Come ricorda la Cassazione, le condotte cui fa riferimento il dipendente devono avere carattere intenzionale e discriminatorio ai suoi danni, ma nel caso di specie ciò non era stato riscontrato e neppure il fatto che le stesse potessero avere effetti duraturi sulla sua condizione lavorativa.
Il Tribunale di Foggia respingeva il ricorso proposto dall'attuale ricorrente che all'epoca dei fatti rivestiva la qualifica di vigile urbano e aveva chiesto il risarcimento dei danni per fatti riconducibili alla fattispecie di straining ad opera del suo superiore e di alcuni colleghi. Nello specifico, il ricorrente aveva dichiarato che era stato sottoposto ad un...
Svolgimento del processo
Con ricorso depositato presso il Tribunale di Foggia il 20 ottobre 2006 G. D. G. ha esposto che:
era dipendente del Comune di Foggia dal 1983, con la qualifica di vigile urbano;
era stato sottoposto a TSO nel marzo del 1999 per un "mutamento sistematico del proprio umore abituale";
i sanitari degli Ospedali riuniti di Foggia avevano ipotizzato che la relazione ipomaniacale da lui manifestata fosse conseguenza di una relazione conflittuale presente in ambito lavorativo;
dal 1994 era stato oggetto di molestie psicologiche ed atti di mortificazione personale ad opera del suo superiore e di alcuni colleghi.
Il Tribunale di Foggia, nel contraddittorio delle parti, con sentenza del 28 settembre 2015, ha rigettato il ricorso.
G. D. G. ha proposto appello che la Corte d'appello di Bari, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 249/2019, ha rigettato.
In particolare, il giudice del gravame ha escluso che ricorresse una fattispecie di straining, rilevando che, come accertato anche in primo grado, gli unici due episodi rilevanti ai fini della decisione non giustificavano l'accoglimento dell'impugnazione.
Quanto al primo, relativo alla stesura di una relazione di servizio al di fuori dell'orario di servizio, la corte territoriale ha sottolineato che si trattata di una richiesta avanzata dal Comandante a tutti i dipendenti.
In ordine al secondo, riguardante una pratica concernente l'irregolarità edilizia di un chiosco, ha ritenuto che mirasse non ad umiliare l'appellante, ma ad evitare un approfondimento della vicenda.
G.D. G. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi.
Il Comune di Foggia si è difeso con controricorso. Il ricorrente ha depositato memorie.
Motivi della decisione
1) Con il primo motivo il ricorrente lamenta l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata ex art. 360, n. 5, c.p.c.
La doglianza è inammissibile.
In primo luogo, si osserva che l'art. 360 c.p.c. non contempla fra i motivi di ricorso per cassazione l'insufficienza e la contraddittorietà della motivazione.
Inoltre, si rileva che, nella specie, ricorre un'ipotesi di e.ci. doppia conforme, in presenza della quale non è possibile agire in sede di legittimità in base al disposto dell'art. 360, n. 5, c.p.c.
Infine, si sottolinea che la corte territoriale ha espressamente preso posizione sulle contestazioni sollevate, sia in diritto sia in fatto dal ricorrente, il quale, con il presente gravame, mira sostanzialmente a chiedere a questa Suprema Corte un riesame nel merito delle risultanze processuali che, nel giudizio di cassazione, è precluso.
2) Con il secondo motivo il ricorrente contesta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2087 c.c., della Direttiva 200/78/CE, degli artt. 112, 115, 116 e 342 c.p.c., degli artt. 1218, 1312, 2043 e 2059 c.c., degli artt. 3, 32, 35, 36 e 41 Cost., nonché il difetto di motivazione, in quanto la corte territoriale avrebbe errato nel negare che le condotte illegittime tenute dal capo del suo ufficio erano rivolte contro di lui e, comunque, nel non riconoscere il risarcimento dei danni conseguenti a dette condotte.
In particolare, osserva che le sue condizioni di salute sarebbero peggiorate a causa di una sanzione disciplinare a lui inflitta.
La doglianza è infondata.
La Corte d'appello di Bari ha accertato, con una valutazione di merito compiutamente motivata e, quindi, qui non più contestabile, che le due condotte summenzionate dimostrate in corso di causa non fossero tali di integrare gli estremi dello straining. Il giudice di secondo grado ha ritenuto che tali condotte fossero prive di carattere intenzionale e discriminatorio in danno del ricorrente e che non fossero idonee a produrre conseguenze durature sulla condizione lavorativa del dipendente anche perché non risultava si fossero ripetute nel tempo.
Soprattutto, ha chiarito che le citate condotte non avevano posto il lavoratore in una posizione di inferiorità e soggezione di intensità maggiore rispetto a quella connaturale al ruolo rivestito dai soggetti coinvolti all'interno dell'organizzazione della quale facevano parte.
Ne deriva che vi è stata una verifica in fatto dell'assenza degli elementi costitutivi di un illecito civile, ovvero, del dolo (avendo G. D. G. prospettato nel ricorso di primo grado, per come sintetizzato nella decisione impugnata, l'esistenza di aggressioni e molestie psicologiche nei suoi confronti) e, soprattutto, del danno e del relativo nesso causale con i comportamenti contestati.
Per ciò che concerne il procedimento disciplinare, si osserva che si tratta di una vicenda che, dalla lettura della sentenza di appello, non risulta essere stata dedotta nel ricorso di primo grado.
3) Il ricorso è rigettato.
Le spese di lite seguono la soccombenza ex art. 91 c.p.c. e sono liquidate come in dispositivo.
Sussistono le condizioni richieste dall'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dalla legge n. 228 del 2012, per affermare l'obbligo del ricorrente di corrispondere un importo pari a quello del contributo unificato versato, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte,
- rigetta il ricorso;
- condanna il ricorrente a rifondere le spese di lite, che liquida in€ 2.000,00 per compenso ed € 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali nella misura del 15%;
- dichiara che sussistono le condizioni richieste dall'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dalla legge n. 228 del 2012, per affermare l'obbligo del ricorrente di corrispondere un importo pari a quello del contributo unificato versato, se dovuto.