
L'art. 572 c.p. circoscrive l'ambito applicativo della fattispecie ai comportamenti maltrattanti tenuti in danno di «una persona della famiglia o comunque convivente». Con la sentenza in commento, la Cassazione ripercorre la giurisprudenza sul tema.
In un giudizio avente ad oggetto la condanna per il reato di cui all'
Svolgimento del processo
1. Con la sentenza impugnata, la Corte d'appello di Bologna ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale di Parma il 15 luglio 2021, che, all'esito di rito abbreviato, condannava D.F.R. per i reati di cui agli artt. 572 e 582, 583, 585, in relazione all'art. 576, n. 5, 577, n. 1 cod. pen., alla pena di anni due e mesi otto di reclusione.
Si contesta l'imputato di avere maltrattato, dal marzo al 23 luglio 2020, la compagna, anche sotto l'effetto di sostanze alcoliche e stupefacenti, aggredendola fisicamente, sia all'interno della comune abitazione, che in locali pubblici, e minacciando di ucciderla. Si contesta, altresì, il reato di lesioni per avere cagionato fratture costali e delle ossa nasali e delle arcate zigomatica con prognosi di 42 giorni.
Il compendio probatorio è costituito dalle dichiarazioni della donna, da quanto accertato dagli operanti, i quali il 24 luglio 2020 procedevano all'arresto in flagranza dell'imputato, che si era appena reso responsabile dell'ennesimo episodio di maltrattamenti nei confronti della persona offesa e, in precedenza, erano intervenuti per altre aggressioni in danno della stessa, nonché dalla certificazione medica e dalle dichiarazioni dei testi.
La donna, dopo avere premesso di avere iniziato una relazione con l'imputato il 2 novembre 2019, ha, altresì, dichiarato che non era convivente dell'imputato, sebbene all'epoca dei fatti fossero entrambi alla ricerca di un appartamento in affitto ove cominciare una stabile convivenza.
La persona offesa concludeva la propria denuncia affermando di essere ancora innamorata dell'imputato, di non avere paura di lui, neanche nel corso delle loro discussioni, e di sperare uscisse presto nel carcere.
I giudici di merito hanno ritenuto sussistente la fattispecie di cui all'art. 572 cod. pen., richiamando la giurisprudenza di legittimità secondo la quale la mancanza di un rapporto di convivenza non esclude la sussistenza del reato di maltrattamenti ove vi sia presente una relazione abituale tra soggetto attivo e passivo.
2. Avverso la sentenza ricorre per Cassazione l'imputato, mezzo del difensore di fiducia, deducendo come unico motivo la violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla erronea qualificazione dei fatti, in quanto le affermazioni e le conclusioni contenute nella sentenza risulterebbe in pieno contrasto con le risultanze probatorie/processuali. La relazione sentimentale tra l'imputato e la persona offesa avrebbe preso avvio nel novembre 2019 e non sarebbe mai sfociata in convivenza, neppure per brevi periodi.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è fondato e la sentenza deve essere annullata con rinvio.
2. La sentenza impugnata si fonda un'erronea lettura dell'art. 572, cod. pen., nella parte in cui questa disposizione delimita l'ambito applicativo della fattispecie ai comportamenti maltrattanti tenuti in danno di «una persona della famiglia o comunque convivente».
Indiscussa l'inesistenza, tra le parti, di una famiglia tradizionale, quella, cioè, fondata sul coniugio o sulla parentela, secondo la Corte d'appello non sussisteva tra le medesime neppure una relazione di convivenza. I giudici di merito evidenziano, al riguardo, che vi erano momenti di coabitazione che si svolgevano principalmente nei fine settimana. Specificamente la pronuncia riporta le dichiarazioni della, la quale affermava che stava cercando un appartamento dove iniziare una convivenza. Tuttavia, facendo proprio un indirizzo ermeneutico manifestatosi nella giurisprudenza di legittimità, i giudici di merito hanno ritenuto che, per la configurabilità del delitto di maltrattamenti, il dato essenziale e qualificante consista nell'instaurazione, tra autore e vittima, di un rapporto connotato da reciproche aspettative di mutua solidarietà ed assistenza; con il corollario per il quale, se un siffatto rapporto esiste, e se, dunque, sussistano tra costoro strette relazioni dalle quali dovrebbero derivare rispetto e solidarietà, non è nemmeno necessaria una stabile o prolungata convivenza, potendo il reato configurarsi anche qualora la coabitazione sia di breve durata, instabile od anomala (fra molte altre, Sez. 6, n. 17888 del 11/02/2021, O., Rv. 281092; Sez. 6, n.31121 del 18/03/2014, C., Rv. 261472; Sez. 6, n. 22915 del 07/05/2013, I., Rv.255628).
Al riguardo deve rilevarsi che la pronuncia evocata dal Collegio di appello, n. 17888 del 11/02/2021 è intervenuta prima della sentenza della Corte costituzionale n. 98 del 2021, le affermazioni della quale non possono non avere influenza anche nel caso in esame.
3. La lettura normativa proposta nella pronuncia appena richiamata, deve essere confrontata con quanto affermato dalla pronuncia della Corte costituzionale che, quantunque dichiari inammissibile la questione proposta, dedica un'attenta analisi alla fattispecie di cui all'art. 572 cod. pen., alla luce del corollario del principio di legalità rappresentato dal divieto di analogia.
3.1. La Corte costituzionale ha espressamente richiamato l'orientamento tradizionale della giurisprudenza di legittimità, che ha ricondotto allo spettro applicativo dell'art. 572 cod. pen. fatti commessi nell'ambito di relazioni caratterizzate dalla «condivisione di progetti di vita», e ha affermato il principio secondo cui l'art. 572 cod. pen. «è applicabile non solo ai nuclei familiari fondati sul matrimonio, ma a qualunque relazione sentimentale che, per la consuetudine dei rapporti creati, implichi l'insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale». Pertanto, il delitto sarebbe configurabile «anche quando manchi una stabile convivenza e sussista, con la vittima degli abusi, un rapporto familiare di mero fatto, caratterizzato dalla messa in atto di un progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà ed assistenza» (Sez. 6, n. n. 19922 del 7/02/2019, non mass.).
3.2. La stessa Corte costituzionale ha, però, evidenziato la necessità di rivedere tale interpretazione alla luce delle riforme legislative intervenute in materia. Va, infatti, rilevato che il d.l. n. 11 del 2009, conv. dalla legge n.38 del 2009, ha introdotto il delitto di atti persecutori (art. 612-bis, cod. pen.), e la legge
n. 172 del 2012 ha esteso la platea dei soggetti passivi del delitto di maltrattamenti alla persona «comunque convivente» senza altro aggiungere.
La Consulta, in particolare, ha ritenuto necessario, nel procedere alla qualificazione giuridica dei fatti accertati in giudizio, confrontarsi con il canone ermeneutico rappresentato, in materia di diritto penale, dal divieto di analogia a sfavore del reo: canone affermato a livello di fonti primarie dall'art. 14 delle Preleggi nonché -implicitamente -dall'art. 1 cod. pen., e fondato a livello costituzionale sul principio di legalità di cui all'art. 25, secondo comma, Cast. (nullum crimen, nulla poena sine /ege stricta).
Nella sentenza n. 98 del 2021 si afferma che il divieto di analogia non consente di riferire la norma incriminatrice a situazioni non ascrivibili ad alcuno dei suoi possibili significati letterali, e costituisce così un limite insuperabile rispetto alle opzioni interpretative a disposizione del giudice di fronte al testo legislativo. E ciò in quanto è il testo della legge -non già la sua successiva interpretazione ad opera della giurisprudenza -che deve fornire al consociato un chiaro avvertimento circa le conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte; sicché non è tollerabile che la sanzione possa colpirlo per fatti che il linguaggio comune non consente di ricondurre al significato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore.
Il divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici da parte del giudice costituisce il naturale completamento di altri corollari del principio di legalità in materia penale sancito dall'art. 25, secondo comma, Cast., e in particolare della riserva di legge e del principio di determinatezza della legge penale (su quest'ultimo profilo, si vedano, in particolare, le sentenze n. 96 del 1981 e la n. 34 del 1995, nonché, con riferimento alle sanzioni amministrative di carattere punitivo, la n. 121 del 2018): corollari posti a tutela sia del principio "ordinamentale" della separazione dei poteri, e della conseguente attribuzione al solo legislatore del compito di tracciare i confini tra condotte penalmente rilevanti e irrilevanti (ordinanza n. 24 del 2017), nonché -evidentemente -tra le diverse figure di reato; sia della garanzia "soggettiva", riconosciuta ad ogni consociato, della prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte, a tutela delle sue libere scelte d'azione (sentenza n. 364 del 1988).
3.3. La Corte costituzionale, nel valutare la rilevanza della questione di legittimità costituzionale, da parte del giudice a quo, ha premesso che il pur comprensibile intento, sotteso all'indirizzo giurisprudenziale cui il rimettente aderisce, di assicurare una più intensa tutela penale a persone particolarmente vulnerabili, vittime di condotte abusive nell'ambito di rapporti affettivi dai quali esse hanno difficoltà a sottrarsi, deve necessariamente misurarsi con l'interrogativo se il risultato di una siffatta interpretazione teleologica sia compatibile con i significati letterali dei requisiti alternativi «persona della famiglia» e «persona comunque [ ... ] convivente» con l'autore del reato; requisiti che circoscrivono -per quanto qui rileva -l'ambito delle relazioni nelle quali le condotte debbono avere luogo, per poter essere considerate penalmente rilevanti ai sensi dell'art. 572 cod. pen.
La Corte costituzionale afferma, dunque, che il divieto di analogia in malam partem impone, più in particolare, di chiarire se davvero possa sostenersi che la sussistenza di una relazione, come quella che risulta intercorsa tra imputato e persona offesa nel processo a quo, consenta di qualificare quest'ultima come persona (già) appartenente alla medesima "famiglia" dell'imputato; o se, in alternativa, un rapporto affettivo dipanatosi nell'arco di qualche mese e caratterizzato da permanenze non continuative di un partner nell'abitazione dell'altro possa già considerarsi, alla stregua dell'ordinario significato di questa espressione, come una ipotesi di "convivenza". In difetto di una tale dimostrazione, l'applicazione dell'art. 572 cod. pen. in casi siffatti -in luogo dell'art. 612-bis, secondo comma, cod. pen., che pure contempla espressamente l'ipotesi di condotte commesse a danno di persona «legata da relazione affettiva» all'agente -apparirebbe come il frutto di una interpretazione analogica a sfavore del reo della norma incriminatrice: una interpretazione magari sostenibile dal punto di vista teleologico e sistematico, sulla base delle ragioni ampiamente illustrate dal rimettente, ma comunque preclusa dall'art. 25, secondo comma, Cost.(Corte cast., sentenza n. 98 del 2021).
4. Tale sollecitazione è stata raccolta dalla più recente giurisprudenza di legittimità.
In ipotesi soltanto apparentemente differenti da quella in esame -poiché caratterizzate dal comune denominatore dell'assenza di un rapporto familiare o di convivenza tra autore e vittima al momento dei fatti, la Corte di cassazione ha, infatti, ritenuto che non sia configurabile il reato di maltrattamenti, bensì l'ipotesi aggravata del reato di atti persecutori, in presenza di condotte poste in essere da parte di uno dei conviventi more uxorio ai danni dell'altro dopo la cessazione della convivenza (Sez. 6, n. 39532 del 06/09/2021, B., Rv. 282254, ribadita da Sez. 6, n. 45095 del 17/11/2021, H., Rv. 282398, con la precisazione per cui, terminata la convivenza, vengono meno la comunanza di vita e di affetti nonché il rapporto di reciproco affidamento).
5. In conclusione, come recentemente affermato da Sez. 6, n. 15883 del 16 marzo 2022, D. Rv. 283436 -01, il divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici (art. 14, Preleggi), corollario del principio di legalità (art. 25, Cost.), nonché la presenza di un apparato normativ che amplia lo spettro delle condotte prevaricatrici di rilievo penale tenute nell'àmbito di relazioni interpersonali non qualificate, impongono, nell'applicazione dell'art.572, cod. pen., di intendere i concetti di "famiglia" e di "convivenza" nell'accezione più ristretta: quella, cioè, di una comunità connotata da una radicata e stabile relazione affettiva interpersonale, da una duratura comunanza d'affetti, che non solo implichi reciproche aspettative di mutua solidarietà e assistenza, ma sia fondata sul rapporto di coniugio o di parentela o, comunque, su una stabile condivisione dell'abitazione, ancorché, ovviamente, non necessariamente continua (si pensi, ad esempio, al frequente caso di coloro che, per ragioni di lavoro, dimorino in luogo diverso dall'abitazione comune, per periodi più o meno lunghi ma comunque circoscritti).Non bastano dunque "momenti di coabitazione" (per pochi mesi) nei fine settimana (considerato peraltro che nell'abitazione del D.F. abitavano anche i suoi genitori), a fondare un'ipotesi di convivenza, Ciò soprattutto quando, come indicato nella pronuncia impugnata, la persona offesa ha chiaramente affermato che era in cerca di un'abitazione al fine di "iniziare" una convivenza.
La situazione descritta nella sentenza della Corte d'appello di Bologna, appare sovrapponibile alle "permanenze non continuative di un partner nell'abitazione dell'altro" che la stessa Corte costituzionale dubita possa già considerarsi, alla stregua dell'ordinario significato di questa espressione, come una ipotesi di "convivenza".
A questo riguardo, è necessario precisare che, "convivenza" e "coabitazione" sono concetti fra loro differenti perché possono esservi relazioni di convivenza senza materiale coabitazione e situazioni di coabitazione che non comportano in alcun modo convivenza. E' compito del giudice di merito, al quale va perciò rinviato il processo, verificare se il concreto atteggiarsi dei rapporti intercorsi tra le parti private in lite sia sussumibile nella delineata nozione di "convivenza", rilevando, all'esito di tale indagine di fatto, se le condotte accertate rivestano penale rilevanza e, in caso affermativo, a quale fattispecie incriminatrice debbano ricondursi.
6. La sentenza impugnata deve, in conclusione, essere annullata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Bologna.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Bologna.