono state ritenute valide). E' una prerogativa dei singoli Stati contraenti organizzare i propri sistemi processuali, compreso - naturalmente - quello penale. La Convenzione EDU non proibisce che per un medesimo fatto, qualificabile come reato secondo i propri canoni, vengano instaurati processi diversi, contemporaneamente o successivamente definiti con sentenza; da questo punto di vista gli Stati possono legittimamente adottare risposte complementari per sanzionare Il medesimo fatto (convenzionalmente definibile come reato) attraverso procedimenti che, formando un insieme coerente, diano una risposta a tutti gli aspetti del problema, purché ciò non si traduca in un onere eccessivo per l'individuo interessato. L'art. 4 del Protocollo n. 7 è impedire l'ingiustizia di perseguire o punire due volta una persona per la medesima condotta, ma ciò non rende illegali gli ordinamenti che adottano un approccio "integrato" al fatto reato sociale che determini reazioni legali parallele da parte di autorità diverse e per scopi diversi.
4.12. Ciò ha indotto la Corte EDU a precisare ulteriormente il concetto di "stretta connessìone sostanziale e temporaJeN tra procedimenti. A tal fine, ha affermato che è onere dello Stato dimostrare, in modo convincente, l'esistenza di tale connessione in base ai vari fattori tra i quali (congiuntamente): - il perseguimento di finalità complementari e la valutazione, non solo in astratto ma anche in concreto, dei diversi aspetti della condotta illecita oggetto di scrutinio;
la prevedibilità che la medesima condotta dia origine, sia giuridicamente che di fatto, a due diversi procedimenti; la minimizzazione del rischio, per quanto \j possibile, di duplicazioni nella raccolta e nella valutazione delle prove, in particolare attraverso un'adeguata interazione tra le varie autorità competenti per determinare che 11accertamento dei fatti in uno dei due procedimenti venga utilizzato anche nell'altro; l'esistenza di un meccanismo di compensazione che consenta di tener conto, in sede di irrogazione della seconda sanzione, degli effetti della prima così da evitare che la sanzione complessivamente irrogata sia sproporzionata (A e B, cit., § 132).
4.13. Quanto alla "connessione sostanziale", la Corte EDU ricorda che non tutte le accuse (e i procedimenti) penali hanno lo stesso peso in termini di stigma sociale. Sotto questo profilo, l'autonoma elaborazione, da parte della Corte, del concetto di "reato" e di "pena" ai sensi dell'art. 6 della Convenzione EDU, non toglie rilevanza al fatto che l'ordinamento interno qualifica diversamente l'illecito come amministrativo, disciplinare, doganale, fiscale, ecc., e che tale diversa qualificazione riflette l'assenza dell'ubi consistam del reato secondo la legislazione interna. Perciò stabilire in quale misura un procedimento amministrativo rechi i tratti distintivi di un procedimento penale ordinario costituisce un aspetto importante. Se le sanzioni irrogate con procedimenti non classificati formalmente come "penali" sono specifiche per la condotta in questione e differiscono dal "nocciolo duro del diritto penale", allora è più probabile che la correlazione tra i due procedimenti (penale e amministrativo) soddisfi i criteri di complementarità e coerenza. Se i procedimenti (formalmente) non penali non comportano alcun significativo grado di stigma sarà meno probabile che l'imputato debba sopportare un onere sproporzionato. Al contrario, il fatto che il procedimento amministrativo abbia caratteristiche stigmatizzanti largamente assimilabili a quelle dei procedimenti penali ordinari aumenta il rischio che le finalità perseguite sanzionando la medesima condotta in procedimenti diversi siano duplicate piuttosto che essere complementari (A e B c. Norvegia, cit. § 133).
4.14. La sola connessione sostanziale, come detto, non soddisfa i requisiti stabiliti dalla Corte per ritenere la duplicazione del procedimenti rispettosa del divieto di bis in idem; è necessaria anche la "connessione temporale". Questo non significa che i due procedimenti debbano essere condotti simultaneamente dall'inizio alla fine. Gli Stati possono optare per lo svolgimento progressivo quando ciò sia giustificato da ragioni di efficienza e di corretta amministrazione della giustizia e non provochi alla persona interessata un pregiudizio sproporzionato, purché la connessione temporale sia garantita. Tale connessione deve essere sufficientemente stretta da tutelare l'Individuo dall'incertezza e dai ritardi e dall'eccessivo protrarsi del procedimento nel tempo, anche lì dove l'ordinamento interno prevede uno schema "integrato" che separa gli aspetti amministrativi da quelli penali. Piy debole è Il collegamento nel tempo, maggiore è l'onere per lo Stato di spiegare e giustificare qualsiasi ritardo che possa essere imputabile alla conduzione del procedimento (A e B c. Norvegia, cit. § 134. Nel caso scrutinato dalla Corte i due ricorrenti non avevano dichiarato componenti positivi di reddito; per questo fatto erano state applicate delle sovrattasse e contemporaneamente erano stati sottoposti a processo penale e condannati per il reato di frode fiscale. La Corte ha escluso, con sei voti a uno, la violazione dell'art. del Protocollo n. 7, osservando che la durata totale dei procedimenti contro i due ricorrenti era stata di circa cinque anni e il procedimento penale era proseguito per meno di due anni dopo che le decisioni in materia fiscale erano divenute irrevocabili. Inoltre, l'integrazione tra i due procedimenti era evidente dal fatto che: a) le accuse penali contro i ricorrenti erano state formalizzate prima che le autorità fiscali decidessero di rettificare le loro dichiarazioni fiscali;
b) la condanna era intervenuta soUo qualche mese dopo gli accertamenti fiscali).
4.15. Nel caso di specie, la questione della connessione sostanziale e temporale dei procedimenti non è stata messa in discussione dal ricorrente, con conseguente insussistenza della violazione del divieto del bis in idem.
4.16. E' però vero che la Corte di appello non ha fornito alcuna risposta alla questione posta dall'imputato relativamente alla proporzionalità delle sanzioni.
4.17. Va preliminarmente ricordato, quanto alla natura "penale" del procedimento (e dell'accusa), che non è sufficiente la qualificazione formale del fatto-reato data dall'ordinamento interno; se così fosse, la latitudine applicativa del divieto sarebbe lasciata alla discrezione degli Stati contraenti in una misura che potrebbe portare a risultati incompatibili con l'oggetto e lo scopo della Convenzione (Corte EDU, Grande Camera, 10/02/2009, caso Sergey Zolotukhin contro Russia, § 52; Corte EDU, Grande Camera, 21/02/1984, caso òzturk contro Turchia, § 49; Corte EDU, Grande Camera, 15/11/2016, caso A e B contro Norvegia, §§ 106-107). Occorre aver riguardo agli stessi criteri autonomamente elaborati dalla Corte EDU In sede di interpretazione della parola "reato" contenuta negli artt. 6 e 7 della Convenzione, In particolare ai cd. "Enge/ criteria" (Corte EDU, Grande Camera, 15/11/2016, caso A e B contro Norvegia, cit. § 107): 1) la qualificazione dell'illecito In base all'ordinamento Interno; 2) la natura In sé dell'offesa; 3) il grado e la severità della sanzione prevista (gli 'Engel criteria' sono stati elaborati per la prima volta dalla Corte EDU in sede di applicazione degli artt. 6 e 7 della Convenzione, nella sentenza Corte EDU, Grande Camera, 8/06/1976, caso Engel ed altri c. Paesi Bassi,§ 82).
4.18. II secondo ed il terzo criterio sono alternativi, nel senso che un fatto potrebbe non essere considerato in sé "criminale in natura" o non appartenere alla "sfera criminale" (secondo il linguaggio adoperato dalla Corte EDU in sede di Interpretazione degli artt. 6 e 7, Convenzione EDU) e tuttavia potrebbe essere I qualificato come reato, ai sensi e per gli effetti della Convenzione EDU, in base al grado e alla severità della sanzione. Questo però non preclude un esame congiunto di tutti i criteri se nessuno di essi, isolatamente considerati, consente di pervenire ad una soluzione chiara sulla qualificazione del fatto come "reato" secondo la Convenzione EDU. La conseguenza è che se uno dei procedimenti o una delle conGlanne non riguardano fatti considerati "reato" secondo la Convenzione EDU, come autonomamente interpretata dalla Corte EDU, il ricorso che denunzia la violazione del divieto di bis in idem è inammissibile ai sensi dell'art. 35 § 3 della Convenzione (Corte EDU, Grande Camera, caso Paskas contro Lituania, § 69).
4.19. In numerose decisioni e sentenze la Corte EDU ha affermato che le sanzioni amministrative previste per il mancato pagamento delle tasse possono natura sostanzialmente penale e che di conseguenza hanno natura penale i procedimenti per la loro applicazione. Il principio è stato ribadito nella citata sentenza A e B contro Norvegia, cit. (§§ 136-139) che ha affermato la natura penale della sovrattassa del 30% (§ 139).
4.20. Nel caso di specie, la sanzione amministrativa minacciata e concretamente applicata al contribuente ha un'evidente componente dissuasiva (in sede di previsione astratta) e afflittiva (in sede concretamente applicativa), non essendo finalizzata al solo risarcimento/indennizzo del danno cagionato dal contribuente. La sanzione prevista dall'art. 1, comma 1, d.lgs. n. 471 del 1997, infatti, va dal centoventi al duecentoquaranta per cento dell'imposta dovuta; quella concretamente applicata è pari ad euro 467.562,70, di gran lunga superiore al 30% dell'imposta evasa nell'anno 2012 (euro 99.353,64) e nell'anno 2013 (euro 67.129,65). Si tratta di sanzione che, alla luce dei criteri indicati dalla Corte EDU (cd. Engels criteria), ha natura sostanzialmente penale ai sensi degli artt. 6 e 7, Convenzione EDU, e 4, Protocollo n. 7 alla Convenzione EDU.
4.21. Tale sanzione si aggiunge a quella applicata in sede penale al ricorrente, pari a un anno e due mesi di reclusione.
3.5. Quanto alla proporzionalità del complessivo trattamento sanzionatorio applicato per il medesimo fatto storico, occorre svolgere ulteriori considerazioni.
3.6. Un utile criterio può essere fornito, in primo luogo, dall'art. 135 cod. pen. che fornisce l'unità di misura della sanzione (sostanzialmente e formalmente) penale applicabile per il medesimo fatto storico. Considerando il criterio di ragguaglio previsto da detta norma (euro 250 per un giorno di pena detentiva), la sanzione di euro 467.562,70 corrisponde a oltre cinque anni di reclusione ( 467. 562,70/250=1870), per un complessivo trattamento sanzionatorio, nel caso di specie e per il medesimo fatto, pari a più di sei anni di reclusione. Naturalmente, Il giudice penale non può modificare la sanzione amministrativa Irrevocabilmente e separatamente già irrogata, ma può e deve tenerne conto ai fini della applicazione della sanzione penale. A tal fine, per meglio adeguare la sanzione al fatto può applicare le circostanze attenuanti generiche di cui all'art. 62-bis cod. pen., che consentono di determinare la pena in misura inferiore I minimo edittale previsto per lo specifico reato; può adeguare gli aumenti di pena applicabili per i reati-satellite; può tener conto anche delle condizioni economiche del reo affinché il trattamento sanzionatorio sia, nel suo complesso, dissuasivo-rieducativo (non solo meramente retributivo). E' evidente, infatti, che l'effetto dissuasivo della componente pecuniaria della sanzione complessiva è diverso a seconda delle condizioni economiche della persona fisica alla quale è irrogata. La regola stabilita dall'art. 133-bis cod. pen.
può essere considerata, al riguardo, espressione di un principio generale coerente con la finalità rieducativa della pena.
3. 7.Il principio di proporzionalità della pena complessiva non si applica, all'evidenza, quando al giudice penale risulta che la sanzione amministrativa è stata pagata da un soggetto diverso dall'autore del reato (art. 11, commi 5 e 6, d.lgs. n. 472 del 1997), non essendovi, in tal caso, nulla da compensare. 3.8.Escluso, dunque, che nel caso di specie la condanna del ricorrente nell’aver infranto il divieto di 'bis in idem' di matrice convenzionale, la Corte di appello non ha però fornito risposta al motivo con cui è stata dedotta la sproporzione della sanzione complessivamente applicata, non avendo tenuto conto, nella commisurazione della pena, della sanzione amministrativa irrogata all'imputato per il medesimo fatto. Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente al trattamento sanzionatorio con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Milano per nuovo esame.
4. E' infondato l'ultimo motivo.
3 .1. L'istituto della continuazione, la recidiva, l'abitualità e la professionalità nel delitto, condividono, sul piano oggettivo, il medesimo presupposto di fatto: la reiterazione dei delitti nel tempo. L'abitualità presunta per legge presuppone, addirittura, che i reati siano della stessa indole, la professionalità nel reato che il reo viva abitualmente, anche solo in parte, dei proventi del reato.
3.2. L'ambivalenza del dato oggettivo impone un maggiore sforzo deduttivo che non si limiti a proporre come tema di discussione astratta l'individuazione degli indici neutri di sussistenza del reato continuato, ma che indichi quale sia, sia pure a gradi linee, questo, disegno criminoso perseguito attraverso le reiterate condotte criminose; ciò affinché Il più favorevole trattamento sanzionatorio corrisponda ad un unico atteggiamento antidoveroso realmente esistente e non si trasformi da deroga alla regola del cumulo materiale delle .' pene in un indiscriminato trattamento premiale di favore, sganciato del tutto dai suoi presupposti applicativi (nel senso che l'art 81, ultimo comma, cod. pen., stabilisce che le diverse violazioni si considerano come un solo reato, e ciò per effetto della finzione giuridica che il legislatore, ispirato dal principio del favor rei, ha Inteso creare in omaggio a particolari ragioni di equità, sancendo una eccezione all'istituto del concorso di reati, cfr. Sez. U, n. 19 del 20/12/1969, dep. 1970, Spizzichino, Rv. 114067 - 01, secondo cui l'istituto della continuazione non dà luogo né ad una circostanza aggravante né ad una attenuante ma configura semplicemente una unità giuridica, in cui le singole infrazioni sono riannodate a quel prius psicologico, che costituisce il disegno criminoso, quale espressione dell'elemento soggettivo, che si distingue dalla comune nozione del dolo; si veda altresì Sez. U, n. 10928 del 10/10/1981, Cassinari, Rv. 151242 - 01, che ha ribadito che il reato continuato lungi dall'essere un reato unico, costituisce la risultante di reati plurimi aventi distinta autonomia e unificati, solo per determinati effetti giuridici, dall'elemento ideativo agli stessi comune, ossia dall'identità del disegno criminoso),
3.3. Nè l'unicità del disegno criminoso può essere confusa con il generico programma di commettere più reati poiché l'art. 81, cod. pen., necessita sempre di una approfondita verifica della sussistenza di concreti indicatori, quali l'omogeneità delle violazioni e del bene protetto, la contiguità spazio-temporale, le singole causali, le modalità della condotta, la sistematicità e le abitudini programmate di vita, e del fatto che, al momento della commissione del primo reato, i successivi fossero stati programmati almeno nelle loro linee essenziali, non essendo sufficiente, a tal fine, valorizzare la presenza di taluno degli indici suindicati se i successivi reati risultino comunque frutto di determinazione estemporanea (Sez. U, n. 28659 del 18/05/2017, Gargiulo, Rv. 270074 - 01; Sez. 1, n. 15955 del 08/01/2016, Eloumari, Rv. 266615; Sez. 1, n. 39222 del 26/02/2014, Rv. 260896; Sez. 1, n. 6553 del 13/12/1995, Bagnara, Rv. 203690, secondo cui la unicità del disegno criminoso necessaria per configurabilità del reato continuato e per l'applicazione della continuazione in fase esecutiva non può identificarsi con la generale tendenza a porre in essere determinati reati o comunque da una scelta di vita che implica la reiterazione di determinate condotte criminose, ma le singole violazioni devono costituire parte integrante di un unico programma deliberato nelle linee essenziali per conseguire un determinato fine).
3.4. Costituisce declinazione pratica di questi principi l'insegnamento di questa Corte secondo il quale, ai fini del riconoscimento della continuazione in sede di cognizione, incombe sull'interessato l'onere di indicazione e allegazione degli specifici elementi dai quali possa desumersi l'identità del disegno criminoso (Sez. U, n. 6480 del 21/04/1979 Chlarugi, Rv. 142536 - 01; Sez. 2, n. 2224 del 05/12/2017, dep. 2018, Pelllcoro, Rv 271768 - 01, che ha ritenuto corretta la decisione del giudice di appello di disattendere la richiesta volta al riconoscimento della continuazione non avendo l'appellante né prodotto la sentenza, né articolato alcun argomento circa la sussistenza di un unico disegno criminoso, limitandosi a richiedere l'acquisizione della pronunzia al collegio; Sez. 6, n. 43441 del 24/11/2010, Podda, Rv. 248962 - 01; Sez. 5, n. 18586 del 04/03/2004, D'Aria, Rv. 229826 - 01; Sez. 1, n. 10077 del 27/96/1995, Morea, Rv. 202533 - 01, secondo cui tale onere, in sede d'impugnazioni non totalmente devo·lutive nelle quali si iscrivono l'appello ed il ricorso per Cassazione, si coniuga con I obbligo della specifica indicazione degli elementi in fatto, delle ragioni di diritto poste a fondamento delle singole richieste e che si intendono come speculari agli errori "in iudicando" ed "in procedendo" dai quali si assume essere viziata la decisione impugnata; Sez. 1, n. 5518 del 18/11/1994, Montagna, Rv. 200212 - 01).
3.5. Del resto, la violazione della legge rileva quale strumento per il conseguimento del fine unificante, non può costituire essa stessa il fine da raggiungere.
3.6. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha fatto buon governo dei principi sin qui esposti avendo, da un lato, stigmatizzato la mancata allegazione, da parte dell'appellante, degli specifici elementi di fatto dai quali desumere l'esistenza dell'unico disegno criminoso preesistente alla consumazione dei reati tributari oggetto di odierno scrutinio, dall'altro avendo positivamente escluso che le omesse dichiarazioni costituiscano espressione di un unico disegno criminoso al quale ricondurre i reati oggetto di precedente condanna. Le appropriazioni indebite, le truffe e l'abusiva attività finanziaria risalgono, affermano i Giudici territoriali, a dieci anni prima, laddove i reati per i quali si procede sono stati consumati nel 2013 e nel 2014. Da ciò si ricava, concludono, «un elemento contrario all'unicità del disegno criminoso e compatibile piuttosto con una determinazione delinquenziale quale generica scelta di vita».
4.1. La motivazione è tutt'altro che manifestamente illogica e di certo non è sovvertibile in base alle generiche e fattuali deduzioni difensive.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Trieste. Rigetta il ricorso nel resto.
Visto l'art. 624 cod. proc. pen., dichiara la irrevocabilità della sentenza in ordine all'affermazione della penale responsabilità dell'imputato.