Le violenze denunciate non possono essere ritenute false in assenza di elementi di fatto. È infatti necessario tutelare le vittime di alcuni tipi di reato che ledono l'integrità, fisica e morale, tanto da renderle particolarmente vulnerabili soprattutto nel percorso processuale.
Svolgimento del processo
1. Con la sentenza del 14 settembre 2021 la Corte di appello di Bari ha confermato la condanna di T. T. ad un anno di reclusione per calunnia aggravata ai danni dell'ex compagno, D. R., previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e della sospensione condizionale della pena, oltre al risarcimento del danno a favore della parte civile da liquidarsi in separata sede.
La ricorrente è stata ritenuta responsabile di avere falsamente denunciato il 13 settembre 2014, presso il Commissariato di P.S., D. R. di avere praticato atti sessuali sul proprio figlio, L. A. R. all'epoca dell'età di 4 anni, toccandogli il pene in bagno quando faceva i bisogno in due occasioni (luglio e settembre 2014) di cui una alla presenza della stessa madre (luglio 2014).
2. Avverso detta sentenza ha presentato ricorso T. T., con atto sottoscritto dal suo difensore, deducendo un unico motivo ulteriormente sottoarticolato.
1. Vizio di motivazione, per insufficienzc1 ed illogicità, in relazione all'art. 368 cod. pen. in quanto la Corte di appello aveva fondato la responsabilità della ricorrente sulla sola pronuncia del decreto di archiviazione del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Foggia nel procedimento per violenza sessuale del R. nei confronti del figlio, basato su prove dichiarative ambigue, rispetto al procedimento per calunnia per i medesimi fatti.
La Corte di appello, inoltre, nel ritenere la condotta della T. sorretta da una volontà ritorsiva, volta ad allontanare il bambino dal padre, aveva omesso di esaminare il provvedimento del Tribunale per i Minorenni, agli atti del fascicolo processuale, in cui si rilevava che «il minore, nel corso dell'ascolto personale, ha confermato di avere paura del padre e di non volerlo incontrare».
2. Il ricorso rileva che, a fronte di una ricca giurisprudenza sul dolo di calunnia, la sentenza impugnata si sia limitata a ritenerlo integrato in base alla conflittualità della coppia, desunta dall'opposizione della ricorrente ad incontri tra il figlio e il padre e dal provvedimento di affidamento del bambino ai servizi sociali, adottato dal Tribunale per i Minorenni di Bari, nonostante risultassero: a) la paura di L. A. R. di vedere il padre (così pag. 5 del provvedimento del Tribunale per i Minorenni del 4/11/201.5); b) la nota del Dirigente del Commissariato di Cerignola, del 23/08/2016, in cui la ricorrente, interrogata alla presenza del difensore di fiducia, aveva dichiarato di avere denunciato immediatamente l'ex compagno, quando il figlio le aveva riferito degli abusi sessuali, al solo fine di tutelarlo; c) l'esame reso da T. all'udienza del 01/06/2021, dinnanzi alla Corte di appello di Bari, in cui aveva confermato di essere preoccupata come madre per quanto rivelatole dal bambino.
3. Il giudizio di cassazione si è svolto a trattazione scritta, ai sensi dell'art. 23, comma 8, d.l. n. 137 del 2020, convertito dalla I. n. 176 del 2020, in mancanza di richiesta nei termini di discussione orale e il Procuratore 9enerale e la parte civile hanno depositato le conclusioni in epigrafe indicate.
Motivi della decisione
1. II ricorso è fondato.
2. Le sentenze di merito, pronunciate con il rito abbreviato, hanno fondato la decisione e lo sviluppo argomentativo solo su valutazioni soggettive, congetturali ed aprioristiche, non ancorate ad alcun atto o fatto.
L'elemento oggettivo del reato di calunnia è stato desunto dal solo decreto di archiviazione del 4 dicembre 2015, intervenuto nel procedimento originato dalla denuncia di T. nei confronti di R. per il reato di violenza sessuale, che era privo di motivazione, essendosi limitato a richiamare le richieste del pubblico ministero, neanche queste riportate nelle sentenze di primo e secondo grado, a loro volta prive di qualsiasi conforto fattuale stante il mancato svolgimento di qualsivoglia indagine.
Senza mai illustrarne o quantomeno indicarne l'oggetto, la sentenza della Corte di appello di Bari conclude per la falsità della denuncia di T., non solo non menzionandone il contenuto, ma desumendola dal contesto di cui, però, non indica la fonte di prova che lo descrive in quei termini.
In sostanza, la Corte di merito, ritiene dolosamente non veritiera la denunciata violenza sessuale di R., per come rivelata dal bambino alla madre (e ai nonni) in più occasioni, in quanto frutto «di grande conflittualità relazionale esistente tra i genitori del piccolo R. L. A. e tra i nonni materni e la persona offesa nel presente procedimento di calunnia; conflittualità verosimilmente sorta a seguito del rifiuto di quest'ultimo di contrarre matrimonio con l'imputata, in modo da regolarizzare una relazione sentimentale da cui era nata anche una prole».
La sentenza, senza esaminare e collocare in un contesto più ampio il rapporto tra R.. T. e il loro bambino, a partire dalla nascita di questi, dal suo abbandono da parte del padre e da quanto riferito dalla donna nella denuncia sporta al Commissariato di Cerignola, conclude apoditticamente che T. aveva denunciato falsamente R. per vendicarsi di non essere stata da lui sposata «in modo da regolarizzare una relazione sentimentale da cui era nata anche una prole», sulla base di una valutazione soggettiva, disancorata da qualsiasi elemento di fatto, comprovata dall'uso dell'avverbio verosimilmente e dal non essere stata indicata la fonte di tale asserzione, fino al punto di apparire frutto di un distorcente stereotipo culturale.
La sentenza impugnata, inoltre, continuando a non menzionare la certezza di T. che R. avesse abusato sessualmente del figlio, tanto da averlo · denunciato al Commissariato alla terza rivelazione di questi, ribadita anche dinnanzi alla stessa Corte con dichiarazioni spontanee, descrive la relazione tra i genitori con l'improprio termine conflittuale e colpevolizza la donna per essersi opposta agli incontri del bambino con il padre, cioè con colui che, secondo quanto riferitole dal piccolo A., gli toccava immotivatamente il pene.
La Corte di appello, con una gravissima omissione, puntualmente censurata dalla difesa di T. sia nell'atto di appello che nel presente ricorso, non cita la paura del figlio nei confronti di R. e il suo rifiuto di incontrarlo, circostanza riportata dal Tribunale dei Minorenni nel provvedimento n. 4315/2015 a seguito dell'ascolto del bambino, e con un'illogicità manifesta richiama il provvedimento di affidamento di L. A. R. ai servizi sociali,. attribuendone la responsabilità alla T. per non avere favorito il rapporto proprio con colui che riteneva esserne l'abusante.
La sentenza impugnata, inoltre, ancora una volta in termini apodittici ed astratti, a fronte delle sole denunce, tra loro riscontrate, della T. e della madre di questa e in assenza di ulteriori indagini,. sulla base un mero convincimento soggettivo, contrario peraltro a dati di comune esperienza sulle violenze sessuali nei confronti di bambini e bambine che avvengono sovente proprio approfittando di momenti di accudimento: a) colloca su un piano di inverosimiglianza che un padre possa abusare del proprio figlio («è davvero inverosimile che R. abbia addirittura approfittato dell'accompagnamento del figlio per aiutarlo ad urinare nel bagno di un bar per commettere gli abusi denunciati»); b) non prende in alcuna considerazione le reiterate rivelazioni di L. A. R. e la sua tutela; c) descrive quanto denunciato da T., cioè il ripetuto toccamento del pene del piccolo di 4 anni, come «comportamenti 9enitoriali di assistenza (così come descritti in denuncia) molto comuni per i figli di quella età».
Infine, entrambe le sentenze di merito non spiegano perché la donna dovesse falsamente denunciare R., in base a moventi intesi dai giudici, in assenza di prove e secondo il loro punto di vista individuale, come dovuti a vendetta o alla volontà di allontanare il figlio dal padre, quando al contrario la situazione si era da tempo assestata, era notorio che il piccolo fosse nato fuori dal matrimonio; aveva già 4 anni e dal 2013 il Tribunale dei minorenni aveva consentito all'uomo di vederlo in assenza della madre.
3. Alla luce di questa disamina è necessario chiarire il rapporto tra il giudizio sul reato di calunnia e il giudizio sul reato presupposto, stante la censura difensiva secondo cui le sentenze di merito avrebbero ravvisato l'elemento oggettivo del delitto contestato a T. in base all'asserzione, contenuta nel capo di imputazione, per la quale i fatti erano stati «accertati mai avvenuti, come da decreto di archiviazione del G.I.P. del Tribunale di Foç1,gia» emesso nei confronti di R., per il delitto di valenza sessuale aggravata a danni del figlio di 4 anni (erroneamente qualificato come atti sessuali con minorenne).
3.1. Ai sensi dell'art. 368 cod. pen. l'innocenza del calunniato è il presupposto del delitto di calunnia.
Tale pregiudizialità, sul piano logico, afferisce soprattutto alla decisione sull'imputazione di calunnia e non richiede necessariamente l'accertamento processuale dell'infondatezza dell'accusa mossa al calunniato nel separato procedimento a suo carico che costituisce un giudizio del tutto autonomo.
Infatti, anche la sentenza definitiva, pronunciata nei suoi confronti, non fa stato nel processo contro il calunniatore in cui è consentito al giudice di rivalutare, ai fini della contestazione della falsità della notizia di reato, i fatti che hanno già formato oggetto di esame nel giudizio contro l'incolpato (tra le tante Sez. 6, n. 17951 del 13/10/2015, dep. 2016, Barone,, Rv. 267310; Sez. 6, n. 53614 del 03/12/2014, Chiacchiaretta, Rv. 261873).
3.2. A ciò si aggiunge che il decreto di archiviazione, nel caso di specie privo di motivazione autonoma (con generico richiamo alla richiesta del pubblico ministero), costituisce una mera decisione allo stato de91i atti, di natura endoprocedimentale, non irrevocabile, alla quale può sempre seguire la riapertura delle indagini.
Si tratta di un atto che non attesta affatto l'insussistenza del reato contestato, come lapidariamente enunciato nel capo di imputazione, ma che non esclude la presenza di elementi idonei a sostenere l'accusa, secondo la regola di giudizio indicata dall'art. 125 disp. att. cod. proc.. pen., esplicitat21 nella richiesta di archiviazione oggetto del presente giudizio e fatta propria nel decreto del Giudice per le indagini preliminari di Foggia.
D'altra parte, si è chiarito che il decrell:o di archiviazione, disciplinato dagli artt. 408 e ss. cod. proc. pen., è un provvedimento concepito dal legislatore come anteriore all'esercizio dell'azione penale, correlato all'insussistenza degli estremi per esercitarla e che, proprio per questo, è ritenuto un atto neutro (Sez. 2, n. 2933 del 15/12/2021, dep. 2022, Furnò, Rv. 282591).
Ne discende che, ai fini dell'accertamento del presupposto logico della calunnia, cioè l'innocenza dell'incolpato, non può prescindersi dalla strutturale instabilità del decreto di archiviazione, fondato su una regola di giudizio incerta e comunque sempre aperta a modifiche. Ciò vale specialmente quando, come nel caso in esame, il giudizio di prognosi sulla tenuta dell'accusa di violenza sessuale su minorenne sia fondato su due denunce convergenti (quella di T. e della madre di questa) non seguite da alcuna attività investigativa che ne avesse contestato il fondamento in termini oggettivi (con esame delle denuncianti, con ascolto protetto del minorenne, con attività intercettive, con interrogatorio dell'indagato, ecc.) e che confermasse la situazione di indiscutibile incertezza sulla volontà calunniatrice di T., e per l'effetto, sulla reale finalità mistificatoria di questa, rimasta, come scritto, priva di prova.
In conclusione, i giudici di merito hanno erroneamente fondato la sussistenza dell'elemento oggettivo del reato di calunnia, contestato alla ricorrente, non solo su un decreto di archiviazione, cioè su un provvedimento strutturalmente inidoneo ad accertare l'innocenza dell'incolpato che ne è presupposto, ma con un errore logico-giuridico persino ritenendolo un atto idoneo a dimost1·are che i fatti non fossero «mai avvenuti».
4. Anche la censura riguardante il vizio di motivazione sull'elemento soggettivo del reato di calunnia è fondata.
4.1. Il dolo generico del delitto di calunnia postula la consapevolezza, da parte del denunciante, dell'innocenza del calunniato, e può essere escluso quando: a) l'autore sospetti o ritenga l'illiceità del fatto denunciato come ragionevole; b) vi sia un riconoscibile margine di serietà, tale da ingenerare concretamente la presenza di condivisibili dubbi da parte di una persona di normale cultura e capacità di discernimento, che si trovi nella medesima situazione di conoscenza (Sez.6, n. 12209 del 18/02/2020, Abbondanza, Rv. 278753).
Nel caso in esame, la difesa ha reiteratamente rappresentato ai giudici di merito una serie di atti e fatti tali da dimostrai-e non solo che T. avesse il dubbio, ma ragionevoli elementi per ritenere che l'incolpato fosse autore di violenze sessuali ai danni del figlio: le domande morbose dell'uomo sul suo pene; l'episodio avvenuto nel bagno di un bar, alla presenza della stessa T., a luglio 2014, in cui aveva visto l'uomo toccare il piccolo e chiedergli se gli piacesse; il secondo episodio avvenuto sempre in un bagno pubblico, nella villa della città, il 6 settembre 2014 e riferitole a casa dal bambino, con richiesta di non rivedere il padre; la denuncia della nonna a cui il nipotino aveva 1·accontato identico comportamento dell'uomo; la paura del bambino rappresentata al Tribunale per i minorenni di Bari e riportata nel provvedimento del 4 novembre 2015; la nota del dirigente del Commissariato di Cerignola, del 23 agosto 2016, in cui la ricorrente, interrogata alla presenza del difensore di fiducia, aveva dichiarato di avere denunciato immediatamente l'ex compagno, quando il figlio le aveva riferito degli abusi sessuali, al solo fine di tutelarlo; le diichiarazioni di T. all'udienza del 1 giugno 2021, dinnanzi alla Corte di appello di Bari, in cui aveva confermato di essere preoccupata come madre per quanto rivelatole dal bambino.
4.2. La sentenza impugnata al fine di accertare il dolo del reato di calunnia ha ignorato tutti i sopra menzionati elementi di fatto, limitandosi a sostenere, con apodittiche affermazioni, che «la denuncia invero appare come un estremo tentativo di dare corpo ad un attacco alla pe1·sona del R., con chiaro intento di calunnia di matrice ritorsiva, finalizzato ad ottenere il definitivo allontanamento della persona offesa dal piccolo R. L. A., senza scrupoli di sorta» (pag. 5).
In assenza dell'esposizione di prove oggettive a cui ancorare questa conclusione, la sentenza risulta illogica lì dove, da un lato, ritiene che T. abbia denunciato falsamente R. perché non l'aveva voluta sposare, dall'altro lato, invece, richiama la volontà della donna di allontanare il figlio dal padre, omettendo dati fattuali risultanti dagli atti ovverosia che: a) D. R. aveva rifiutato di vedere il bambino per il suo primo anno di vita; b) L. A. R. aveva rappresentato ai giudici minorili di temere quell'uomo; e) il Tribunale per i minorenni di Bari aveva affidato il bambino ai servizi sociali contestando alla donna la sua ipercura proprio dopo la denuncia per violenza sessuale rimasta priva di indagini.
Le sentenze di merito non hanno preso mai in considerazione, in nessun passaggio delle rispettive motivazioni, che il piccolo avesse rivelato alla madre (e ai nonni) di essere stato abusato dal padre, ragione per la quale T. aveva denunciato i fatti alle istituzioni, affinchè lii accertassero, come dovuto, stante l'obbligo giuridico, oltre che morale, di tutela del minorenne.
Di fronte a tutto questo materiale probatorio, oltre elle alla legittima e ragionevole preoccupazione di una madre idi garantire la sicurezza del proprio bambino di soli 4 anni rispetto ad un padre che le appare abusante, i giudici di merito si sono limitati a qualificare quanto accaduto come mera conflittualità tra madre e padre, astraendolo da cosa la generasse e senza porsi neanche il dubbio che potesse derivare dalla volontà protettiva della donna rispetto al figlio ritenuto violato dall'uomo.
Peraltro, come scritto nel ricorso e nisultante dagli atti, la donna aveva rappresentato anche alla Corte di appello la propria logica e verosimile versione, ma la sentenza impugnata non ne ha fatto neanche menzione.
Dunque, emerge con evidenza come i giudici di merito non si siano confrontati in alcun modo: a) con il principio immanente all'ordinamento, interno (art. 2 e 30 Cost., art. 337-ter cod. civ., art. 572, ultimo comma, cod. pen.) ed internazionale (artt. 3 e 8 Cedu e Convenzione sui diritti delll'infanzia e dell'adolescenza ratificata dall'Italia con I. n. 176 del 1991), del best interest ofthe child inteso come diritto sostanziale del minorenne a che il proprio interesse sia valutato e considerato preminente quando si prendono in considerazione interessi diversi, la cui tutela spetta innanzitutto al genitore che per ottenerla, come avvenuto nel caso di specie, riverbera i propri effetti sull'elemento dell dolo di calunnia; b) con gli atti processuali; c) con le tesi e le prove della difesa.
4.3. Nel caso concreto, le sentenze di merito hanno tralasciato di affrontare la questione cruciale della rivelazione del minorenne alla propria madre (e ai nonni) di avere subito plurimi abusi sessuali da parte del padre, tanto da determinare la successiva denuncia penale, volta ad accertare i fatti e tutelare da gravi pregiudizi il figlio, oggetto del presente processo.
Conseguenza di detta gravissima omissione è stato il ribaltamento pregiudiziale, tale definito in quanto privo di qualsiasi dato fattuale a proprio supporto, della prospettiva valutativa rispetto all'unico dato certo, costituito dal terrore del bambino rispetto al proprio padre, attraverso l'attribuzione alla madre di esserne la vera causa, proprio per il tramite della denuncia penale ritenuta strumento utile ad ostacolare il rapporto genitoriale del padre.
Il substrato fattuale della vicenda in esame, l'aprioristica e non provata colpevolizzazione di T. per avere denunciato l'abuso sessuale rivelatole dal figlio, nei termini rappresentati dalla sentenza impugnata, costituisce un caso emblematico di vittimizzazione secondaria con ciò intendendosi le conseguenze pregiudizievoli, ascrivibili alle istituzioni, che la persona che denuncia è costretta ad affrontare a causa del procedimento penale che ha instaurato.
La definizione di vittimizzazione secondaria, che va di pari passo con l'affermazione dello statuto della vittima e clii una sua più adeguata tutela anche rispetto a soggetti diversi dall'autore del reato, è contenuta nella Raccomandazione CM/Rec(2006)8, del 14 giugno 2006, al par. 1.3. («vittimizzazione secondaria significa vittimizzazione che non si verifica come diretta conseguenza dell'atto criminale, ma attraverso la risposta di istituzioni e individui alla vittima»), ed è puntualizzata dal quadro normativo sovranazionale incentrato proprio sull'obbligo degli Stati di garantire le vittime di specifici reati, quali quelli di violenza nei confronti delle donne e dei loro figli in contesti familiari, che ledono la loro integrità, fisica e morale, tanto da renderle particolarmente vulnerabili soprattutto nel percorso processuale (Direttiva 2012/29/UE, recepita ed attuata con il d.lgs. n. 212 del 2015, parr. 17 e 18, nonchè l'art. 18 della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, nota anche come Convenzione di Istanbul, anch'essa ratificata dall'Italia con la I. n. 77 del 2013) e ponendole, per questo, a rischio, persino di fronte alle istituzioni, anche rispetto alla tutela dei loro diritti.
Il divieto di vittimizzazione secondaria, contenuto pressochè in tutti gli atti normativi internazionali di tutela delle donne e dei minorenni, costituisce ormai oggetto di una puntuale elaborazione giurisprudenziale interna, in ambito penale (Sez. U, n. 10959 del 29/01/2016, C., Rv.265893; Sez. 3, n. 34091 · del 16/05/2019, P., Rv. 277686) e in ambito civiile (Sez. U, n. 35110 del 17/11/2021, Rv. 662942, parr. 5.3.7.4. e 5.3.7.5.) proprio in ragione dell'inevitabile intersecazione dei due ambiti allorchè le denunce riguardino le violenze nel contesto familiare e in fase di affidamento dei figli minorenni; sia di interventi delle Corti sovranazionali (da ultimo Corte EDU LM. e altri contro Italia 10 novembre 2022 in cui lo Stato è stato condannato per violazione dell'art. 13 della Convenzione perché una donna che aveva denunciato il marito per violenza domestica era stata qualificata come «genitore poco collaborativo» e le era stata sospesa la responsabilità genitoriale).
Attraverso le menzionate fonti, tutte recepite dal nostro ordinamento interno e dunque vincolanti, all'autorità giudiziaria è richiesto di non sottovalutare o ignorare le violenze denunciate dalle donne e/o dai figli nel contesto familiare, ritenendole false in assenza di elementi di fatto, per evitare che si producano due effetti che rischiano di esporre lo stato alla responsabilità per violazione degli obblighi sovranazionali assunti e sopra indicati: 1) non adottare strumenti di tutela, nei confronti loro e dei loro bambini, così da esporle ulteriormente alle violenze; 2) limitarne la responsabilità genitoriale perché ritenute pregiudizialmente responsabili della paura dei figli rispetto al padre violento.
4.4. A ciò si aggiunge che, nel caso di specie, oltre ai sopra citati travisamenti delle prove e alle omissioni valutative, la motivazione della sentenza impugnata risulta gravemente viziata da manifesta illogicità per l'uso di veri e propri stereotipi giudiziari (nei termini indicati dall'art. 12.1. della Convenzione di Istanbul e dal par. II.F. della Raccomandazione del Consi ;ilio d'Europa CM/Rec(2019)1, del 27 marzo 2019), che contrastano innanzitutto con l'art. 101 Cost., nella parte in cui, in assenza di elementi di fatto, ritiene dolosamente non veritiera la denunciata violenza sessuale da parte di T. perché «verosimilmente)> riferibile al rifiuto dell'uomo di sposare la ricorrente, per «regolarizzare una relazione sentimentale da cui era nata anche una prole».
Si tratta di un tipo di argomentazione, che si risolve in un soggettivo convincimento del tutto disancorato da dati oggettivi ed arbitrariamente selezionato dalla Corte territoriale per motivare la denuncia dell'imputata, già censurato dalla Corte EDU nella sentenza J.L. contro Italia 27 maggio 2021 che ammonisce l'Autorità giudiziaria italiana dall’utilizzo di motivazioni che esprimano «la persistenza di stereotipi sul ruolo delle donne» e le espongano «alla vittimizzazione secondaria usando parole colpevolizzanti e moralistiche che potrebbero scoraggiare la fiducia della vittima nella giustizia» (cfr.parr. 140 e ss.), in quanto «il potere discrezionale dei giudici ed il principio di indipendenza della magistratura sono limitati dall'obbligo di tutelare l'immagine e la riservatezza dei soggetti da qualsiasi interferenza ingiustificata» (cfr.par. 139), tale dovendosi. ritenere l'utilizzo di congetture, disancorate da fatti, riferibili a condizionamenti e pregiudizi personali in cui matura la decisione.
5. In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte dii appello di Bari.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Bari.