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23 febbraio 2023
Le dimissioni della lavoratrice in maternità devono essere convalidate dall’INL anche dopo la cessazione del periodo "protetto"

La cessazione del periodo protetto di astensione per maternità costituisce un fattore neutro, inidoneo ad incidere sulla modalità di formazione della volontà dismissiva espressa dalla lavoratrice.

di La Redazione
La Corte d'Appello, in parziale riforma del primo grado, dichiarava ai sensi dell'art. 55 D.Lgs. n. 151/2001 l'inefficacia delle dimissioni rassegnate da una lavoratrice in quanto non era stato rilasciato il prescritto provvedimento di convalida da parte dell'Ispettorato Nazionale del Lavoro. Nello specifico, veniva evidenziato che l'efficacia delle dimissioni doveva considerarsi sospesa sino alla convalida da parte dell'Agenzia, e non fino alla cessazione del periodo protetto di astensione per maternità fruito dalla interessata, così come stabilito dal Giudice di prime cure.
 
Contro questa statuizione, il legale rappresentante della società datrice presenta ricorso per cassazione lamentando che l'interpretazione resa dalla Corte territoriale in ordine al disposto dell'art. 55 cit. sarebbe in contrasto con la ratio della norma positiva. Lo scopo di quest'ultima, infatti, sarebbe quello di garantire la spontaneità e l'autenticità delle dimissioni in funzione di tutela di interessi costituzionalmente protetti, in relazione al solo periodo riconosciuto come abbisognevole di tutela particolare, e non anche al periodo successivo.
 
Con la ordinanza n. 5598 del 23 febbraio 2023, la Corte Suprema dichiara il motivo di ricorso infondato.
 
L'interpretazione offerta dal ricorrente in relazione al disposto dell'art. 55 cit. non è in primis sorretta dal dato testuale in quanto il comma 4 della stessa norma utilizza «una formula ampia, di carattere generale, dalla quale non è in alcun modo dato inferire che la necessità della convalida sia destinata a venire meno una volta trascorso il periodo oggetto di particolare protezione». 
 
In secondo luogo, la specifica ratio della citata disposizione è di salvaguardare la spontaneità della volontà dismissiva della lavoratrice o del lavoratore in un momento particolarmente delicato, cioè quello che corrispondente alla gravidanza o al primo anno del nascituro, neutralizzando eventuali abusi datoriali che possano condizionare la formazione della volontà. Proprio per tale ragione il legislatore ha inteso affidare ai servizi ispettivi ministeriali la verifica della effettività della volontà di risolvere il rapporto condizionando alla convalida l'efficacia del negozio di recesso.
 
Alla luce di ciò, è evidente che la specifica finalità antiabusiva appena esposta risulterebbe frustrata qualora si accedesse all'opzione per la quale una volta trascorso il periodo protetto non sarebbe necessaria la convalida da parte dei servizi ispettivi ministeriali per il prodursi della efficacia del recesso. 
 
La cessazione del periodo protetto costituisce, dunque, un fattore neutro, inidoneo ad incidere sulla modalità di formazione della volontà dismissiva espressa dal dipendente, conclusione, questa, che è in linea con l'art. 37 Cost. secondo cui «le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento dell'essenziale funzione familiare e assicurare alla madre ed al bambino una speciale adeguata protezione».