In mancanza di diversa convenzione tra le parti, se la liquidazione dei compensi professionali e delle spese di lite avviene in base ai parametri di cui al D.M. n. 55/2014 dopo le modifiche di cui al D.M. n. 37/2018, il giudice non può scendere al di sotto dei valori minimi, in quanto essi hanno carattere inderogabile.
Il Tribunale di Roma annullava la cartella di pagamento emessa nei confronti dell'attuale ricorrente per la riscossione di sanzioni pecuniarie connesse a violazioni del Codice della strada, regolando anche le spese di lite. Nello specifico, il Giudice aveva compensato queste ultime per un terzo, mentre i restanti due terzi erano stati posti a carico solidale delle parti.
Contro tale pronuncia, l'opponente propone ricorso per cassazione lamentando il fatto che la sentenza avesse liquidato a titolo di spese processuali di entrambi i gradi di giudizio degli importi inferiori ai minimi tabellari, senza procedere a una quantificazione per fasi.
Con la sentenza n. 9815 del 13 aprile 2023, la Corte di Cassazione dichiara fondato il motivo di ricorso, sottolineando che esso pone il problema della derogabilità dei valori tabellari minimi fissati per ogni fase processuale dal nuovo testo dell'art. 4, comma 1, D.M. n. 55/2014, come modificato dal D.M. n. 37/2018. Il nuovo testo infatti prevede che per la liquidazione del compenso, il giudice debba tener conto dei valori medi di cui alle tabelle allegate che possono essere aumentati fino all'80% o diminuiti in ogni caso non oltre il 50%. Per la fase istruttoria, invece, l'aumento è di regola fino al 100%, mentre la diminuzione in ogni caso non oltre il 70%.
Ciò posto, gli Ermellini evidenziano che la novellata previsione di cui all'art. 4 cit. è diversa dalle precedenti disposizioni regolamentari dal punto di vista letterale, in quanto queste ultime non contemplavano un vincolo in ordine alla massima riduzione applicabile, limitandosi a disporre che tale riduzione non poteva di regola superare il 50%.
Alla luce di ciò, gli Ermellini hanno affermato che la quantificazione del compenso e delle spese processuali è espressione di un potere discrezionale riservato al giudice e che la liquidazione entro i minimi e i massimi tabellari non richiede apposita motivazione, né un sindacato di legittimità, dovendo il giudice invece giustificare ogni aumento o diminuzione ulteriore.
Tale approdo interpretativo è tuttora valido per le spese processuali e per i compensi professionali regolati dal D.M. n. 55/2014, ma non anche per quelli sottoposti al nuovo regime di cui al D.M. n. 37/2018:
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«non è più consentita la liquidazione di importi risultanti da una riduzione superiore alla percentuale massima del 50% dei parametri medi e ciò per effetto di una scelta normativa intenzionale, volta a circoscrivere il potere del giudice di quantificare il compenso – o le spese processuali – e a garantire, attraverso una limitata flessibilità dei parametri tabellari, l'uniformità e la prevedibilità delle liquidazioni a tutela del decoro della professione e del livello della prestazione professionale». |
La nuova disposizione ha dunque lo scopo di precisare ancora più chiaramente l'inderogabilità delle soglie minime percentuali di riduzione del compenso rispetto ai parametri di base e tale intento traspare anche nella Legge professionale, laddove si precisa che il compenso, nell'ambito dei rapporti regolati da convenzioni aventi ad oggetto lo svolgimento di attività professionali a favore di imprese bancarie o assicurative o di imprese che non rientrino tra le microimprese o le piccole o medie imprese, è equo quando risulta proporzionato alla quantità e qualità del lavoro svolto, nonché al contenuto e alle caratteristiche della prestazione legale, oltre ad essere conforme ai parametri fissati con D.M..
In conclusione, la Cassazione accoglie il ricorso ed afferma il principio di diritto per cui
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«In assenza di diversa convenzione tra le parti, ove la liquidazione dei compensi professionali e delle spese di lite avvenga in base ai parametri di cui al DM n. 55/2014, a seguito delle modifiche apportate allo stesso dal DM n. 37/2018, non è dato al giudice scendere al di sotto dei valori minimi, in quanto aventi carattere inderogabile». |
Svolgimento del processo
1. Con sentenza n. 22955/2018 il Tribunale di Roma, in accoglimento dell’appello di F. P., ha annullato la cartella di pagamento n. (omissis) emessa per la riscossione di sanzioni pecuniarie per violazioni del codice della strada, per l’importo di € 3.231,33, ritenendo fondate le eccezioni dell’opponente, che aveva sostenuto di non aver mai ricevuto la notifica dei verbali di contestazione e degli altri atti presupposti.
Ha regolato le spese di lite, che ha compensato per un terzo, ponendo il restante 2/3 a carico solidale delle parti, liquidando € 400,00 per il primo grado ed € 500,00 per l’appello, oltre ad € 147,00 per il contributo unificato, il tutto oltre accessori di legge.
Per la cassazione della sentenza F. P. ha proposto ricorso in un unico articolato motivo.
Roma Capitale e l’Agenzia delle Entrate Riscossione, subentrata ad Equitalia Servizi riscossione s.p.a., sono rimaste intimate.
La causa, inizialmente avviata alla trattazione camerale è stata rimessa in pubblica udienza con ordinanza n. 9565/2020 ed è stata decisa nelle forme di cui all’art. 23, comma 8-bis, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito con modificazioni dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176.
Motivi della decisione
1. Con l’unico motivo di ricorso si deduce la violazione degli artt. 4, Dm. 55/2014, aggiornato dal D.M. 37/2018, delle tabelle 1 e 3 dell’allegato al suddetto decreto, degli artt. 91, 132, comma secondo, n. 4 c.p.c., 118 disp att. C.p.c., in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3, sostenendo che, essendo il valore della lite pari ad € 3231,33, la sentenza abbia liquidato - a titolo di spese processuali di entrambi i gradi di giudizio - importi inferiori ai minimi tabellari e senza procedere, per ciascun grado di causa, ad una quantificazione per fasi. Il motivo è fondato.
Il ricorso pone il problema della derogabilità dei valori tabellari minimi fissati per ciascuna fase processuale dal nuovo testo dell’art. 4, comma primo, D.M. 55/2014, come modificato dal D.M. 37/2018, che ora dispone che, ai fini della liquidazione del compenso, il giudice tiene conto dei valori medi di cui alle tabelle allegate, che, in applicazione dei parametri generali possono essere aumentati di regola sino all'80 per cento, ovvero possono essere diminuiti in ogni caso non oltre il 50 per cento. Per la fase istruttoria l'aumento è di regola fino al 100 per cento e la diminuzione in ogni caso non oltre il 70 per cento.
L’art. 13, comma sesto, L. 247/2012 rimette, com’è noto, ad un apposito decreto del Ministero della Giustizia, l’aggiornamento con cadenza biennale dei parametri medi, provvedimento da adottare d’intesa con in Consiglio nazionale forense, ai sensi dell'art. 1, comma 3, precisando che i nuovi parametri “si applicano quando all'atto dell'incarico o successivamente il compenso non sia stato determinato in forma scritta, in ogni caso di mancata determinazione consensuale, in caso di liquidazione giudiziale dei compensi e nei casi in cui la prestazione professionale è resa nell'interesse di terzi o per prestazioni officiose previste dalla legge”.
La novellata previsione dell’art. 4, comma primo, è difforme dal punto di vista letterale dalle precedenti disposizioni regolamentari, che non contemplavano un vincolo espresso in ordine alla massima riduzione applicabile, limitandosi a disporre che detta riduzione non poteva di regola essere superiore al 50%.
Sulla scorta di tale ultimo elemento testuale e alla luce del ritenuto carattere non vincolante dei parametri di liquidazione, questa Corte era giunta a sostenere che la quantificazione del compenso e delle spese processuali fosse espressione di un potere discrezionale riservato al giudice, e che la liquidazione, se contenuta entro valori tabellari minimi e massimi, non richiedeva un’apposita motivazione e non era sottoposta al controllo di legittimità, dovendosi invece giustificare la scelta del giudice di aumentare o diminuire ulteriormente gli importi da riconoscere, fatto salvo l’obbligo di non attribuire somme simboliche, lesive del decorso professionale (Cass. 28325/2022; Cass. 14198/2022; Cass. 19989/2021; Cass. 89/2021; Cass. 10343/2020).
A tale approdo interpretativo, tuttora valido per le spese processuali e i compensi professionali regolati dal D.M. 55/2014, non può darsi continuità anche per quelli sottoposti al regime introdotto dal D.M. 37/2018: non è più consentita la liquidazione di importi risultanti da una riduzione superiore alla percentuale massima del 50% dei parametri medi e ciò per effetto di una scelta normativa intenzionale, volta a circoscrivere il potere del giudice di quantificare il compenso – o le spese processuali- e a garantire, attraverso una limitata flessibilità del parametri tabellari, l’uniformità e la prevedibilità delle liquidazioni a tutela del decoro della professione e del livello della prestazione professionale.
La suddetta ratio legis è esplicitamente evidenziata nel parere del Consiglio di Stato, Sezione Consultiva, n. 2703/2017 del 27 dicembre 2017, che aveva giudicato inadeguato, rispetto al dichiarato scopo di “limitare il perimetro di discrezionalità riconosciuto al giudice, individuando delle soglie minime percentuali di riduzione del compenso rispetto al valore parametrico di base al di sotto delle quali non è possibile andare, l’utilizzo di una formula normativa suscettibile di avallare “approdi interpretativi in merito all’applicazione della locuzione “di regola” anche alle riduzioni percentuali dei valori parametrici di base, mentre tale possibilità doveva più incisivamente essere limitati agli incrementi dei parametri e non alla riduzione”.
L’attuale previsione è quindi volta proprio a specificare “con maggiore chiarezza l’inderogabilità delle soglie minime percentuali di riduzione del compenso rispetto al valore parametrico di base da parte degli organi giudicanti, e ciò anche in considerazione del fatto che l’art. 13, comma 7 della legge n. 247 del 2012 prevede fra i criteri cui si deve attenere l’Amministrazione quello della “trasparenza nella determinazione dei compensi dovuti per le prestazioni professionali”.
Tale intento normativo traspare dalla dichiarata rispondenza – per esplicita valutazione normativa - dei parametri tabellari introdotti ex novo ai requisiti cui devono rispondere le liquidazioni ricadenti nell’ambito applicativo dell’art. 13 bis L. 247/2012, introdotto dal d.l. 16 ottobre 2017, convertito nella legge 4 dicembre 2017, e poi modificata dalla legge 27 dicembre 2017, n. 205.
La disposizione precisa che il compenso, nei rapporti regolati da convenzioni aventi ad oggetto lo svolgimento delle attività professionali in favore di imprese bancarie e assicurative, nonché di imprese non rientranti nelle categorie delle microimprese o delle piccole o medie imprese, si considera equo quando risulta proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, nonché al contenuto e alle caratteristiche della prestazione legale, e “conforme ai parametri previsti dal regolamento di cui al decreto del Ministro della giustizia adottato ai sensi dell'articolo 13, comma 6”.
Ai medesimi parametri deve far riferimento il giudice per porre rimedio alla vessatorietà delle clausole a norma dei commi 4, 5 e 6 dell’art. 13, ipotesi in cui una volta accertata, la non equità del compenso, la successiva quantificazione va effettuata proprio mediante l’impiego dei parametri tabellari per superare l’originario squilibrio dell’accordo (art. 13, comma 10).
La previsione di minimi tabellari in tema di compensi professionali non si pone in contrasto con la disciplina euro-unitaria in tema di tutela della concorrenza, accesso al mercato, restrizioni alla libera prestazione dei servizi (articolo 101, paragrafo 1, TFUE): l’ammissibilità della previsione di tariffe professionali inderogabili era stata già affermata dalla Corte di Giustizia (sentenza 19.2.2000, cause C-35/1999) ed è stata ripetutamente confermata anche per altri settori sempre che le tariffe siano fissate da un organismo pubblico nel rispetto dei criteri di interesse pubblico definiti dalla legge (ma la disciplina può comunque rivestire natura statale quando i membri dell'organizzazione di categoria siano esperti indipendenti dagli operatori economici interessati e siano tenuti dalla legge a fissare le tariffe prendendo in considerazione non solo gli interessi delle imprese o delle associazioni di imprese nel settore che li ha designati, ma anche l'interesse generale e gli interessi delle imprese degli altri settori o degli utenti dei servizi di cui trattasi: Corte di giustizia 427/2017; Corte di Giustizia UE 5.12.2006 C- 94/2004 e C- 202/2004; in tema di tariffe in settore dei trasporti: Corte di giustizia 9.9.2004 C-184/02 e C- 223/2002). Sono giudicate ammissibili eventuali restrizioni della concorrenza se circoscritte a quanto necessario al conseguimento di obiettivi legittimi (Corte di giustizia 427/2017), come pure una normativa nazionale volta a fissare una minore percentuale di riduzione (pari al 12%) rispetto a quella (pari al 50%) prevista dall’art. 4 (12%), anche se i giudici nazionali si limitino a verificare la rigorosa applicazione, senza essere in grado, in circostanze eccezionali, di derogare ai limiti fissati da tale tariffa, ciò in relazione all’art. l’art. 101 TFUE, in combinato disposto con l’articolo 4, paragrafo 3, TUE (Corte di giustizia 8.12.2016, C- 532/2015 e 538/2015).
Ha da ultimo precisato la Corte di Giustizia (cfr. sentenza 427/2017) che “l'articolo 101, paragrafo 1, TFUE, in combinato disposto con l'articolo 4, paragrafo 3, TUE, dev'essere interpretato nel senso che una normativa nazionale che, da un lato, non consenta all'avvocato e al proprio cliente di pattuire un onorario d'importo inferiore al minimo stabilito da un regolamento adottato da un'organizzazione di categoria dell'ordine forense, a pena di procedimento disciplinare a carico dell'avvocato medesimo, e, dall'altro, non autorizzi il giudice a disporre la rifusione degli onorari d'importo inferiore a quello minimo, è idonea a restringere il gioco della concorrenza nel mercato interno ai sensi dell'articolo 101, paragrafo 1, TFUE, ma che spetta comunque al giudice del rinvio verificare se tale normativa, alla luce delle sue concrete modalità applicative, risponda effettivamente ad obiettivi legittimi e se le restrizioni così stabilite siano limitate a quanto necessario per garantire l'attuazione di tali legittimi obiettivi”.
Va evidenziato, al riguardo, che i nuovi parametri risultano predisposti dal CNF ma adottati dal Ministero della giustizia, previo parere del Consiglio di Stato e pertanto da un organo statale per scopi di interesse generale correlati all’esigenza di garantire la trasparenza e l’unitarietà nella determinazione dei compensi professionali.
Tali parametri non appaiono discriminatori, avendo portata generale (ex art. 15, comma 2, lettera g) Direttiva 2006/123/CE; Corte di giustizia 4.7.2019 C- 377/2017) ed inoltre l’intervento normativo lascia impregiudicata la possibilità che le parti stabiliscano un compenso inferiore a quello risultante dalla massima riduzione prevista, per cui l’introduzione dei minimi finisce per incidere in misura non sproporzionata sulle dinamiche concorrenziali tra professionisti.
I nuovi criteri rispondono inoltre all’interesse generale di introdurre una remunerazione minima in modo da non svilire la professione ed esigere anzi un livello della prestazione adeguato nell’interesse del cliente, secondo un principio ed esigenze comuni ad altri settori professionali (cfr. Corte di giustizia UE 4.7.2019 C-377/17, in tema di tariffe per gli architetti e gli ingegneri), assicurando standard di diligenza appropriati alla natura e al decoro delle attività svolte.
La censura è quindi fondata, avendo il Tribunale riconosciuto a titolo di spese processuali, in relazione alla valore della causa (pari all’importo della sanzione irrogata), somme inferiori a quelle risultanti dalla massima riduzione percentuale consentita dal citato art. 4, comma primo, D.M. 55/2014, nel testo novellato dal D.M. 37/2018, e con l’attribuzione di un importo onnicomprensivo senza distinzione per fasi (Cass. 6518/2022; Cass. 23873/2021; Cass. 19482/2018; Cass. 6306/2016).
E’ – in conclusione- accolto l’unico motivo di ricorso; la sentenza è cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio della causa al Tribunale di Roma, in persona di altro Magistrato, anche per la pronuncia sulle spese di legittimità.
Deve infine essere affermato il seguente principio di diritto:
“In assenza di diversa convenzione tra le parti, ove la liquidazione dei compensi professionali e delle spese di lite avvenga in base ai parametri di cui al DM n. 55/2014, a seguito delle modifiche apportate allo stesso dal DM n. 37/2018, non è dato al giudice scendere al di sotto dei valori minimi, in quanto aventi carattere inderogabile”.
P.Q.M.
accoglie l’unico motivo di ricorso, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa al Tribunale di Roma, in persona di altro Magistrato, anche per la pronuncia sulle spese di legittimità.