In particolare, il Giudice del gravame confermava la condanna dell'imputato per il delitto di peculato poiché si era appropriato di una parte del patrimonio della madre di cui aveva disponibilità...
Svolgimento del processo
1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Milano confermava la condanna, pronunciata dal Tribunale di Busto Arstizio, di C.C. per il delitto di peculato, perché, avendo lo stesso la disponibilità, in qualità di amministratore di sostegno, del patrimonio di sua madre M.S., si appropriava di una parte di esso.
2. Avverso la sentenza presenta ricorso per cassazione l'imputato, per il tramite dei suoi difensori, avvocati M.F.C. e S.C., articolando due motivi.
2.1. Con il primo motivo, si deduce violazione della legge penale.
La qualifica di "figlio" dovrebbe prevalere su quella di "amministratore di sostegno". Di conseguenza, difettando in capo all'imputato la qualifica soggettiva pubblicistica, non sarebbe configurabile il delitto di peculato, bensì, semmai, quello di appropriazione indebita, peraltro non punibile ex art. 649 cod. pen., in ragione del rapporto di parentela con il soggetto passivo.
Nemmeno si ritiene configurabile il dolo del reato, posto che il trasferimento della somma di proprietà di M.S. (91.000 euro) sul conto intestato al ricorrente, è stato realizzato in modo affatto trasparente. Pertanto, in qualunque momento la somma avrebbe potuto essere riportata nell'asse ereditario, come dimostrato dal fatto che il fratello dell'imputato ha poi ritrattato la querela.
2.2. Con il secondo motivo di ricorso, si deduce erronea applicazione della legge penale in relazione alla mancata applicazione dell'art. 62, n. 6, cod. pen., evidenziando come, là dove si ritenga che la disposizione preveda un termine perentorio entro il quale operare la restituzione oppure il risarcimento, introdurrebbe una sperequazione incostituzionale tra abbienti, che sono nelle condizioni di restituire le somme nei termini indicati dalla legge, e non abbienti, cui è preclusa la possibilità di avvantaggiarsi di questa come altre disposizioni premiali.
Motivi della decisione
1. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
La concorrenza della qualifica di "figlio" con quella di amministratore di sostegno non esclude certamente quest'ultima. Non toglie, dunque, che l'imputato rivestisse, al momento del fatto, la qualifica soggettiva pubblicistica e che, pertanto, l'appropriazione dal medesimo realizzata vada sussunta all'interno dell'art. 314 cod. pen. (ex multis, Sez. 6, n. 10624 del 16/02/2022, B., Rv. 282944; Sez. 6, n. 29262 del 17/05/2018, C., Rv. 273445; Sez. 6, n.29617 del 19/05/2016, Piermarini, Rv. 267795; Sez. 6, n. 50754 del 12/11/2014, Insolera, Rv. 261418).
Anche le deduzioni sull'elemento soggettivo sono prive di pregio. La tipicità del peculato non impone la realizzazione di una condotta artificiosa, sicché il dolo - generico - consiste nella coscienza e volontà della mera interversio possessionis ed è sicuramente ravvisabile in capo all'imputato il quale, pochi mesi prima della morte dell'anziana madre, ha trasferito un'ingente somma di denaro (91.000 euro) dal conto di questa sul proprio.
Né rileva la successiva remissione della querela che, incidentalmente, non esclude la procedibilità del delitto di peculato, prevista per legge d'ufficio. Il dato non consegue, peraltro, all'acquisita consapevolezza, da parte del fratello, della possibilità di agevolmente riportare le somme nell'asse ereditario e quindi - come sembra suggerire il ricorrente - alla volontà dell'imputato di realizzare una distrazione soltanto temporanea e reversibile delle somme. Dalle sentenze si evince, piuttosto, che la querela fu rimessa dal fratello soltanto dopo la transazione con la quale l'imputato ha restituito il denaro di cui si era appropriato e che avrebbe dovuto, invece, amministrare.
2. Il secondo motivo è inammissibile perché generico.
Quanto alla non configurabilità della circostanza attenuante comune dell'art. 62, n. 6 cod. pen., il motivo di ricorso non si confronta con le puntuali e coerenti osservazioni della Corte di appello.
I giudici ricordano, infatti, come la disposizione in oggetto richieda espressamente che la restituzione avvenga prima del giudizio e che tale locuzione è pacificamente intesa nel senso che non debba essere stata ancora dichiarata "l'apertura del dibattimento", evidenziando altresì che, «viceversa, nel caso di specie [ ...] non solo il risarcimento non ha avuto luogo prima dell'apertura del dibattimento, peraltro preceduta dalla rituale costituzione in giudizio della parte civile, ma all'epoca nemmeno l'atto transattivo era stato ancora sottoscritto, essendo entrambi gli eventi intervenuti solo nel novembre 2020, a nulla rilevando in proposito né la successiva fuoriuscita dal processo della parte civile e né la rimessione della querela, essendo il grave reato in esame procedibile d'ufficio.
Peraltro, in disparte ogni considerazione sull'inammissibilità della lettura "costituzionalmente orientata" della disposizione, proposta dal ricorrente (tesa ad escludere la natura perentoria del termine temporale, allo scopo di attenuare eventuali discriminazioni in ragione delle diverse capacità economiche dei destinatari), nella sentenza si trova precisato, subito di seguito, come «in ogni caso la buona volontà dell'imputato nel far fronte ai propri obblighi risarcitori sia stata ampiamente tenuta in positivo conto dal collegio, mediante il riconoscimento delle attenuanti generiche nella loro massima estensione, proprio quale conseguenza del positivo comportamento processuale del prevenuto». Sicché la restituzione delle somme non avrebbe potuto comunque essere valutata anche ai fini dell'eventuale circostanza attenuante comune.
3. Per le esposte ragioni, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
4. Segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed al versamento delle somme indicate nel dispositivo, ritenute eque, in favore della Cassa delle ammende, in applicazione dell'art. 616 cod. proc. pen.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.