La Cassazione conferma l'ammissibilità della dichiarazione di fallimento entro il termine previsto dall'art. 10 L. fall., ribadendo che tale trasformazione non comporta una novazione soggettiva, ma soltanto una modificazione dell'atto costitutivo, con mutamento della veste legale dell'ente, tale da non determinare l'estinzione del precedente soggetto giuridico.
Reputando irrilevante la circostanza che la società debitrice fosse stata cancellata dal Registro delle Imprese a seguito della trasformazione in una comunione di azienda, il Tribunale di Roma ne dichiarava il fallimento in quanto tale cancellazione era avvenuta nell'anno anteriore alla decisione.
La società proponeva reclamo, il quale...
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 22 maggio 2018, il Tribunale di Roma dichiarò il fallimento della C & P S.r.l., su istanza dell'Unicredit S.p.a., reputando irrilevante la circostanza che la società debitrice fosse stata cancellata dal Registro delle Imprese a seguito della trasformazione in una comunione di azienda, in quanto la cancellazione era avvenuta nell'anno anteriore alla decisione.
2. Il reclamo proposto dalla C & P Holding e dall'A.S. e dalla M.S., in qualità di socie della debitrice, è stato rigettato dalla Corte d'appello di Roma con sentenza del 2 agosto 2019.
A fondamento della decisione, la Corte ha confermato l'ammissibilità della dichiarazione di fallimento entro il termine di cui all'art. 10 della legge fall., affermando che la trasformazione della società in una comunione d'azienda non comporta una novazione soggettiva, ma soltanto una modificazione dell'atto costitutivo, con mutamento della veste legale dell'ente, tale da non determinare l'estinzione del precedente soggetto giuridico. Ha osservato che tale fattispecie, comportando il passaggio da un ente avente forma societaria ad una comunione su un complesso di beni aziendali, dà luogo ad una trasformazione eterogenea, riconducibile all'art. 2500-septies cod. civ., con la conseguente esclusione della configurabilità sia di una successione tra sog- getti ed entità distinte sia per forma che per natura, sia di una trasformazione della società di capitali in una società di fatto tra gli ex soci, la cui volontà consiste nella costituzione di una mera comunione di godimento, disciplinata dall'art. 2248 cod. civ. Ha aggiunto che tale conclusione era avvalorata, nella specie, dalla circostanza che il compendio aziendale era rimasto sotto il con- trollo del medesimo centro d'interessi, dal momento che titolari effettivi delle due società erano l'ex amministratore unico della società debitrice e l'ex amministratore unico ed unico socio delle società alle quali la C & P Holding aveva conferito i rami di azienda concernenti la produzione ed il commercio all'ingrosso di carta e materiali ferrosi.
3. Avverso la predetta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione l'A. e la M., per quattro motivi, illustrati anche con memoria, e la C & P Holding, per tre motivi. Hanno resistito con controricorsi il curatore del falli- mento e la Cerved Credit Management S.p.a., in qualità di procuratrice speciale della S. S.r.l., cessionaria dei crediti dell'Unicredit, la quale ha depositato anche memoria.
Motivi della decisione
1. Preliminarmente, va disposta, ai sensi dell'art. 335 cod. proc. civ., la riunione dei due ricorsi, proposti separatamente, ma aventi ad oggetto l'impugnazione della medesima sentenza.
2. Con il primo motivo d'impugnazione, l'A. e la M. denunciano la violazione e la falsa applicazione degli artt. 15 e 17 della legge fall., nonché l'omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, osservando che la sentenza impugnata ha omesso di esaminare la questione concernente la nullità della notificazione dell'istanza di fallimento, in quanto non effettuata nei confronti di esse ricorrenti, succedute in tutti i rapporti, anche processuali, della società debitrice anteriori alla trasformazione in comunione d'azienda. Sostengono che, in quanto configurabile come trasformazione eterogenea, tale vicenda comportava il difetto di legittimazione passiva della C & P., e quindi la nullità insanabile della notificazione, rilevabile anche d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio.
3. Con il secondo motivo, le ricorrenti deducono la violazione e la falsa applicazione dell'art. 12 disp. prel. cod. civ. e dell'art. 10 della legge fall., insistendo sull'inapplicabilità della disciplina dettata da quest'ultima disposi- zione, in quanto riguardante la diversa ipotesi della cancellazione della società per intervenuta cessazione dell'attività. Premesso infatti che la trasforma- zione della società in una comunione d'azienda si traduce nell'instaurazione di una situazione di comproprietà dell'azienda e nell'inesistenza di un soggetto di diritto, producendo quindi un effetto novativo che determina la prosecuzione di tutti i rapporti in capo ai comunisti, secondo le rispettive quote, sostengono che la mera contitolarità dei beni aziendali non comporta l'esercizio di un'attività economica da parte dei compartecipanti, i quali non sono per- tanto assoggettabili al fallimento. Aggiungono che l'assenza di continuità soggettiva determina anche il venir meno dell'autonomia patrimoniale tipica delle società di capitali, dal momento che la quota assegnata a ciascun comproprietario si confonde con il suo patrimonio personale, con la duplice conseguenza che i comproprietari rispondono illimitatamente dei debiti della società, e che i creditori sociali possono far valere le proprie ragioni in concorso con quelli personali dei singoli comproprietari.
4. Con il terzo motivo, le ricorrenti lamentano la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 1100, 2248 e 2500-septies cod. civ. e dell'art. 10 della legge fall., ribadendo che la comunione d'azienda costituisce una fattispecie assolutamente incompatibile con la disciplina dettata da quest'ultima disposizione, dal momento che, anche in caso di utilizzazione dell'azienda a fini commerciali da parte dei comunisti, non sarebbe configurabile una prosecuzione della precedente attività imprenditoriale, ma una società di fatto o una impresa individuale.
5. Con il quarto motivo, le ricorrenti denunciano la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 2248, 2495, 2500-septies e 2740 cod. civ. e dell'art. 10 della legge fall., ribadendo che la trasformazione della società in comunione d'azienda comporta la successione dei singoli comproprietari in tutti i rapporti attivi e passivi, nonché la responsabilità illimitata degli stessi per i debiti accumulati dalla società, indipendentemente dall'eventuale riparto dell'attivo. Aggiungono che il mutamento della società in un ente giuridico diverso giustifica anche l'inapplicabilità della disciplina dettata dall'art. 10 della legge fall., che, in quanto volta a tutelare le ragioni creditorie, non è riferibile alla fattispecie in esame, nella quale le predette ragioni risultano garantite dalla responsabilità illimitata dei soci per i debiti contratti dalla società.
6. Con il primo motivo del suo ricorso, la C & P Holding deduce la nullità della sentenza impugnata per violazione dell'art. 112 cod. proc. civ., nonché l'omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, osservando che la sentenza impugnata ha omesso di esaminare la questione concernente la nullità della notificazione dell'istanza di fallimento, in quanto non effettuata nei confronti dell'A. e della M., che rivestivano la qualità di legittimate passive e litisconsorti necessarie, essendo succedute in tutti i rapporti, anche processuali, di essa debitrice anteriori alla trasformazione in comunione d'azienda.
7. Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta la nullità della sentenza impugnata per violazione e/o falsa applicazione dell'art. 15 della legge fall., sostenendo che la mancata notificazione dell'istanza di fallimento all'A. e alla M. comportava la nullità del procedimento di primo grado e della sen- tenza dichiarativa di fallimento, rilevabile anche d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio.
8. Con il terzo motivo, la ricorrente denuncia la violazione dell'art. 12 disp. prel. cod. civ e dell'art. 10 della legge fall., insistendo sull'inapplicabilità della disciplina dettata da quest'ultima disposizione, in quanto riguardante la diversa ipotesi della cancellazione della società per intervenuta cessazione dell'attività. Premesso infatti che la trasformazione della società in una comunione d'azienda si traduce nell'instaurazione di una situazione di comproprietà dell'azienda e nell'inesistenza di un soggetto di diritto, producendo quindi un effetto novativo che determina la prosecuzione di tutti i rapporti in capo ai comunisti, secondo le rispettive quote, sostiene che la mera contitolarità dei beni aziendali non comporta l'esercizio di un'attività economica da parte dei compartecipanti, i quali non sono pertanto assoggettabili al fallimento.
9. I predetti motivi vanno esaminati congiuntamente, avendo ad oggetto questioni intimamente connesse, riguardanti rispettivamente l'ammissibilità della dichiarazione di fallimento di una società a seguito della cancellazione dal registro delle imprese e l'individuazione del soggetto cui spetta la legittimazione passiva nel relativo procedimento.
La prima questione è stata risolta in senso affermativo da una pronuncia di questa Corte, espressamente richiamata dalla sentenza impugnata, con la quale è stato enunciato il principio di diritto secondo cui la trasformazione eterogenea di una società di capitali in comunione di azienda, ai sensi dell'art. 2500-septies cod. civ., non preclude la dichiarazione di fallimento della medesima società entro un anno dalla sua cancellazione dal registro delle imprese, trattandosi pur sempre di un fenomeno successorio tra soggetti distinti (cfr. Cass., Sez. I, 19/06/2019, n. 16511).
A sostegno di tale conclusione, si è osservato innanzitutto che, mentre la trasformazione di una società da un tipo ad un altro previsto dalla legge, ancorché connotato da personalità giuridica, costituisce una vicenda mera- mente evolutivo-modificativa del medesimo soggetto giuridico, che non pro- duce alcun effetto successorio ed estintivo, la trasformazione di una società in un'impresa individuale o viceversa determina invece un rapporto di suc- cessione tra soggetti distinti, e non preclude quindi la dichiarazione di falli- mento della società estinta, purché la stessa abbia luogo nel termine di un anno dalla sua cancellazione dal registro delle imprese. Si è rilevato inoltre che, a seguito della riforma del diritto societario, la cancellazione dal registro delle imprese cui non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta dà luogo ad un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale le obbligazioni della società si trasferiscono ai soci, i quali ne rispondono nei limiti di quanto riscosso in sede di liquidazione o illimitata- mente, a seconda che fossero limitatamente o illimitatamente responsabili per i debiti sociali, mentre i diritti ed i beni non compresi nel bilancio di liqui- dazione si trasferiscono ai soci in regime di contitolarità o comunione indivisa, con esclusione delle mere pretese e dei crediti ancora incerti o illiquidi. Tanto premesso, si è ritenuto che, in quanto idonea a determinare il passaggio da un ente avente forma societaria ad una comunione su un complesso di beni aziendali, la trasformazione della società in una comunione di godimento di un'azienda costituisca una trasformazione eterogenea ai sensi dell'art. 2500- septies cod. civ., la quale dà luogo ad un fenomeno di successione tra soggetti ed entità distinti sia per forma che per natura, con la conseguenza che la nascita di una comunione indivisa tra due o più persone fisiche (cui l'ente collettivo abbia trasferito il proprio patrimonio) non preclude la dichiarazione di fallimento della società entro il termine di cui all'art. 10 della legge fall.
Il predetto principio, contestato dai ricorrenti, ha trovato conferma in una pronuncia più recente (cfr. Cass., Sez. I, 22/10/2020, n. 23174), la quale ha ulteriormente precisato le caratteristiche e gli effetti della fattispecie in esame, dando risposta anche agl'interrogativi sollevati con i ricorsi in esame. Premesso che la trasformazione di una società di capitali in una comunione d'azienda costituisce una vicenda circolatoria di beni e diritti, che comporta la sostituzione dei soci nei rapporti già facenti capo alla struttura societaria, è stato ribadito che la lettura di tale vicenda in termini evolutivo-modificativi non implica che all'esito della stessa la struttura originaria non sia più suscettibile di distinta e autonoma considerazione. Rilevato inoltre che tale opera- zione, pur determinando un mutamento del regime di responsabilità patrimoniale tipico della precedente struttura giuridica, non opera retroattivamente, dal momento che, mentre i creditori muniti di titolo anteriore al verificarsi di tale vicenda si avvantaggiano del regime di responsabilità proprio della strut- tura precedente, quelli muniti di titolo posteriore si giovano di quello che con- nota la nuova struttura, è stato osservato che, ai fini dell'ammissibilità della dichiarazione di fallimento dell'ente originario, non assume alcun rilievo la circostanza che l'ente risultante dalla trasformazione svolga o meno un'attività d'impresa, potendo la stessa venire in considerazione esclusivamente ai fini della fallibilità dell'ente trasformato. Ciò posto, e aggiunto che, in linea generale, la trasformazione svolge essenzialmente una funzione di riorganizzazione della struttura degli enti, destinata nel caso in esame a sostituire il procedimento di liquidazione, è stato affermato che, in mancanza di una norma specifica, essa non può comportare la sottrazione dell'impresa societaria alla soggezione alle procedure concorsuali: è stata quindi confermata l'applicabilità della disciplina dettata dall'art. 10 della legge fall., osservandosi che la finalità dalla stessa perseguita, consistente nell'evitare di estendere all'infinito gli effetti di un'attività d'impresa non più attuale, non postula necessariamente che alla cessazione dell'esercizio di tale attività da parte di un soggetto faccia riscontro il venir meno della stessa in senso oggettivo, e concludendosi pertanto che essa può trovare applicazione anche nel caso in cui, come nella specie, sia mutato, per sopravvenuta trasformazione, il regime di responsabilità patrimoniale che accompagnava l'ente originario. E' stato infine chiarito che tale conclusione non trova ostacolo nell'assoggettamento della trasformazione all'opposizione dei creditori, prevista dall'art. 2500-novies cod. civ., configurandosi quest'ultima come un rimedio non già sostitutivo e necessario, ma solo aggiuntivo e comunque non equivalente rispetto alla procedura fallimentare, con la conseguenza che la mancata proposizione dell'opposizione non può essere interpretata come una manifestazione della volontà di rinunciare alla proposizione dell'istanza di fallimento o della do- manda d'insinuazione al passivo.
Tali principi, che il Collegio condivide ed intende ribadire anche in questa sede, non possono ritenersi inficiati dalle censure sollevate dai ricorrenti, le quali, come si è detto, non apportano argomenti nuovi a sostegno della tesi contraria a quella fatta propria dalla giurisprudenza di legittimità, riproponendo considerazioni già vagliate nelle pronunce citate, le cui conclusioni me- ritano pertanto conferma anche in riferimento alla fattispecie in esame.
10. Sulla base dei medesimi principi può essere poi risolta anche la questione, sollevata dall'A. e dalla M. con il primo motivo di ricorso e dalla C & P con i primi due motivi, riguardante l'individuazione del soggetto legittimato a partecipare al procedimento prefallimentare.
Premesso che, in quanto riflettente un error in procedendo, nel cui accertamento questa Corte è chiamata ad operare come giudice anche del fatto, procedendo al riscontro del vizio lamentato attraverso l'esame diretto degli atti processuali, indipendentemente dalla sufficienza e logicità della motiva- zione della sentenza impugnata, la predetta questione non è deducibile in sede di legittimità né ai sensi dell'art. 112 cod. proc. civ. (cfr. Cass., Sez. III, 11/10/2018, n. 25154; Cass., Sez. II, 25/01/2018, n. 1876) né ai sensi dello rt. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ. (cfr. Cass., Sez. II, 13/08/2018, n. 20716; Cass., Sez. lav., 21/04/2016, n. 8069), si osserva che la qualifica- zione della trasformazione della società di capitali in comunione di azienda come vicenda evolutivo-modificativa idonea a determinare un fenomeno di successione tra soggetti ed entità distinti consente di ritenere applicabile an- che alla stessa il principio, enunciato da questa Corte con riguardo al procedimento per la dichiarazione di fallimento di una società di capitali cancellata dal registro delle imprese, secondo cui la legittimazione a contraddire non spetta ai soci succeduti alla società, ma al liquidatore sociale, dal momento che la cancellazione, pur implicando l'estinzione della società, non esclude l'ammissibilità della dichiarazione di fallimento, entro il termine di cui all'art. 10 della legge fall., ove l'insolvenza si sia manifestata in epoca anteriore alla cancellazione o nell'anno successivo (cfr. Cass., Sez. VI, 16/11/ 2016, n. 23393; Cass., Sez. I, 26/07/2013, n. 18138).
Può quindi escludersi, nella specie, anche la nullità del procedimento e della sentenza di primo grado, in conseguenza dell'avvenuta notificazione dell'istanza di fallimento alla C & P, all'epoca già cancellata dal registro delle imprese, anziché all'A. e alla M., succedute alla stessa in qualità di soci divenuti contitolari dell'azienda caduta in comunione.
11. Entrambi i ricorsi vanno pertanto rigettati, con la conseguente condanna delle ricorrenti al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.
P.Q.M.
riuniti i ricorsi, li rigetta. Condanna le ricorrenti al pagamento, in favore di ciascuno dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 13.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge. Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall'art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per i ricorsi principali, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.