Il giudice dell'esecuzione, riuniti i procedimenti, può liquidare al creditore le sole spese ed i soli compensi professionali corrispondenti a quelli strettamente necessari per la notifica d'un solo precetto e d'un solo pignoramento, di valore pari alla somma dei titoli esecutivi separatamente azionati.
Svolgimento del processo
1. F.V. dC., creditore di Roma Capitale e munito di sette diversi titoli giudiziali, nel 2018 notificò all’amministrazione comunale sette precetti ed eseguì sette pignoramenti presso terzi. In tutti e sette i casi pignorò un credito del Comune di Roma nei confronti della società Monte dei Paschi di Siena s.p.a..
L’importo dei sette crediti, per come indicato nei vari atti di precetto ed al netto delle spese, variava da 5,80 a 372,08 euro. La somma del capitale, delle spese e degli onorari richiesti con i sette precetti era di euro 3.177,74.
2. Il Giudice dell’esecuzione, riuniti i pignoramenti, con ordinanza 24.1.2019 assegnò al creditore la somma di euro 3.177,74 a titolo di capitale e spese di precetto; euro 669,56 a titolo di rimborso delle spese della procedura esecutiva, ed euro 625,44 a titolo di onorari per la procedura esecutiva.
3. F.V. dC. propose opposizione ex art. 617 c.p.c. avverso la suddetta ordinanza, lamentando la mancata liquidazione delle spese successive all’ordinanza di assegnazione e la sottostima dei compensi professionali.
4. Il Tribunale di Roma con sentenza 28.10.2020 n. 15086 rigettò l’opposizione e condannò l’opponente alle spese ed al pagamento d’una ulteriore somma ai sensi dell’art. 96, terzo comma, c.p.c..
Il Tribunale ritenne che F.V. dC., iniziando sette diverse esecuzioni per crediti di modesto valore nei confronti del medesimo debitore, avesse tenuto una condotta contraria ai doveri di correttezza e buona fede. La condotta dell’opponente, ad avviso del Tribunale, fu contraria ai doveri di correttezza e buona fede perché:
-) aggravava inutilmente la posizione del debitore;
-) esponeva il debitore al rischio di moltiplicazione delle procedure esecutive, in virtù della considerazione che crediti di così modesta entità, tenuto conto del limite di cui all’art. 546 c.p.c., se maggiorati delle spese non avrebbero mai potuto trovare integrale soddisfazione nell’ambito del singolo pignoramento presso terzi;
-) tre dei sette pignoramenti avevano ad oggetto crediti di pochi euro.
Sulla base di queste premesse, il Tribunale ha concluso che l’importo dei compensi professionali liquidato dal giudice dell’esecuzione non fu sottostimato, perché la suddetta liquidazione andava compiuta “come se fosse stato unico il precetto ed il processo esecutivo sin dall’origine”.
Infine, il Tribunale ha ritenuto che l’opposizione agli atti esecutivi proposta da F.V. dC. costituisse un abuso del processo sanzionabile ai sensi dell’art. 96 c.p.c., in quanto compiuta con colpa grave.
5. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione da F.V. dC., con ricorso fondato su due motivi ed illustrato da memoria.
Roma Capitale ha resistito con controricorso.
Il terzo pignorato Monte dei Paschi di Siena s.p.a. non ha svolto attività difensiva.
Il Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte chiedendo il rigetto del ricorso.
Motivi della decisione
1. Col primo motivo il ricorrente lamenta sia il vizio di violazione di legge (sostenendo che la sentenza impugnata abbia violato gli articoli 1175 e 2233 c.c.; 88,92 e 95 c.p.c.; 75 111 della costituzione); sia il vizio di “carenza, illogicità, erroneità, abnormità e contraddittorietà della motivazione”, assumendo che tale vizio rientri nella previsione di cui all’articolo 360, n. 5, c.p.c.
Nella illustrazione del motivo il ricorrente prospetta varie censure che possono essere così riassunte:
a) ha errato il Tribunale nel ritenere che il creditore avesse preteso con l’atto di precetto spese eccessive; in realtà l’atto di precetto conteneva solo piccoli refusi il cui effetto fu quello di incrementare il credito richiesto, rispetto a quello reale, soltanto di nove euro;
b) la scelta di avviare plurime procedure esecutive non poteva ridondare a sfavore del creditore, in quanto pur essa fu conseguenza dell’inadempimento da parte di Roma Capitale delle proprie obbligazioni;
c) la motivazione con cui il Tribunale aveva rigettato l’opposizione era “illogica ed abnorme”, perché aveva per effetto di “impedire l’accesso alla giustizia” di chi vanti plurimi crediti ma di modesti importi;
d) la motivazione con cui il Tribunale aveva rigettato l’opposizione era inoltre “inconferente rispetto al thema decidendum”, il quale riguardava unicamente la liquidazione dei compensi professionali;
e) fu illegittima l’affermazione secondo cui le spese dovute al creditore procedente andavano liquidate come se questi avesse introdotto una sola procedura esecutiva, poiché nel caso di più cause successivamente riunite spetta al difensore un compenso professionale liquidato separatamente per ciascuna causa fino al momento della riunione;
f) il giudice dell’esecuzione, liquidando per le sette diverse procedure esecutive la complessiva somma di euro 1.295, comprensiva delle spese generali, dell’Iva e della cassa forense, aveva attribuito al difensore un compenso di euro 59,86 per ciascuna procedura, non rispettoso del decoro della professione.
1.1. La censura di “carenza, illogicità, erroneità, abnormità e contraddittorietà della motivazione” è inammissibile.
Infatti il novellato articolo 360, n. 5, c.p.c., nel testo ormai vigente da dieci anni [ovvero quello introdotto dall'art. 54, comma 1, lett. (b), del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in l. 7 agosto 2012, n. 134], non consente più di censurare in sede di legittimità il vizio di motivazione, tranne l’ipotesi in cui la motivazione manchi del tutto “sinanche come segno grafico “, ovvero sia assolutamente incomprensibile (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830).
Né l’una, né l’altra di tali ipotesi ricorrono nel caso di specie.
La motivazione della sentenza impugnata infatti esiste ed è ben chiara: il creditore non poteva pretendere la liquidazione di sette diversi compensi professionali perché costituì un abuso del processo introdurre sette diverse procedure esecutive pignorando il medesimo credito.
1.2. Le restanti censure sono infondate, per quanto la motivazione del provvedimento impugnato debba essere in parte corretta.
Il Tribunale ha rigettato l’opposizione sul presupposto che l’importo liquidato dal giudice dell’esecuzione a titolo di compenso professionale non fosse inferiore al minimo previsto dai parametri forensi.
È giunto a tale conclusione ritenendo che nel caso di specie le sette procedure esecutive introdotte da F.V. dC. dovessero essere considerate unitariamente, come una sola esecuzione, ai fini della liquidazione delle spese di lite.
Ed ha affermato che le sette procedure si dovevano considerare una sola, ai fini delle spese, perché introdurle costituì per il creditore un abuso del processo.
1.3. Tale statuizione è conforme a diritto.
Stabilisce infatti l’articolo 92 c.p.c. che il giudice “può escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice, se le ritiene eccessive o superflue”.
La norma costituisce applicazione del generale principio di autoresponsabilità, di cui è espressione l’articolo 1227 c.c., ed il suo campo applicativo non è limitato al giudizio ordinario di cognizione, ma si estende ovviamente anche alle procedure esecutive, come già ritenuto da questa Corte (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 23847 del 18/09/2008, la quale ha negato la ripetibilità delle spese di pignoramenti successivi del medesimo bene; è conforme Sez. 3, Sentenza n. 13204 del 26/07/2012; ma nello stesso senso si veda già Sez. 1, Sentenza n. 1043 del 15/04/1970, ove si legge che l'esecuzione deve avvenire “senza spese superflue”).
1.4. Il principio di autoresponsabilità applicato alla materia delle spese processuali ha per corollario l’irripetibilità delle spese sostenute senza vantaggio alcuno per il creditore.
Nel caso di specie il creditore procedente era il medesimo nelle sette procedure esecutive, medesimo era il debitore, medesimo era il terzo pignorato, medesimo era il credito pignorato.
Le sette esecuzioni, inoltre, furono iniziate pressoché contestualmente, come si desume dai rispettivi numeri di ruolo (16600/18, 16601/18, 16603/18, 16604/18, 16606/18, 16846/18, 16847/18).
Nulla, dunque, avrebbe impedito al creditore di procedere esecutivamente uno actu. La scelta di eseguire sette diversi pignoramenti presso terzi, pressoché contestuali ed in danno del medesimo debitore fu quindi una condotta che aggravò inutilmente la posizione di quest’ultimo, senza in nulla giovare al creditore. Od, almeno, senza che questi abbia mai allegato o evidenziato espressamente quale legittimo frutto intendesse trarre dalla moltiplicazione delle procedure esecutive, o quale rischio evitare.
Pertanto l’avvio di tante procedure esecutive quanti erano i titoli esecutivi di cui il creditore disponeva nei confronti del medesimo debitore fu una condotta colposa (e anche disciplinarmente rilevante, come già ritenuto da questa Corte: cfr. Sez. U, Sentenza n. 21948 del 28/10/2015) la quale comportò spese superflue.
Di tale condotta era dunque consentito al giudice tenere conto ai sensi dell’art. 92 c.p.c. escludendo la ripetibilità di quelle spese, come del resto già ritenuto da questa Corte allorché reputò legittima la compensazione delle spese della procedura esecutiva, in un caso in cui il creditore aveva dapprima ingiustificatamente rifiutato in pagamento un assegno circolare, e poi iniziato l’esecuzione (Sez. 3, Sentenza n. 23997 del 16/11/2011).
1.4. Il dispositivo della sentenza impugnata fu dunque conforme a diritto, in quanto il Tribunale ha:
a) accertato in punto di fatto una condotta contraria a correttezza, generatrice di spese processuali evitabili ed inutili;
b) escluso in punto di diritto la ripetibilità delle spese superflue, causate da quella condotta contraria a correttezza.
E superflue furono, per quanto detto, le spese ed i compensi richiesti per le sei procedure esecutive iniziate subito dopo la prima, nonostante il creditore già al momento della notifica del primo pignoramento fosse già in possesso di tutti e sette i titoli esecutivi.
1.5. Né sussiste il vizio di violazione dei parametri minimi previsti dal d.m. 55/14.
Il valore complessivo degli importi precettati dall’odierno ricorrente fu infatti di euro 1.560,55; aggiungendo a tale importo le spese di notifica di un precetto (10,83) ed il relativo compenso (euro 218,87) per come indicati dallo stesso ricorrente, si perviene al risultato di euro 1.790,25. Per l’espropriazione di crediti di tale importo il d.m. 55/14 prevede per le due fasi dell’esecuzione un compenso minimo di euro 450. Avendo il Giudice dell’esecuzione accordato al creditore la maggior somma di euro 625, non sussiste la lamentata violazione dei parametri tariffari.
1.6. Il primo motivo di ricorso va dunque rigettato sulla base del seguente principio di diritto:
“il creditore munito di più titoli esecutivi nei confronti del medesimo debitore non tiene una condotta conforme a correttezza e buona fede se, senza alcun vantaggio o interesse, effettua tanti pignoramenti del medesimo credito, quanti sono i titoli di cui dispone. In tal caso correttamente il giudice dell'esecuzione, riuniti i procedimenti, liquida al creditore procedente le sole spese ed i soli compensi professionali corrispondenti a quelli strettamente necessari per la notifica d’un solo precetto e d’un solo pignoramento, di valore pari alla somma dei titoli esecutivi separatamente azionati”.
2. Col secondo motivo il ricorrente ha impugnato la sentenza del Tribunale nella parte in cui lo ha condannato ex art. 96, terzo comma, c.p.c..
Nella illustrazione del motivo sostiene il ricorrente che la condanna prevista da tale ultima norma può essere pronunciata a carico di chi ha introdotto una lite con la consapevolezza della sua infondatezza, ovvero senza usare la normale diligenza per acquisire tale consapevolezza.
Tali presupposti non ricorrevano nel caso di specie, dal momento che l’opponente aveva proposto l’opposizione lamentando la “matematica ed incontrovertibile” violazione dei parametri minimi di liquidazione dei compensi professionali.
2.1. Il motivo è inammissibile.
In punto di diritto, infatti, le affermazioni contenute nella sentenza sono corrette: il Tribunale ha ravvisato un abuso del processo che ha comportato spese superflue a carico del debitore, ed ha conseguentemente condannato l’opponente ex articolo 96, terzo comma, c.p.c.
Lo stabilire, poi, se nel caso di specie vi fu o non vi fu un abuso del processo è questione di puro fatto, riservata al giudice di merito ed insindacabile in quanto tale in sede di legittimità.
3. Le spese del presente giudizio di legittimità vanno a poste a carico del ricorrente, ai sensi dell’art. 385, comma 1, c.p.c., e sono liquidate nel dispositivo, avuto riguardo al petitum.
P.Q.M.
la Corte di cassazione:
(-) rigetta il ricorso;
(-) condanna F.V. dC. alla rifusione in favore di Roma Capitale delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nella somma di euro 2.200, di cui 200 per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie ex art. 2, comma 2, d.m. 10.3.2014 n. 55;
(-) ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.