Tale facoltà non può essere esercitata da terzi, quali locatari, affittuari o comodatari, pur aventi un interesse al mantenimento in buono stato della servitù.
Il Tribunale rigettava la domanda con cui l'attrice chiedeva che fosse dichiarata l'illiceità e l'abusività delle opere effettuate dalla convenuta su un ponticello di proprietà della prima, sul quale esercitava diritto di servitù di passaggio pedonale e carraio una s.a.s., dell'immobile della quale era locataria la convenuta.
In...
Svolgimento del processo
1. La s.r.l. R. citò in giudizio la s.r.l. A.G. chiedendo che fosse dichiarata l’illiceità e l’abusività delle opere effettuate dalla convenuta su un ponticello di proprietà dell’attrice, sul quale esercitava diritto di servitù di passaggio pedonale e carraio la s.a.s. F. & C., dell’immobile della quale era locataria la convenuta.
2. Il Tribunale rigettò la domanda.
3. La Corte d’appello di Milano, in accoglimento dell’appello principale della s.r.l. R. e rigettato quello incidentale delle A.G., in parziale riforma della sentenza di primo grado, condannò A.G. a pagare alla R. la somma di € 8.800,00, oltre accessori, al fine di ripristinare lo stato dei luoghi, ai sensi dell’art. 936 cod. civ., per le opere non autorizzate effettuate dal terzo.
4. A.G. s.r.l. ricorre avverso la sentenza d’appello sulla base di sei motivi. L’intimata resiste con controricorso.
5. Con il primo motivo la ricorrente denuncia la carenza di legittimazione ad agire della controparte, mancando la prova che costei fosse proprietaria del ponticello di cui qui si discute.
5.1. Il motivo è infondato.
La Corte locale sulla base delle emergenze di causa (mappe e dati catastali e risultanze della c.t.u.) afferma la piena titolarità del ponticello in capo all’appellante (si veda, in ispecie, pag. 6).
Costituisce principio di legittimità consolidato quello secondo il quale nel giudizio di risarcimento dei danni derivati ad un bene immobile da un illecito comportamento del convenuto, atteso che oggetto della pretesa azionata è, non già il diretto e rigoroso accertamento della proprietà del fondo, bensì l'individuazione del titolare del bene avente diritto al risarcimento, non è richiesta la prova rigorosa della proprietà (cd. "probatio diabolica"), potendo il convincimento del giudice in ordine alla legittimazione alla pretesa risarcitoria formarsi sulla base di qualsiasi elemento documentale e presuntivo sufficiente ad escludere un'erronea destinazione del pagamento dovuto (Sez. 1, n. 18841, 26/09/2016, Rv. 641827; conf., Cass. n. 9711/2004).
Il convincimento espresso dalla Corte milanese, peraltro adeguatamente argomentato, non è, pertanto, in questa sede criticabile.
6. Con il secondo e il terzo motivo, unitariamente esposti, la ricorrente denuncia la violazione degli artt. 163 cod. proc. civ., 2938 e 2969 cod. civ.
Si assume che la Corte locale aveva reputato che l’omessa specificazione in citazione della causa petendi attorea sarebbe stata sanata con la memoria di cui all’art. 183, co. 6, n. 1, cod. proc. civ., con la quale avrebbe <<precisato la propria intenzione di proporre azione di natura petitoria e a tutela della proprietà ex art. 934 e ss. c.c.>>. Al contrario di quanto affermato dalla sentenza, secondo la ricorrente, la precisazione non appariva idonea a individuare in concreto l’azione intrapresa, tra quelle astrattamente volte a tutela della proprietà e pertanto la domanda era rimasta indeterminata, con la conseguenza che aveva impedito alla convenuta di tempestivamente eccepire <<eventuali decadenze e prescrizioni>>, stante che solo nella sentenza di primo grado l’azione era stata ricondotta all’art. 936 cod. civ., ed essendo decorsi ben oltre sei mesi <<tra la notizia dell’esecuzione delle costruzioni e la prima formulazione della richiesta di rimozione delle stesse>>.
6.1. Il complesso censuratorio è infondato.
Per un verso, il giudizio espresso dalla Corte locale in ordine alla determinatezza della domanda, a seguito della precisazione, non appare in questa sede censurabile, trattandosi di un apprezzamento riservato al giudice del merito. Invero, l'erronea interpretazione della domande e delle eccezioni non è censurabile ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., perché non pone in discussione il significato della norma ma la sua concreta applicazione operata dal giudice di merito, il cui apprezzamento, al pari di ogni altro giudizio di fatto, può essere esaminato in sede di legittimità soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione, ovviamente entro i limiti in cui tale sindacato è ancora consentito dal vigente art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c. (Sez. 6, n. 31546, 03/12/2019, Rv. 656493). Giudizio che non può prescindere dal complessivo contenuto della prospettazione delineata dalla narrazione dei fatti salienti di causa, da apprezzarsi nel loro concreto e specifico significato.
Sotto altro profilo, non ha fondamento il prospettato “vulnus difensivo”, stante che proprio dalla sufficiente determinatezza della domanda, a seguito della precisazione, la convenuta era stata posta in grado di esperire le difese del caso.
7. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia violazione degli artt. 115, 116 cod. proc. civ., 936 e 1069 cod. civ.
Assume la ricorrente che dalle risultanze istruttorie era emerso che l’intervento si era reso necessario per il degrado del ponticello ed era consistito in riparazioni e conseguenti modifiche, non già in addizioni, rese necessarie al fine di conservare la servitù, ai sensi dell’art. 1069 cod. civ.
7.1. Il motivo è in parte inammissibile e per altra parte infondato.
Quanto al primo profilo, deve osservarsi che la sentenza impugnata, sulla base delle emergenze di causa, ha escluso la sussistenza di uno stato di decadimento tale da giustificare l’intervento, quanto piuttosto effettuato al fine di rendere più agevole la fruizione della servitù da parte del locatario del fondo dominante.
La doglianza investe inammissibilmente l’apprezzamento delle prove effettuato dal giudice del merito, in questa sede non sindacabile, neppure attraverso l’escamotage dell’evocazione dell’art. 116, cod. proc. civ., in quanto, come noto, una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito (cfr., da ultimo, Sez. 6, n. 27000, 27/12/2016, Rv. 642299). Punto di diritto, questo, che ha trovato recente conferma nei principi enunciati dalle Sezioni unite in epoca recente (sent. n. 20867, 30/09/2020, conf. Cass. n. 16016/2021), essendosi affermato che in tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell'art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato - in assenza di diversa indicazione normativa - secondo il suo "prudente apprezzamento", pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (Rv. 659037). E inoltre che per dedurre la violazione dell'art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall'art. 116 c.p.c. (Rv. 659037).
È del tutto palese che attraverso la denunzia di violazione di legge il ricorrente sollecita - non determinando essa, nel giudizio di legittimità lo scrutinio della questione astrattamente evidenziata sul presupposto che l’accertamento fattuale operato dal giudice di merito giustifichi il rivendicato inquadramento normativo, essendo, all’evidenza, occorrente che l’accertamento fattuale, derivante dal vaglio probatorio, sia tale da doversene inferire la sussunzione nel senso auspicato dal ricorrente - un improprio riesame di merito (da ultimo, S.U. n. 25573, 12/11/2020, Rv. 659459).
L’evocazione, poi, dell’art. 1069 cod. civ. non è comunque condivisibile, stante che la disposizione in parola legittima il proprietario del fondo dominante, e non altri, pur aventi un interesse al mantenimento in buono stato della servitù, ad effettuare <<le opere necessarie per conservare la servitù>>.
Sul punto appare utile enunciare, pertanto, il seguente principio di diritto: <<Solo il proprietario del fondo dominante è legittimato, nel rispetto delle modalità di cui all’art. 1069 cod. civ., ad effettuare le opere necessarie per la conservazione della servitù; deve, quindi, escludersi che una tale facoltà possa essere esercitata da terzi, quali locatari, affittuari o comodatari, pur aventi un interesse alla buona conservazione della servitù, soggetti i quali dovranno rappresentare la necessità di un tale intervento al proprietario del fondo dominante, loro legato dal rapporto obbligatorio>>.
8. Il quinto e il sesto motivo, con i quali, rispettivamente, la ricorrente lamenta il mancato rimborso, ai sensi dell’art. 1069 cod. civ., di una parte delle somme spese, e la mancata condanna al risarcimento del danno derivante da atti emulativi (artt. 833 e 2043 cod. civ.), restano ovviamente assorbiti (in senso improprio) dal rigetto degli altri motivi.
9. Il regolamento delle spese segue la soccombenza e le stesse vanno liquidate, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonché delle svolte attività, siccome in dispositivo.
10. Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02 (inserito dall'art. 1, comma 17 legge n. 228/12) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente (cfr. Cass. nn. 1343/2019, 18348/2017), di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore della controricorrente, che liquida in euro 4.000,00, per compensi, per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00, e agli accessori di legge;
dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1-bis, del d.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.