Nel caso di specie, la Cassazione esclude il diritto all'indennità perché l'immobile, occupato dall'ex marito nonostante il rigetto della sua richiesta di assegnazione del bene, era stato acquistato in regime di comunione durante il matrimonio. In tali ipotesi si applicano le norme sulla comunione che esigono una manifestazione di volontà degli altri comproprietari.
Il Tribunale di Milano accoglieva la domanda dell'attrice diretta ad ottenere la condanna al pagamento di una somma a titolo di indennità di occupazione dell'immobile acquistato in regime di comunione e in costanza di matrimonio, nel quale il convenuto era rimasto ad abitare nonostante il rigetto della sua richiesta di...
Svolgimento del processo
- con atto di citazione notificato nel maggio 2010, C.R.B. evocava, dinanzi al Tribunale di Milano, D.G. chiedendone la condanna al pagamento di un importo non inferiore ad euro 250,00 mensili a titolo di indennità di occupazione dell’immobile acquistato, in costanza di matrimonio, in regime di comunione, nel quale il convenuto era rimasto ad abitare nonostante il rigetto della sua domanda di assegnazione della casa coniugale;
- instaurato il contraddittorio, nella resistenza del convenuto, che spiegava anche domanda riconvenzionale, deducendo che l’immobile non ricadeva tra i beni oggetto di comunione legale ai sensi dell’art. 179 c.c. lett. b), poiché frutto di una donazione indiretta a lui pervenuta dai genitori, il giudice adito, con sentenza n. 3150 del 2016, condannava il G. al pagamento in favore dell’attrice dell’importo di euro 3.150,00 annui, oltre rivalutazione ISTAT, dal febbraio 2007 fino allo scioglimento della comunione tra le parti sull’immobile in questione;
- in virtù di impugnazione interposta dal G., la Corte di appello di Milano, nella resistenza della B., con sentenza n. 5456 del 2017, rigettava l’appello e confermava la sentenza del giudice di prime cure con condanna dell’appellante alla rifusione delle spese di lite.
Nel dettaglio, la Corte riteneva i motivi dell’appellante infondati, in quanto, condividendo le motivazioni del giudice di primo grado, affermava che non rilevavano le affermazioni dell’appellante in ordine all’avvenuto acquisto dell’appartamento con i proventi ricevuti dai propri genitori essendo il bene di proprietà di entrambi i coniugi come risultava per tabulas. La Corte infatti affermava che non si poteva in alcun caso escludere che l’immobile fosse entrato a far parte della comunione legale coniugale considerando che risultava intestato ad entrambi ed era stato acquistato in costanza di matrimonio, in regime di comunione legale dei beni.
Aggiungeva che l’appellante non aveva fornito idonea prova a far constatare che, nonostante la formale contitolarità, l’immobile fosse in realtà di sua proprietà esclusiva.
Da ultimo la Corte riteneva privo di fondamento la doglianza secondo cui il Tribunale si era limitato a una affermazione apodittica non corredata dalla indicazione delle ragioni a sostegno della decisione rendendo impossibile il controllo del proprio convincimento quanto all’entità dell’assegno di mantenimento della figlia minore ragguagliato tenendo conto che egli occupava in via esclusiva la casa familiare, dal momento che si trattava di circostanza vagliata al solo fine di accertare la capacità economica e patrimoniale dei genitori al fine di determinare il contributo in percentuale;
- avverso la sentenza della Corte di appello di Milano ha proposto ricorso per cassazione, sulla base di un unico motivo, il G., cui ha resistito con controricorso la B.;
- in prossimità dell’adunanza camerale parte controricorrente
ha anche curato il deposito di memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c.
Motivi della decisione
- deve preliminarmente respingersi l'eccezione di inammissibilità del ricorso in quanto privo di firma digitale dei difensori e notificato a mezzo pec in formato p.d.f. dedotta nel controricorso.
Il ricorso reca - in calce - la firma autografa del difensore e la procura risulta sottoscritta dallo stesso D.G. ricorrente con firma autenticata dal difensore. Tali elementi, unitamente all'estensione del formato digitale (pdf) del ricorso notificato a mezzo pec, escludono che l'atto sia stato originariamente creato in formato digitale.
Trattasi invece di impugnazione originariamente in formato analogico, successivamente riprodotta in formato digitale ai fini della notifica telematica ex lege n. 53/1994, munita di attestazione di conformità al documento originale, che non richiedeva, quindi, la firma digitale dei difensori (firma che è presente, invece, in calce alla notifica a mezzo pec), essendo sufficiente 'attestazione di conformità all'originale della copia telematica notificata, secondo le disposizioni vigenti "ratione temporis" (Cass. n. 26102 del 2016; Cass. n. 7904 del 2018; Cass. n. 27999 del 2019), mentre non ha alcun rilievo che il file digitale sia stato formato in formato "pdf" anziché "p7m" (Cass., Sez. Un., 10266 del 2018);
- venendo al merito, con l’unico motivo parte ricorrente deduce – ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. – la violazione e la falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché degli artt. 155 e 1102 c.c., nella parte in cui la Corte territoriale aveva riconosciuto alla B. il diritto al risarcimento da mancato godimento del bene nonostante il mancato dissenso all’utilizzo dell’immobile oggetto del contenzioso da parte della stessa e per avere, in ogni caso, erroneamente quantificato la relativa indennità di occupazione. La censura è fondata nei limiti di seguito illustrati.
Nel sistema della comunione del diritto di proprietà per quote ideali ciascun partecipante gode del bene comune in maniera diretta e promiscua, cioè come può purché non ne alteri la destinazione e non impedisca l'esercizio delle pari facoltà di godimento che spettano agli altri comproprietari (art. 1102 c.c.). Allorché per la natura del bene o per qualunque altra circostanza non sia possibile un godimento diretto tale da consentire a ciascun partecipante alla comunione di fare parimenti uso della cosa comune, i comproprietari possono deliberarne l'uso indiretto (a maggioranza o all'unanimità, secondo il tipo di uso deliberato: cfr. artt. 1105 e 1108 c.c.).
Se, allora, la natura del bene di proprietà comune non ne permette un simultaneo godimento da parte di tutti i comproprietari (come accertato in fatto per l’abitazione coniugale in questione), l'uso comune può realizzarsi o in maniera indiretta oppure, appunto, mediante avvicendamento con un uso turnario da parte dei comproprietari, utilizzo che costituisce corretto esercizio del potere di regolamentazione dell'uso della cosa comune da parte della maggioranza, in quanto non ne impedisce il godimento individuale, ed evita, piuttosto, che, attraverso un uso più intenso da parte di singoli comunisti, venga meno, per i restanti, la possibilità di godere pienamente e liberamente della cosa durante i rispettivi turni, senza subire alcuna interferenza esterna (cfr. Cass. n. 7881 del 2011; Cass. n. 20394 del 2013; Cass. n. 29747 del 2019; Cass. n. 35210 del 2021).
In tal senso rileva il Collegio che, pur essendo pacifica nella giurisprudenza di questa Corte l'affermazione secondo cui il condividente che non tragga diretto godimento dal bene in comunione, possa chiedere la propria quota parte dei frutti del bene al condividente che invece ne abbia il concreto godimento, non appare condivisibile la decisione del giudice di secondo grado che ha ritenuto di riconoscere il diritto ad indennità della B. fin dal febbraio 2007, a far tempo dalla sentenza di separazione dei coniugi, con pronuncia n. 2643 del 2007, in mancanza di una richiesta di rilascio del bene in favore della controricorrente ovvero di istanza di uso turnario del bene medesimo o di richiesta da parte della stessa di ricevere la quota parte dei frutti non goduti (pertanto, in mancanza di accertamenti circa le concrete richieste della condividente non beneficiaria del bene a ricevere siffatti frutti). Infatti, dalla sentenza impugnata si ricava che l’oggetto di comunione è l’abitazione coniugale e dunque una cosa per definizione idonea a produrre frutti civili, di cui il G. ne ha goduto in via esclusiva. Sulla base di tali premesse di fatto, la Corte d'appello ha falsamente applicato (invece delle norme sulla comunione) l'art. 1148 c.c., che disciplina il caso, affatto diverso, della sorte dei frutti naturali o civili percepiti dal possessore di buona fede il quale debba restituire la cosa al rivendicante. Tale norma regola l'attribuzione dei frutti nel conflitto esterno tra possessore in buona fede e proprietario, e dunque non può operare per disciplinare il diverso problema della ripartizione interna fra più comproprietari dei frutti ritratti o ritraibili dalla cosa comune.
Per le considerazioni svolte la sentenza impugnata va cassata in relazione alla parte di motivo accolto, con rinvio alla Corte d'appello di Milano, in diversa composizione, che nel decidere la controversia si atterrà al principio di diritto secondo cui "in materia di comunione del diritto di proprietà, allorché per la natura del bene o per qualunque altra circostanza non sia possibile un godimento diretto tale da consentire a ciascun partecipante alla comunione di fare parimenti uso della cosa comune, secondo quanto prescrive l'art. 1102 c.c., i comproprietari possono deliberarne l'uso indiretto. In mancanza di deliberazione, il comproprietario che durante il periodo di comunione abbia goduto l'intero bene da solo senza un titolo che giustificasse l'esclusione degli altri partecipanti alla comunione, deve corrispondere a questi ultimi, quale ristoro per la privazione dell'utilizzazione pro quota del bene comune e dei relativi profitti, i frutti civili con decorrenza dalla data in cui allo stesso perviene manifestazione di volontà degli altri comproprietari di avere un uso turnario o comunque di godere per la loro parte del bene".
Ai sensi dell'art. 385, comma 3 c.p.c., il giudice di rinvio provvederà altresì sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione; cassa la sentenza impugnata in relazione alla parte di motivo accolto, con rinvio alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.