L'invalidità dell'accordo non compromette il contratto di patrocinio. In tale ipotesi, la liquidazione deve avvenire in applicazione delle tariffe professionali.
Il
Svolgimento del processo
1. Con sentenza n.240/2015, il Giudice di pace di Trieste, in accoglimento della domanda dell’avv. F.P., condannò A.C. al pagamento della somma di Euro 1.642,66, comprensiva di IVA e CPA, oltre interessi legali dalla domanda al saldo, a titolo di compenso professionale, quantificandolo nella misura del 10% sull’importo conseguito in sentenza, come stabilito convenzionalmente tra le parti. L’avv. P. aveva prestato attività di procuratore di C. nella causa di lavoro instaurata dinnanzi al Tribunale del lavoro di Trieste, conclusosi con l’accoglimento della domanda; aveva, tuttavia, rinunciato al suo mandato prima della pronuncia della sentenza, per essere venuto meno il rapporto di fiducia con il suo assistito che aveva criticato il contenuto delle comparse conclusionali da lui redatte; aveva poi comunque svolto per lui attività di procuratore in un’udienza successiva alla comunicazione del recesso.
Per quel che qui rileva, C. eccepì che non fosse dovuto l’intero compenso nella misura percentuale pattuita perché il difensore non aveva portato a compimento il suo mandato e rappresentò comunque di aver pagato l’attività di udienza successiva alla rinuncia, svolta dal difensore.
Il Giudice di pace, dopo aver motivato sulla sussistenza di una «giusta causa di recesso» per mancata contestazione dei fatti prospettati dall’attore, ritenne invece comunque dovuto l’intero compenso forfetario del 10% dell’ammontare riconosciuto dal Giudice del lavoro.
Adita da C., con sentenza n. 189 del 2017, la Corte d’appello di Trieste, in accoglimento parziale dell’impugnazione, ridusse il compenso «proporzionalmente all’attività svolta» e,
compensato quanto corrisposto per l’unica udienza successiva alla rinuncia, condannò C. al pagamento di E. 757,89 oltre accessori e alla metà delle spese del doppio grado.
Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione C. per 4 motivi, a cui l’avv. P. ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione
1. Preliminarmente è necessario puntualizzare che correttamente la Corte territoriale ha ritenuto ammissibile l’appello, nonostante la controversia fosse iniziata nella vigenza dell’art.14 del decreto legislativo 01/09/2011 n. 150.
Secondo principio consolidato, infatti, anche in seguito all'entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2011, art. 14, al fine di stabilire il regime di impugnazione del provvedimento con cui si liquidano gli onorari e le altre spettanze dovuti dal cliente al proprio difensore per prestazioni giudiziali civili, assume rilevanza la forma adottata dal giudice in base alla qualificazione che egli abbia dato, implicitamente o esplicitamente, all'azione esercitata in giudizio (Cassazione civile, sez. II 12/02/2021 n. 3687, con citazioni) in applicazione del principio di apparenza e affidabilità e del principio di ultrattività del rito che ne è specificazione, per cui il mutamento del rito con cui il processo è erroneamente iniziato compete esclusivamente al giudice.
2. Con il primo motivo C. ha prospettato la violazione dell’art. 116 cod.proc.civ. in relazione all’art. 360 comma I n. 3 e la violazione degli art. 1218, 2119, 2697, 2237 cod.civ. in relazione all’art. 360 comma I n. 3 cod.proc.civ. perché la Corte non avrebbe correttamente valutato la sua contestazione dei fatti considerati quali giusta causa di recesso.
Con il secondo motivo, ha lamentato la violazione e falsa applicazione dell'art. 1727 cod.civ. in relazione all’art. 360 comma I n. 3 e la violazione e falsa applicazione degli art.1362 cod.civ. e 85 cod.proc.civ. in relazione all’art. 360 comma I n. 3 perché non avrebbe considerato che era stato stipulato un contratto a termine e che pertanto lo svolgimento di un’udienza successiva alla rinuncia significava che era insorto un nuovo rapporto obbligatorio, incompatibile con l’interruzione del nesso fiduciario.
Con il terzo motivo, ha sostenuto la violazione dell'art. 115 cod.proc.civ. in relazione all’art. 360 comma I n. 4: la Corte avrebbe immotivatamente rigettato il motivo d’appello concernente l’inidoneità del fatto rappresentato dall’avvocato a costituire «giusta causa di recesso», anche perché l'avvocato P. comunque non aveva mai rappresentato che «il disappunto asseritamente manifestato» fosse «privo di fondamento».
Con il quarto motivo, ha sostenuto la violazione e falsa applicazione degli art. 2237 e 2219 cod.civ. in relazione all’art. 360 comma I n. 3 cod.proc.civ. perché la Corte, assorbendo i motivi di appello concernenti l’inadempimento dell’avv. P. per il recesso ingiustificato dal mandato, non ha considerato il suo danno conseguente all’aver dovuto avvalersi di un nuovo difensore.
Con il quinto motivo, infine, C. ha censurato la sentenza per violazione e falsa applicazione dell'art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale e degli art. 2233, 2237 e 2225 cod.civ. in relazione all’art. 360 comma I n. 3 cod.proc.civ., per avere la Corte erroneamente riconosciuto il compenso stabilito con il patto di quota lite nonostante la prestazione dedotta in contratto fosse indivisibile e l’obbligazione non fosse stata portata a termine.
3. I primi quattro motivi possono essere trattati congiuntamente per continuità argomentativa e sono tutti infondati in quanto invocano l’applicazione alla fattispecie di un complesso di norme invece non operanti: l'attività dell'avvocato, infatti, è regolamentata da una disciplina particolare, in deroga alle previsioni di carattere generale in tema di responsabilità del debitore e recesso per giusta causa.
Tutte le prime quattro censure si fondano, perciò, su un presupposto erroneo in diritto perché nel rapporto in esame il diritto al compenso non è comunque mai escluso per mancanza di una giusta causa di recesso del professionista.
Non considera, dunque, il ricorrente, che il contratto di patrocinio - con cui il professionista assume l’incarico di rappresentare la parte in giudizio – non è interamente riconducibile allo schema delineato dal codice civile, negli articoli dal 2229 a 2238, per il contratto d’opera intellettuale, proprio in quanto trova la sua disciplina speciale negli articoli da 82 a 87 del codice di procedura civile e dalle norme speciali in materia di professione di avvocato e dei suoi compensi.
In particolare, l'art. 85 cod.proc.civ. prevede esplicitamente che «la procura può essere sempre revocata e il difensore può sempre rinunciarvi», seppure preveda anche che la revoca e la rinuncia non abbiano «effetto nei confronti dell'altra parte finché non sia avvenuta la sostituzione del difensore»: dalla formulazione della norma risulta allora evidente che, in deroga agli art. 2119 e 2237 cod.civ. come invocati dal ricorrente, il recesso dell'avvocato dal mandato è sempre liberamente esercitabile senza necessità della ricorrenza di una giusta causa, seppure, per scongiurare le conseguenze pregiudizievoli all’assistito per la perdita della difesa tecnica e alla controparte per la mancanza di un titolare di ius postulandi, l’attività mandata della rappresentanza in giudizio prosegua ad ogni effetto fino alla nomina di nuovo difensore.
In corrispondenza, è ugualmente e chiaramente assicurato all’assistito il diritto alla revoca del mandato al suo difensore, senza alcun limite, soltanto per essere venuto meno il rapporto fiduciario.
Per quel che qui rileva, nello stesso senso della norma del codice di procedura, l'art. 7 della legge 13 giugno 1942 n. 794, come tenuto in vigore dall'articolo 1, comma 1, del D.Lgs. 1° dicembre 2009, n. 179, prevede che «per le cause iniziate ma non compiute ovvero nel caso di revoca della procura o di rinunzia alla stessa il cliente deve all'avvocato gli onorari corrispondenti all'opera prestata» senza alcun riferimento alla necessità della giusta causa: con ciò, evidentemente, è al contempo assicurato all’avvocato il diritto di recesso e il conseguente diritto al compenso senza necessità di stabilire causa e imputabilità dell’interruzione del rapporto professionale (cfr. Sez. 2, Sentenza n. 13329 del 2000).
Unico limite resta dunque posto dalla peculiare disciplina speciale come dettata dall’art.85 cod.proc.civ. non all’esercizio del recesso in sé, ma alle modalità di questo esercizio: come detto, il difensore, nell’esercitare il suo diritto alla libera rinuncia al mandato, deve infatti assicurare ogni attività implicata dalla rappresentanza in giudizio fino alla sua sostituzione; la violazione di questo dovere è sanzionato disciplinarmente (art. 32 del Codice disciplinare) e può essere fonte di risarcimento dei danni.
Su quest’ultimo punto, in particolare riferimento al quarto motivo, deve ancora precisarsi che i danni risarcibili non possono essere identificati, attesa la libertà di recesso, nelle immediate conseguenze della rinuncia al mandato, cioè, per l’assistito, nella necessità di procurarsi un nuovo difensore, ma soltanto, come detto, nelle conseguenze dell’esercizio del diritto di rinuncia da parte del difensore in violazione delle modalità e delle cautele prescrittegli.
3.1. Fondato è, invece, il quinto motivo.
L’appellante aveva censurato la sentenza di primo grado perché il primo giudice non aveva considerato che il riconoscimento dell’intero compenso pattuito avrebbe richiesto la prestazione dell’attività difensiva fino alla sentenza definitiva.
La Corte d’appello, pur dando atto che, secondo l’accordo intervenuto, C. «si era impegnato a corrispondere all’avv. P. un compenso commisurato a percentuale sulla somma riconosciuta all’esito del giudizio dal Giudice del lavoro, al netto delle ritenute previdenziali e fiscali» (così in sentenza), ha tuttavia ritenuto irrilevante che lo stesso avvocato abbia prestato la sua difesa soltanto fino alla pronuncia sull’an della pretesa e non fino alla determinazione del quantum; ha quindi ritenuto di poter determinare il compenso nella misura del 50% della percentuale della somma riconosciuta dal Giudice del lavoro come convenuta, affermando che non possa «dubitarsi che la pronuncia definitiva […] sia correlata, sul piano causale, anche all’attività svolta dall’avv. P.». Ha motivato, quindi, la possibilità di riduzione richiamando la giurisprudenza di questa Corte in materia di prestazioni professionali.
Per le considerazioni già svolte, tuttavia, la statuizione della Corte territoriale non è condivisibile in quanto fondata sulla equivalenza tra contratto di prestazione professionale e contratto di patrocinio che, invece, deve essere esclusa.
Il compenso a percentuale o sul risultato implica che il compenso dell’avvocato per il suo lavoro sia stato concordato in ragione di quanto ricavato dall’assistito oppure in relazione ad un risultato conseguito, a differenza di quanto avviene con il sistema di tariffazione per fasi.
La Corte, allora, avrebbe dovuto – e dovrà - interpretare l’accordo, stabilendo innanzitutto se le parti abbiano inteso convenire soltanto la misura dell’importo da liquidare, rapportandola al risultato finale della lite comunque conseguito o, invece, abbiano convenuto di condizionare l’operatività del patto al verificarsi di taluni determinati eventi (nella specie, la sentenza sulla quantificazione del credito riconosciuto), escludendola nell’ipotesi dell'anticipata rinuncia al mandato.
Questa operazione ermeneutica consentirà altresì di scrutinare la proporzione e la ragionevolezza della remunerazione convenuta rispetto alla tariffa di mercato, tenuto conto di tutti i fattori rilevanti, in particolare del valore e della complessità della lite e della natura del servizio professionale, comprensivo dell'assunzione del rischio (cfr.Cass. Sez. Unite, 25/11/2014, n. 25012; Cass. Sez. Unite, 04/03/2021, n. 6002).
In ipotesi di giudizio negativo sulla validità dell’accordo o sulla sua operatività, la liquidazione del compenso dovrà avvenire in applicazione delle tariffe professionali, perché, ai sensi dell'art. 1419, comma 2, cod.civ., la nullità del patto di quota lite comunque non pregiudica la validità dell’intero contratto di patrocinio (cfr.Cassazione civile, sez. II, 30/07/2018, n. 20069): l’attività professionale svolta deve infatti essere comunque remunerata, come stabilito dal principio sancito nell’art. 7 l. 794/42 già richiamato.
4. Il ricorso è perciò accolto limitatamente al quinto motivo in relazione al quale soltanto l’impugnata sentenza è cassata, con rinvio alla Corte d’appello di Trieste in diversa composizione, anche per le spese di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il quinto motivo di ricorso, rigettati i restanti; cassa in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’appello di Trieste in diversa composizione, anche per le spese di legittimità.