Niente licenziamento per giusta causa nei confronti del dipendente che risponde volgarmente ai superiori, in un momento di rabbia. Per la Cassazione non si tratta di una vera e propria insubordinazione e pertanto è punibile con una mera sanzione conservativa.
Un lavoratore conveniva dinanzi al Tribunale di Benevento la società datrice chiedendo l'annullamento del licenziamento per giusta causa intimatogli dalla convenuta, deducendone l'illegittimità per insussistenza dei fatti contestati e per difetto di proporzionalità della sanzione. Il Tribunale accertava l'illegittimità del licenziamento e...
Svolgimento del processo
1. Con ricorso ex art. 1 comma 48 della legge n. 92 del 2012 B.M. convenne in giudizio davanti al Tribunale di Benevento la C.A.M. s.r.l. per sentire annullare il licenziamento per giusta causa intimatogli dalla società il 1.12.2017 deducendone la illegittimità per insussistenza dei fatti contestati e per difetto di proporzionalità della sanzione, potendosi, se del caso, irrogarne solo una conservativa.
2. Il Tribunale all'esito della fase somma1-ia accertava l'illegittimità del licenziamento ed ordinava la reintegrazione nel posto di lavoro condannando la convenuta a risarcire il danno liquidato in cinque mensilità di retribuzione.
3. Investito dell'opposizione, poi, lo stesso Tribunale confermava l'ordinanza impugnata.
4. La Corte di appello di Napoli, quindi, riqettava il reclamo della società osservando che correttamente il Tribunale aveva escluso la recidiva contestata sul rilievo che in epoca antecedente il recesso le due sospensioni erano state l'una revocata e l'altra annullata in sede giudiziaria e che, comunque, le varie contestazioni allegate attenevano a violazioni diverse tra loro ed erano perciò irrilevanti ai fini della contestazione della recidiva.
4.1. Aggiungeva che si era formato il giudicato sulla statuizione che i precedenti richiamati si riferivano a violazioni diverse non avendo la reclamante specificatamente impugnato la decisione sul punto.
4.2. Confermava la decisione che aveva escluso che le condotte contestate fossero riconducibili alla fattispecie dell'insubordinazione verso i superiori, sanzionata con la sospensione dall'art. 69 del c.c.n.l. laddove invece il licenziamento può essere irrogato nel caso di grave insubordinazione, minacce o vie di fatto o ancora per rifiuti di obbedienza ad ordini, fattispecie che nella specie non erano ravvisabili.
5. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la C.A. M. s.r. I. affidato due motivi. M.B. ha resistito con tempestivo controricorso.
Motivi della decisione
6. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 c.c., dell'art. 3 della legç1e n. 604 del 15 giugno 1966, degli artt. 7 e 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300 come modificato dall'art. 1 della legge n. 92 del 28 giugno 2012.
6.1. Sostiene la ricorrente che erroneamente la Corte di appello avrebbe ritenuto che i comportamenti richiamati, di cui due sanzionati con la sospensione pur annullata, non potessero costituire un criterio per valutare la gravità del comportamento contestato al dipendente e sanzionato con il licenziamento. Sostiene che in tal modo la Corte avrebbe confuso la recidiva, deve far parte dell'addebito contestato, con comportamenti disciplinarmente rilevanti che vengono in rilievo per valutare la gravità della condotta addebitata al lavoratore.
7. Il motivo è inammissibile.
7.1. La censura non coglie il senso della decisione che ha accertato che con l'appello si era reiterata la doglianza relativa alla gravità delle condotte nel tempo tenute dal lavoratore e tuttavia non si era impugnata la statuizione con la quale era stato accertato che, ai fini della recidiva che consente di punire con il licenziamento una condotta normalmente sanzionabile con una misura conservativa, era necessario seguire un procedimento che nella specie non era stato osservato.
7.2. Con il ricorso in Cassazione la società ritiene che le condotte pregresse avrebbero dovuto essere comunque prese in esame per valutare in un quadro complessivo la condotta tenuta nel tempo. Tuttavia, la Corte territoriale ha fondato la sua decisione su un duplice rilievo: che nello specifico era stata esclusa in fatto l'esistenza di una recidiva, posto che nessuna sospensione era stata validamente irrogata (le due sanzioni richiamate nella contestazione di addebito erano state l'una revocata e l'altra annullata); che si era formato il giudicato sull'accertata mancata adozione della procedura da seguire in caso di recidiva e sulla circostanza che i precedenti richiamati dalla società si riferivano a violazioni diverse.
7.3. La ricorrente tenta di superare tale affermazione rammentando che in assoluto la reiterazione di una condotta ne connota la gravità. Tuttavia la Corte di merito al riguardo ha escluso proprio che si trattasse di comportamenti che attenevano alle medesime violazioni mostrando così di aver preso in esame anche tale profilo.
8. Il secondo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 c.c., dell'art. 3 della legge n. 604 del 15 giugno 1966, degli artt. 7 e 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300 come modificato dall'art. 1 della legge n. 92 del 28 giugno 2012, dell'art. 69 del c.c.n.l. per i metalmeccanici del 29.7.2013. Deduce la ricorrente che la sentenza sarebbe incorsa nel vizio denunciato per aver erroneamente sussunto i fatti accertati in giudizio in una insubordinazione punibile con una sanzione conservativa laddove invece la condotta contestata ed accertata integrava una giusta causa o, quantomeno, un giustificato motivo soggettivo di licenziamento avuto riguardo alle espressioni ingiuriose utilizzate dal B. nei confronti di superiori gerarchici; al linguaggio scurrile utilizzato davanti a numerosi colleghi per giustificare il rifiuto di portare fuori dei carrelli come era stato richiesto a tutti i lavoratori addetti al suo servizio e al rifiuto di conferire col superiore gerarchico che lo aveva convocato per chiarimenti sui suoi comportamenti.
9. Anche questa censura deve essere dichiarata inammissibile.
9.1. La Corte di appello, in esito alla ricostruzione del fatto addebitato al lavoratore attraverso le risultanze dell'istruttoria svolta, ha espressamente valutato il fatto e le modalità con le quali la condotta era stata posta in essere anche sotto il profilo dell'impatto nell'ambiente di lavoro circostante e, senza trascurare l'inopportunità e sgradevolezza del comportamento, ha tuttavia ritenuto che nel suo complesso non potesse essere ricondotto alla grave insubordinazione verso i superiori che deve connotare la condotta che può essere sanzionata con il licenziamento. In tale procedimento di sussunzione la Corte territoriale è rimasta aderente ai principi dettati da questa Corte. Se è vero che la nozione di insubordinazione non può essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori, ma ricomprende qualsiasi comportamento atto a pregiudicare l'esecuzione e il corretto svolgimento delle suddette disposizioni nel quadro dell'organizzazione aziendale, tuttavia ove la contrattazione collettiva, come nel caso in esame, ancori l'irrogazione della massima sanzione alla gravità della condotta nei confronti dei superiori, all'esistenza di minacce o di vie di fatto, al rifiuto di obbedienza ad ordini, allora non qualunque comportamento può essere causa di licenziamento ma solo quello che, per le sue caratteristiche proprie, si palesi ingiustificatamente in netto contrasto con gli ordini impartiti.
9.2. Orbene, il giudice di appello, ha espressamente tenuto conto delle indicazioni provenienti dalla disciplina collettiva e, coerentemente con i fatti accertati, pur confermata la ingiustificatezza della condotta tenuta, l'ha valutata come una insubordinazione che non era, per il contesto complessivo in cui si era verificata, talmente grave da non poter essere altrimenti sanzionata.
9.3. Non è qui in discussione la possibilità di sottoporre a sindacato di legittimità la sussunzione, da parte dei giudici di merito, di una fattispecie concreta sotto l'astratta previsione legale, quand'anche formulata con una clausola generale. Tuttavia, non è ravvisabile alcun errore di diritto nel giudizio che riconduce all'insubordinazione, ma non 9rave, l'essersi sottratto ad uno dei compiti richiesti (spostare i carrelli a fine turno) per ragioni connesse al suo stato di salute seppur utilizzando un linguaggio molto volgare tenuto conto anche del fatto che questo era rimasto l'unico addebito, di quelli contestati, ad essere risultato oggettivamente dimostrato.
9.4. Ciò posto la decisione della Corte di merito, che ha ritenuto che il comportamento accertato, pur illecito, non fosse punibile con la più grave delle sanzioni disciplinari - per la considerazione che si trattava di episodi
delimitati ed essendo state escluse le altre condotte pure contestate - tale da privare dei mezzi di sostentamento il lavoratore e la sua famiglia, è rispettoso del principio di proporzione e la censura, in disparte la sua rubrica, non si confronta con il tenore delle norme collettive applicabili e si risolve, piuttosto, in una inammissibile richiesta di rivalutazione dell'istruttoria svolta pretendendo da questa Corte un diverso, e non consentito, apprezzamento delle dichiarazioni dei testi escussi per addivenire ad una differente ricostruzione dei fatti e ad una qualificazione del comportamento accertato tale da sussumerlo nella fattispecie di insubordinazione grave punibile con la massima sanzione espulsiva.
10. Per la ragioni esposte il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura indicata nel dispositivo. Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del
2002 va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell'art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in € 4.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge.