È apparente solo la servitù al cui esercizio siano destinate opere permanenti e visibili dal fondo servente: la Cassazione spiega cosa debba intendersi per “visibilità” delle opere.
L'attore conveniva in giudizio i convenuti per sentirli condannare alla rimozione o all'arretramento dei tubi di gronda posti sul prospetto anteriore e posteriore dell'edificio di cui era nudo proprietario uno dei convenuti, mentre gli altri erano usufruttuari. L'attore asseriva, in particolare, di essere proprietario di un edificio posto proprio al confine con quello dei convenuti che...
Svolgimento del processo / Motivi della decisione
1. L. V. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Modica M. G. (oggi deceduto), C. M. e C. M. per sentirli condannare alla rimozione ovvero all’arretramento dei tubi di gronda collocati sul prospetto anteriore e posteriore dell’edificio di cui la C. era nuda proprietaria e gli altri convenuti usufruttuari, con la condanna altresì dei convenuti al pagamento della somma di € 3.000,00 per avere innestato un capo del loro muro in quello confinante di proprietà dell’attore, con il conseguente accertamento della proprietà della ringhiera ivi collocata dai convenuti.
In particolare, precisava di essere proprietario di un edificio sito in M. alla via R. T. C., posto a confine con quello dei convenuti che avevano di recente collocato, sia nella facciata anteriore che in quella posteriore, dei tubi di gronda che, essendo collocati in prossimità della linea di confine, arrecavano disagio per l’immissione e ristagno di acqua, creando altresì il pericolo di infiltrazioni e di umidità nel muro divisorio di proprietà attorea, il tutto in violazione delle norme in materia di distanze.
Si costituivano i convenuti che chiedevano di poter chiamare in garanzia i precedenti proprietari del bene dagli stessi acquistato, I. C. e P. C., i quali nel merito sostenevano di avere solo sostituito le preesistenti grondaie, negando alcun innesto nel muro divisorio.
In via riconvenzionale chiedevano la condanna del L. alla rimozione delle tubazioni idriche e dell’impianto di riscaldamento posizionate a distanza non legale.
Disposta la chiamata in causa, si costituivano i terzi chiamati che chiedevano il rigetto della domanda svolta nei loro confronti.
Il Tribunale di Ragusa, subentrato a quello di Modica, con la sentenza n. 124 del 24 febbraio 2014 condannava i convenuti ad arretrare il pluviale posto sul prospetto anteriore del loro immobile sino alla distanza di un metro dal confine, rigettando tutte le altre domande, anche riconvenzionali.
Avverso tale sentenza proponevano appello i convenuti, cui resisteva il L. con appello incidentale.
La Corte d’Appello di Catania, con la sentenza n.1889 del 18 ottobre 2017, ha rigettato l’appello principale ed in accoglimento di quello incidentale ha condannato i convenuti a rimuovere ovvero ad arretrare sino alla distanza di un metro dal confine la grondaia posta al primo piano a livello di pavimentazione della terrazza ed il pluviale che verticalmente da tale grondaia convoglia l’acqua sul terreno, posti sul prospetto anteriore del loro immobile, nonché a rimuovere o arretrare sempre alla distanza di un metro dal confine, la grondaia posta orizzontalmente a livello del pavimento del vano terrazza ubicata nel prospetto posteriore; infine ha condannato gli appellanti principali al rimborso delle spese sia del primo grado che del giudizio di appello in favore dell’attore e dei terzi chiamati.
Quanto al primo motivo dell’appello principale con cui si contestava la correttezza del rigetto della domanda riconvenzionale, la sentenza osservava che il giudice di primo grado aveva riconosciuto all’attore il diritto a mantenere in loco le tubazioni, in quanto aveva usucapito il relativo diritto, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1058 e 1061 c.c.
A fronte della deduzione di parte appellante secondo cui era carente il requisito dell’apparenza per la servitù relativa alle tubazioni, la sentenza replicava che era incontroverso che gli impianti cui si riferivano le tubature risalivano alla coeva edificazione degli immobili oggetto di causa, e che quando gli appellanti acquistarono il loro immobile nel 1991 la situazione era identica, il che legittimava l’acquisto per usucapione della relativa servitù.
Passando ad esaminare il secondo motivo dell’appello principale ed il primo di quello incidentale, la Corte d’Appello reputava infondata la pretesa degli appellanti principali di avere usucapito il diritto a mantenere le grondaie nella loro collocazione attuale, e che anzi era meritevole di accoglimento la censura dell’originaria parte attrice che invece sosteneva che dovesse essere rimossa o arretrata anche la grondaia posta sul prospetto posteriore orizzontalmente al livello del pavimento del vano terrazza, quella posta sul prospetto anteriore, collocata in orizzontale al livello del pavimento del piano terrazza ed il pluviale posto verticalmente a collegamento della stessa grondaia con il piano di sedime.
Infatti, una volta esclusa la possibilità di invocare l’acquisto della servitù per destinazione del padre di famiglia, mancando la prova dell’appartenenza dei due edifici ad un unico proprietario, dal complesso delle prove raccolte (interrogatorio formale dei convenuti e prove testimoniali), e tenuto conto anche delle indagini svolte dal CTU, emergeva che in origine sulla facciata principale dell’immobile dei convenuti non vi era alcuna grondaia al primo piano a livello di pavimentazione della terrazza né pluviale che verticalmente da tale grondaia convogliava l’acqua sul terreno, come del pari non vi era prova della preesistenza sul prospetto retrostante di una grondaia posta orizzontalmente al livello del pavimento del vano terrazza.
Ciò implicava l’accoglimento dell’appello incidentale con l’eliminazione quindi di tutte le grondaie e tubature meglio specificate in dispositivo.
Per la cassazione di tale sentenza propongono ricorso C. M. e C. M. sulla base di due motivi, illustrati da memorie.
L. V. resiste con controricorso.
P. C., I. A. e I. R., la prima anche in proprio e tutti quali eredi di I. C., resistono con controricorso.
2. Il primo motivo del ricorso principale denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1058 e 1061 c.c. con riferimento al rigetto del primo motivo dell’appello principale, reiterativo della domanda riconvenzionale.
Si deduce che il giudice di appello ha confermato il rigetto della riconvenzionale volta a conseguire la rimozione delle tubature collocate dal L. all’interno del muro posto a confine tra le due proprietà, ed in violazione della distanza legale prevista dall’art. 889 c.c., ravvisando erroneamente il carattere della visibilità dei manufatti con i quali si estrinseca il diritto di servitù asseritamente usucapito dall’attore.
Si rileva che la Corte d’Appello, pur richiamando la necessità per l‘acquisto per usucapione della servitù del requisito dell’apparenza, ha però confermato la decisione di prime cure evidenziando che gli impianti cui erano funzionali le tubature risalivano all’epoca di edificazione del fabbricato e che quindi erano in loco già quando i convenuti erano divenuti acquirenti del loro fabbricato “nello stato di fatto in cui all’epoca si trovava, nella evidente originaria collocazione dei predetti impianti e relative tubazioni ..” così che alla luce degli accertamenti posti in essere al riguardo dal CTU, andava confermata la sentenza di primo grado.
Deducono invece le ricorrenti che le indagini dell’ausiliario di ufficio avevano evidenziato che le tubature relative alla cucina erano poste all’interno della parete divisoria tra le due proprietà e che analogamente le tubature relative alla caldaia, collocata all’interno di un piccolo locale ubicato al piano terra nella parte posteriore dell’edifico adiacente al muro del fabbricato ed a quello di confine, erano state collocate fin dalla data di costruzione del bene.
Si sostiene che però tale risposta sia erronea, in quanto non fornisce alcuna contezza circa l’effettiva sussistenza del requisito dell’apparenza e della visibilità dal fondo del confinante.
Rileva il Collegio che la giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 14292/2017) è solita affermare, al riguardo, che, ai sensi dell'art. 1061, comma 1°, c.c., è apparente soltanto la servitù al cui esercizio risultino destinate opere permanenti e visibili dal fondo servente, in modo da renderne presumibile la conoscenza da parte del proprietario di quest'ultimo (cfr. Cass. n. 2290/2004; Cass. n. 321/1998). La precisazione per cui le opere permanenti devono essere "visibili dal fondo servente" non costituisce, tuttavia, una specificazione del concetto di apparenza, come tale insensibile a connotazioni puramente topografiche, come dimostra l'irrilevanza - costantemente affermata da questa Corte - del fatto che le opere sono collocate sul fondo servente, su quello dominante o sul fondo di un terzo (Cass. n. 7817/2006; Cass. n. 6357/1997). Deve quindi reputarsi che la visibilità delle opere deve far capo ad un punto d'osservazione non necessariamente coincidente con il fondo servente, essendo essenziale, allo scopo, che queste rendano obiettivamente manifesta, per chi possegga detto fondo, la situazione di asservimento (Cass. n. 2994/2004; Cass. n. 2225/1976).
La visibilità dal fondo servente è, dunque, un'ipotesi normale ma non per questo esclusiva, essendo, piuttosto, sufficiente che le opere destinate all'esercizio della servitù siano visibili - anche se solo saltuariamente ed occasionalmente (Cass. n. 6522/1993) - da qualsivoglia altro punto d'osservazione, anche esterno al fondo servente, purché il proprietario di questo possa accedervi liberamente, come nel caso in cui le opere siano visibili da una vicina via pubblica
Non rileva, quindi, che l'opera sia a vista né che il proprietario del fondo che si assume asservito abbia, in concreto, conoscenza dell'esistenza dell'opera.
L'apparenza della servitù, senza la quale non è possibile la costituzione della servitù per destinazione del padre di famiglia, si identifica, in definitiva, nell'oggettiva e permanente sussistenza di opere suscettibili di essere viste (anche se, in concreto, ignorate) che, per la loro struttura e consistenza, inequivocamente denuncino il peso imposto su un fondo a favore dell'altro (Cass. n. 3556/1995). Non è, infine, necessario che l'apparenza, nei termini predetti, si estenda all'opera nel suo complesso: non è, quindi, l'entità dell'opera che rileva ma le opere in quanto segno obiettivo ed inequivoco della loro destinazione ad una determinata servitù (Cass. n. 9371/1992; Cass. n. 5020/1996).
A fronte di tali principi, è stato ad esempio affermato come la tubatura idrica, pur se collocata al di sotto del pavimento dell'appartamento che funge da fondo servente - ed incontestatamente oggetto di proprietà comune (in tal senso, del resto, Cass. n. 7761/2010) - costituisca senz'altro un'opera oggettivamente visibile, anche solo in parte, dal proprietario dello stesso, che, di fatto, inequivocabilmente (come, appunto, è il caso di una tubazione che trasporta acqua), rivela, per struttura e consistenza, l'onere che grava sull'appartamento servente a vantaggio dell'altro.
In tema di servitù apparenti, la visibilità delle opere destinate al loro esercizio è quindi un carattere che deve essere verificato caso per caso, tenendo conto della realtà sociale specifica, e cioè degli usi e delle consuetudini propri d'un determinato luogo in un'epoca precisa; proprio perché tale visibilità può assumere rilevanza espressiva diversa in condizioni differenti di luoghi, di ambiente sociale e di tempo, la medesima deve riferirsi alle opere nel loro insieme, come inequivoca espressione di una precisa funzione, sicché è essenziale per chi possegga il fondo servente che le opere che di fatto asservono tale fondo a quello altrui siano obiettivamente manifeste e visibili nel loro insieme (nella specie è stato escluso il carattere apparente della servitù di scarico, di cui era stato invocato l'acquisto per destinazione del padre di famiglia, sul rilievo che l'esistenza di pozzetti di ispezione, se poteva consentire di accertare l'interramento delle tubazioni, non era di per sé idonea ad individuare l'origine e la funzione delle condutture; Cass. n. 22829 del 11/11/2005).
Sempre ai fini della visibilità si veda anche Cass. n. 1328/2004 che ha cassato la sentenza di appello che aveva rigettato la domanda di negatoria servitutis proposta dagli attori in relazione alla presenza di una tubazione di scarico esistente nel bagno del loro appartamento, proveniente da quello sovrastante, ritenendo l'esistenza di una servitù costituita per destinazione del padre di famiglia da parte dell'unico originario proprietario, dal quale avevano acquistato i rispettivi immobili gli attori e poi il dante causa del convenuto, osservando questa Corte che la decisione impugnata non aveva compiuto l'accertamento dei requisiti necessari per la costituzione della servitù, atteso che era mancata l'indagine in ordine alla natura, ubicazione, consistenza e caratteristiche della tubazione (conf. Cass. n. 321/1998, a mente della quale non può ritenersi apparente una pretesa servitù di riscaldamento - consistente nel diritto, accampato da un condomino, ed a suo dire esercitato per oltre vent'anni, di utilizzazione dell'impianto di riscaldamento realizzato da altro condomino per suo uso esclusivo - correlandosi la stessa alla installazione di tubi e di impianti non visibili dal presunto immobile servente).
Posti tali principi, osserva il Collegio che la sentenza impugnata abbia disatteso la riconvenzionale sul presupposto dell’apparenza della servitù vantata dall’attore, e consistente nella presenza all’interno del muro divisorio delle tubature relative all’impianto idrico della a cucina sita nel piano terrazza, e delle tubature a servizio dell’impianto ubicato nel vano caldaia, affermandone apoditticamente la visibilità, ma senza che risulti compiuta alcuna specifica indagine circa l’effettiva sussistenza di tale requisito da parte del titolare del fondo servente, secondo quanto sopra specificato.
In motivazione ci si limita a dare atto dall’esistenza delle tubazioni sin dall’epoca di costruzione degli edifici, ma risulta omessa ogni verifica in merito alla possibilità che le tubazioni (alcune delle quali evidentemente poste all’interno della parete di separazione tra le due proprietà) siano effettivamente visibili da parte del titolare del fondo servente, e che analogamente sia visibile l’impianto a servizio del quale sono collocate le tubazioni, sia per quanto riguarda la cucina che il vano della caldaia (che il CTU, secondo quanto riportato in ricorso, riferisce esser allocata all’interno di un piccolo locale, senza che sia chiarito se dall’esterno sia dato evincere la presenza di tale impianto).
I passaggi della consulenza d’ufficio, per come riportati in ricorso, si limitano a riferire della ragionevole presunzione di esistenza dei manufatti sin dalla data di costruzione dell’edificio, ma manca, così come nella motivazione del giudice di appello, una puntuale verifica circa la ricorrenza del requisito della visibilità, presupposto necessario per l’acquisto a titolo originario del diritto di servitù.
La sentenza impugnata deve quindi essere cassata, dovendo il giudice di rinvio verificare altresì la ricorrenza del detto requisito della visibilità del peso gravante sul fondo delle ricorrenti.
3. Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1061 c.c. in relazione all’art. 115 c.p.c. con riferimento al rigetto del secondo motivo di appello principale ed all’accoglimento del primo motivo di appello incidentale, con la conseguente condanna alla rimozione delle grondaie e dele tubazioni di cui in dispositivo.
Assumono le ricorrenti che la sentenza ha fatto erronea applicazione dell’art. 1061 c.c. e non ha fatto buon governo dei principi in materia di prova, atteso l’errore di percezione sulla ricognizione del contenuto oggettivo delle prove.
Infatti, la sentenza non avrebbe correttamente inteso il reale contenuto delle prove raccolte, avendo quindi deciso in base a prove insussistenti.
Il motivo è inammissibile.
In primo luogo deve rilevarsi che, in tema di ricorso per cassazione, per dedurre la violazione dell'art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall'art. 116 c.p.c. (Cass. S.U. n. 20867/2020, secondo cui i tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell'art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato - in assenza di diversa indicazione normativa - secondo il suo "prudente apprezzamento", pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione).
La sentenza gravata, sulla scorta del complesso del materiale istruttorio, ha ritenuto che, anche a voler ammettere l’esistenza sul fabbricato di alcune gronde originariamente eguali a quelle presenti sul fabbricato del L., le medesime però avevano una collocazione ed uno sviluppo diversi da quello che invece avevano assunto a seguito degli interventi fatti eseguire dai convenuti, il che escludeva che, avuto riguardo alla data di esecuzione di tali interventi, potesse reputarsi acquisito il diritto di mantenere i manufatti de quibus per acquisto della relativa servitù a titolo originario. La censura proposta con il mezzo di impugnazione si risolve quindi a ben vedere in una contestazione all’accertamento di fatto operato dal giudice di merito, criticandosi l’apprezzamento delle prove operato in sentenza, in maniera logica e coerente, e prospettandosi a ben vedere non già la ricorrenza di una violazione di legge (la quale si configurerebbe solo all’esito della diversa ricostruzione fattuale ritenuta maggiormente appagante dalle ricorrenti), ma una censura di merito, inammissibile in sede di legittimità, e senza che vi sia nemmeno spazio per la deduzione del vizio di cui al n. 5 dell’art. 360 co. 1 c.p.c. (ove per ipotesi voglia reputarsi che la censura mossa sia convertibile in tale modo), stante la preclusione alla deduzione del detto vizio in ragione dell’applicabilità alla vicenda della previsione di cui all’art. 348 ter, ultimo comma, c.p.c., stante la ricorrenza di un ipotesi di cd. doppia conforme.
4. In accoglimento del primo motivo di ricorso, la sentenza impugnata deve quindi essere cassata, con rinvio alla Corte d’Appello di Catania, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso nei limiti di cui in motivazione e, dichiarato inammissibile il secondo motivo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte d’Appello di Catania, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.