Svolgimento del processo
1. Con la sentenza in epigrafe indicata la Corte di appello di Messina in parziale riforma della sentenza di condanna emessa il 9 gennaio 2020 dal Tribunale di Messina nei confronti del ricorrente per i reati di truffa aggravata dall'art. 61 n. 7, cod. pen. in concorso con M.D’A. e di abusivo esercizio della professione di avvocato di cui all'art. 348 cod. pen. rispettivamente ascritti ai capi a) e b), ha dichiarato di non doversi procedere per il reato di truffa perché estinto per prescrizione ed ha rideterminato la pena per il capo b) in mesi otto di reclusione ed euro 12 mila di multa con condanna alle spese in favore delle parti civili costituite.
2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione l'imputato che con atto del difensore di fiducia deduce tre motivi.
Con i primi due motivi deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'accertamento del reato di cui al capo b), emergendo ictu oculi che è stato l'avv. M.D’A. a patrocinare i giudizi civili relativi alle richieste di risarcimento e nessun atto della professione di avvocato è stato mai posto in essere dal B. che si è sempre presentato come semplice collaboratore del difensore patrocinante.
Con il terzo motivo, in via subordinata chiede che sia rilevato l'errore in cui è incorso la Corte di appello che non ha dichiarato la prescrizione del reato ascritto al capo b), benchè coincidente temporalmente con la consumazione del reato sub a), già dichiarato prescritto.
Invero, assume il ricorrente che dall'esame del teste A. (udienza del 4 aprile 2019) emerge che i fatti sono stati commessi nel 2012.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è fondato e comporta l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata limitatamente al capo b) perché il fatto non sussiste.
Si deve innanzitutto ribadire che integra il reato di esercizio abusivo della professione legale la condotta di chi, pur non potendo svolgere attività riservata al professionista iscritto nell'albo degli avvocati, predispone atti tipici poi firmati da un legale abilitato (Sez. 6, n.52888 del 07/10/2016, Ferrarini, Rv. 26858).
Nella fattispecie in esame viene dato atto pacificamente che il B. non ha mai posto in essere alcun atto tipico della professione di avvocato e che non ha mai redatto atti rientranti nelle competenze professionali proprie dell'avvocato, avendo agito come collaboratore del titolare dello studio legale (l'avvocato M.D’A.), il quale soltanto ha curato tutte le attività giudiziali e stragiudiziali, oggetto del mandato professionale conferito dalle persone offese.
La Corte di appello, nell'affermare che è irrilevante che il ricorrente non abbia posto in essere atti rientranti nelle competenze proprie della professione legale, soffermandosi esclusivamente sul fatto di avere indotto in errore i clienti dello studio legale tanto da farsi corrispondere degli assegni intestati a proprio nome con il titolo di avvocato, ha operato una commistione illegittima del reato di esercizio abusivo di una professione punito dall'art. 348 cod. pen. con il diverso reato di usurpazione di un titolo professionale di cui all'art. 498 cod. pen.
Il reato di usurpazione di titoli o di onori si distingue nettamente da quello di abusivo esercizio di una professione, di cui all'art. 348 stesso codice, trattandosi di due reati che possono anche concorrere materialmente poiché le due norme tutelano distinti beni giuridici, ma sempre che ne ricorrano i rispettivi differenti elementi costitutivi.
Commette esercizio abusivo della professione forense chi rediga un atto giudiziario, compili e sottoscriva una citazione, una comparsa o un'istanza anche senza arrogarsi il titolo di avvocato o procuratore, mentre ove ciò avvenga si integra il solo reato di usurpazione di titoli se la spendita del titolo non sia di fatto accompagnata dall'effettivo compimento di atti tipici o comunque caratteristici della professione di avvocato.
Va osservato che non è qui in discussione la delimitazione della natura dell'atto tipico della professione di avvocato, avendo erroneamente ritenuto i Giudici di merito irrilevante che il ricorrente abbia agito in sostituzione del titolare dello studio, compiendo attività che richiedessero il titolo di avvocato, quanto piuttosto come un mero collaboratore del titolare dello studio, il solo provvisto delle necessarie abilitazioni professionali, ovvero dell'avvocato M.D’A., risultato l'unico soggetto all'interno dello studio ad occuparsi personalmente di redigere i relativi atti giudiziali o stragiudiziali.
Quindi, in mancanza dell'accertamento del compimento di atti tipici o comunque caratteristici della professione di avvocato, resta impregiudicata la tesi estensiva seguita dalle Sezioni Unite nella nota sentenza Cani, n. 11545 del 15/12/2011, Rv. 251819 - in una fattispecie peraltro molto diversa relativa all'abusivo esercizio della professione di commercialista - secondo cui nella nozione di atto tipico della professione a norma dell'art. 348 cod. pen. va incluso anche il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva a una determinata professione, siano univocamente individuati come di competenza specifica di essa, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuatività, onerosità e organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un'attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato.
L'ammissibilità di avvalersi di collaboratori esperti da parte del titolare di uno studio legale anche per assolvere a compiti di supporto tecnico-giuridico, sebbene non muniti di specifica abilitazione professionale, esige - contrariamente a quanto affermato in sentenza - l'accertamento della specifica attività compiuta dal predetto collaboratore, per chiarire la natura del rapporto interpersonale con la clientela e verificare se al di là della semplice indebita spendita del titolo di avvocato siano state anche concretamente poste in essere attività di competenza specifica della professione di avvocato, ovvero se tali attività siano state svolte esclusivamente dal solo titolare dello studio, come doverosamente richiesto dalla disciplina di tutela del relativo albo professionale, stante l'irrilevanza scriminante del consenso del singolo destinatario della prestazione abusiva.
2. Conseguentemente, essendosi nel caso di specie ritenuto accertato che la condotta del ricorrente si è di fatto risolta nella sola ingannevole prospettazione del compimento di attività defensionali, sia pure con la spendita del titolo di avvocato, che non sono poi state concretamente svolte, addirittura neppure dal titolare dello studio legale secondo l'assunto accusatorio, è evidente l'insussistenza degli elementi che integrano la fattispecie del reato prevista dall'art. 348 cod. pen., ascritta al capo b) dell'imputazione, dovendosi in questa sede prescindere da ogni valutazione rispetto alla diversa fattispecie del reato di truffa, ascritto al capo a), già dichiarato estinto per prescrizione e non oggetto dei motivi di ricorso.
Nonostante l'intervenuta prescrizione del reato previsto dall'art. 348 cod. pen. (trattandosi di fatti al più tardi commessi entro il 2013), ai sensi dell'art. 129, comma 2, cod. proc. pen. stante l'evidenza dell'insussistenza del fatto si impone come doverosa la formula assolutoria piena.
Neppure possono essere, pertanto, accolte le richieste di condanna alle spese in favore delle parti civili costituite avanzate in questa sede, attesa la rilevata fondatezza del ricorso, ferme restando le statuizioni civili dei gradi di merito in quanto correlate alla diversa imputazione per il delitto di truffa ascritto al capo a), non oggetto di questo giudizio.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.