Svolgimento del processo
1.¿ Con ricorso del 25 maggio 2022, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, in riferimento agli artt. 117, commi primo, secondo, lettere a) ed e), e terzo, della Costituzione e all’art. 14 del regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello statuto della Regione siciliana), convertito in legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 3, 2, 3 e 4 della legge della Regione Siciliana 18 marzo 2022, n. 3 (Istituzione e disciplina del Registro regionale telematico dei Comuni e dei relativi prodotti a denominazione comunale De.Co. Modifiche alla legge regionale 28 marzo 1995, n. 22).
1.1.¿ Il ricorrente osserva che le disposizioni di cui agli articoli da 1 a 4 della legge reg. Siciliana n. 3 del 2022 concernono la materia delle indicazioni geografiche e delle denominazioni di origine dei prodotti agroalimentari le quali, nelle varie forme di «denominazioni di origine protette», «indicazioni geografiche tipiche» e simili, sono ormai oggetto di una normativa totalmente armonizzata a livello di diritto dell’Unione europea in tre regolamenti (UE) del Parlamento europeo e del Consiglio: il n. 1151/2012 del 21 novembre 2012, sui regimi di qualità dei prodotti agricoli e alimentari; il n. 1308/2013 del 17 dicembre 2013, recante organizzazione comune dei mercati dei prodotti agricoli; e il n. 787/2019 del 17 aprile 2019, relativo alla definizione, alla designazione, alla presentazione e all’etichettatura delle bevande spiritose, all’uso delle denominazioni di bevande spiritose nella presentazione e nell’etichettatura di altri prodotti alimentari, nonché alla protezione delle indicazioni geografiche delle bevande spiritose e all’uso dell’alcol etilico e di distillati di origine agricola nelle bevande alcoliche, e che abroga il regolamento (CE) n. 110/2008.
Il ricorrente rileva, poi, che in ambito internazionale, tale materia è disciplinata, con riferimento ai prodotti anche non agroalimentari, dall’Accordo di Lisbona sulla protezione delle denominazioni d’origine e sulla loro registrazione internazionale del 31 ottobre 1958, ratificato con legge 28 aprile 1976, n. 424 (Ratifica ed esecuzione di accordi internazionali in materia di proprietà intellettuale, adottati a Stoccolma il 14 luglio 1967), di recente modificato e integrato con il cosiddetto Atto di Ginevra, a cui l’Unione europea ha aderito con la decisione (UE) 2019/1754 del Consiglio, del 7 ottobre 2019, relativa all’adesione dell’Unione europea all’atto di Ginevra dell’accordo di Lisbona sulle denominazioni di origine e le indicazioni geografiche.
Secondo l’Avvocatura generale le fonti sovranazionali e internazionali richiamate convergono nel qualificare come «indicazione geografica» o «denominazione di origine» di un prodotto, quella che rappresenti il particolare legame tra il prodotto e un dato territorio che contribuisce alla qualità o alla fama del prodotto.
In tal senso depone il regolamento n. 1151/2012/UE, relativo ai prodotti agroalimentari diversi dal vino e dagli spiriti, e in particolare l’art. 5, paragrafi 1 e 2, con riferimento alle denominazioni di origine e alle indicazioni geografiche; e l’art. 18, con riferimento alla «specialità tradizionale garantita», o STG; l’art. 93, paragrafo 1, del regolamento n. 1308/2013/UE, con riguardo al vino e in materia di spiriti; l’art. 3, numero 4), del regolamento (UE) n. 2019/787. A livello internazionale rileva, poi l’art. 2, paragrafo 1, alinea i) e ii), dell’Accordo di Lisbona come integrato dall’Atto di Ginevra.
Secondo il ricorrente, inoltre, le fonti sovranazionali e internazionali citate, oltre a riferire la denominazione o indicazione geografica protetta al particolare legame tra il prodotto e il territorio, tale che la qualità o la reputazione del prodotto siano attribuibili essenzialmente alla sua origine geografica, contemplano un sistema di registrazione elettronica, ai sensi di quanto previsto dagli artt. 11 e 22 del regolamento n. 1151/2012/UE, dall’art. 104 del regolamento n. 1308/2013/UE, dall’art. 33 del regolamento n. 787/2019/UE, ed ancora dagli articoli da 4 a 6 dell’“Atto di Ginevra” integrativo dell’Accordo di Lisbona.
La registrazione dell’indicazione o denominazione geografica o garantita avviene, in tutti i casi, all’esito di una procedura che verifica la rispondenza del prodotto alle definizioni legali sopra riportate, e conferisce ai produttori di esso il diritto ad essere protetti contro tutti gli usi illegali della denominazione stessa, come dispone, per esempio, l’art. 13 del regolamento n. 1151/2012/UE al paragrafo 1, lettere a), b) e c).
La registrazione e la tutela dei prodotti in questione, alla stregua dei regolamenti e degli accordi internazionali menzionati, si basano sulla predisposizione di disciplinari di produzione, la conformità ai quali è condizione perché un prodotto ottenga la registrazione, come ad esempio indicato dall’art. 7 del regolamento n. 1151/2012/UE, dall’art. 19 dello stesso regolamento a proposito delle STG, e dall’art. 94, paragrafo 2, del regolamento n. 1308/2013/UE.
1.2.¿ Ciò precisato, il ricorrente sostiene che il regime posto dalle citate fonti europee e internazionali è, nell’ambito dell’ordinamento interno, esclusivo e deriva da regolamenti, cioè da fonti normative dotate di efficacia diretta e immediata nell’ordinamento interno (art. 288, paragrafo 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea), che impedisce di “duplicare” la disciplina del regolamento UE con fonti interne aventi contenuto ed effetti in tutto o in parte sovrapponibili.
A tal riguardo, è richiamata la giurisprudenza costante della Corte di giustizia dell’Unione europea (in particolare, sentenza 2 febbraio 1977, in causa C-50/76, Amsterdam Bulb).
Il ricorrente deduce, quindi, che le disposizioni regionali censurate sono sovrapponibili, o, comunque, suscettibili di recare ostacolo alla piena applicazione nell’ordinamento interno delle fonti europee e internazionali richiamate.
In particolare, nel ricorso si afferma che le norme regionali impugnate istituiscono le denominazioni comunali De.Co. (art. 1, comma 1) e ne prevedono la registrazione (art. 1, comma 3 e art. 3, comma 1); altresì regolano tali denominazioni e tale registrazione facendone oggetto di un procedimento di registrazione, basato sulla verifica della rispondenza del prodotto ad un disciplinare (art. 3, comma 2, lettere c e d), che ha come effetto il diritto del prodotto di fregiarsi dell’apposito logo regionale attestante la sua qualità di prodotto «De.Co.» (art. 3, comma 2, lettera g).
Con riferimento alle caratteristiche dei prodotti che possono ambire alla De.Co., il ricorrente rileva come sia nodale l’art. 2 della legge regionale impugnata, alla luce del quale risulta che la De.Co. non solo dipende dal legame «genetico» tra il prodotto e un dato territorio, ma che tale legame rileva, altresì, quale connotato integrante la qualità o la rinomanza del prodotto (che a sua volta, proprio per questo, contribuisce alla notorietà e all’attrattività del comune di origine). Il ricorrente, infatti, evidenzia che deve trattarsi di prodotti che manifestino il loro legame storico culturale con il territorio comunale (art. 2, comma 1) a causa dell’impiego di «modalità consolidate nei costumi e nelle consuetudini locali» (comma 2, lettera a), o «praticati sul territorio e consolidati nel tempo» (comma 2, lettera b).
Ad avviso del ricorrente, si tratterebbe di prodotti risultanti da metodi produttivi non presenti in altri territori comunali e quindi di per sé qualificanti i prodotti in questione, che sono tali, insomma, solo perché realizzati mediante i metodi produttivi caratteristici di quei territori e non di altri. Non si tratterebbe, quindi, di un semplice legame di provenienza del prodotto dal territorio, ma della influenza determinante del metodo di produzione caratteristico di quel territorio nella definizione delle qualità, e in definitiva dell’identità, del prodotto stesso. Si sarebbe, pertanto, al di fuori dell’ambito delle mere «indicazioni geografiche semplici» (è richiamata la sentenza della Corte di giustizia, 7 novembre 2000, in causa C-312/98, Warsteiner, punti da 42 a 45).
Sarebbe poi evidente la coincidenza tra i «prodotti tradizionali locali» di cui all’art. 2, comma 2, lettera b), della legge regionale impugnata e le STG di cui al regolamento n. 1151/2012/UE: gli uni e le altre sono infatti connotati dall’impiego di un metodo di produzione tradizionale, che è ciò che conferisce loro la caratteristica che li rende meritevoli di protezione.
1.3.¿ Dal contesto descritto scaturirebbe la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., per avere la Regione legiferato in difformità dai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario mediante l’istituzione di un sistema di identificazione, registrazione e protezione di prodotti qualificati dalla loro origine territoriale idoneo a sostituirsi a quello disciplinato dal diritto dell’Unione nelle fonti “interposte” menzionate.
Ad avviso del ricorrente, sarebbe costituzionalmente illegittimo non soltanto l’art. 2 della legge regionale impugnata, ma conseguentemente lo sarebbero anche gli artt. 1 e 3, perché queste disposizioni, istituendo e articolando in dettaglio la denominazione e la registrazione dei prodotti definiti dall’art. 2, costituiscono il necessario sviluppo applicativo di questo, e quindi rendono concreta la violazione costituzionale che discende dal contenuto di esso.
Sarebbe, altresì, violato l’art. 14 dello statuto reg. Siciliana nella parte in cui prevede che l’Assemblea legifera, tra l’altro in materia di agricoltura e di commercio, «nell’ambito della Regione e nei limiti delle leggi costituzionali dello Stato».
Ad escludere il vizio denunciato, non potrebbero valere le previsioni dell’art. 1, commi 2 e 4 (non impugnati), che, invece, confermerebbero la sussistenza del vizio perché pongono un rapporto di identità/incompatibilità tra le De.Co. e la denominazione di origine protetta (DOP), l’indicazione geografica tipica (IGT), e la STG.
Le norme regionali impugnate, secondo il ricorrente, «anticipano» a livello regionale le forme di tutela assicurate dai regolamenti e dagli accordi commentati, con la conseguenza che esse costituirebbero un ostacolo all’attuazione di queste fonti. La prospettiva di ottenimento della De.Co. potrebbe far venire meno l’interesse dei produttori ad attuare le procedure di riconoscimento come DOP, IGT e STG.
1.4.¿ Inoltre, le disposizioni regionali violerebbero anche l’art. 117, terzo comma, Cost., nella parte in cui assegna alla legislazione concorrente la materia relativa ai rapporti internazionali e con l’Unione europea delle regioni; e, inoltre, l’art. 117, secondo comma, lettera a), nella parte in cui riserva alla legislazione esclusiva dello Stato i rapporti internazionali dello Stato e quelli con l’Unione europea.
Ad avviso del ricorrente, nessuna delle fonti sovranazionali menzionate regola una materia che attenga ai rapporti internazionali o «unionali» della Regione; per cui, comunque, essa non è competente ad adottare disposizioni legislative che direttamente o indirettamente pongano in discussione l’adempimento da parte dello Stato di obblighi da esso contratti sul piano internazionale o dell’Unione, con l’affiancarvi o sovrapporvi norme e procedure oggettivamente concorrenti con tali obblighi.
Soltanto il legislatore statale può disciplinare i profili esterni della materia in questione, stipulando i necessari accordi internazionali con i Paesi terzi o eventualmente rinunciando a intervenire a favore della legislazione armonizzata dell’Unione nei rapporti con gli Stati membri.
1.5.¿ Sussisterebbe, poi, la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. e dell’art. 14 dello statuto reg. Siciliana, in quanto la disciplina delle denominazioni protette in tutte le loro forme attiene chiaramente alla tutela della concorrenza, come risulta dai regolamenti UE in materia ed in particolare dai considerando da 1 a 5 del regolamento n. 1151/2012/UE.
Secondo il ricorrente si sarebbe pienamente nel campo della concorrenza in entrambe le sue accezioni di concorrenza «nel mercato» (disciplina di una competizione corretta) e di concorrenza «per il mercato» (promozione di un mercato maggiormente efficiente, nell’interesse generale dei consumatori).
Alla luce di tali considerazioni, nel ricorso si evidenzia come la normativa regionale, anche a prescindere dalla questione se essa si «sovrapponga» o meno alla disciplina sovranazionale e internazionale delle denominazioni protette, comunque, esula dalla competenza del legislatore regionale alla stregua del combinato disposto degli artt. 117, secondo comma, lettera e), Cost. e dell’art. 14 dello statuto reg. Siciliana, che vincola il legislatore regionale ad operare «nei limiti delle leggi costituzionali dello Stato».
La disciplina di tali denominazioni, secondo la difesa dello Stato, attiene direttamente alla concorrenza, e quindi, competerebbe in via esclusiva allo Stato, esulando dai titoli di competenza regionale di cui all’art. 14 dello statuto (essenzialmente, agricoltura, industria e commercio).
2.¿ Con atto del 1° luglio 2022, si è costituita nel giudizio la Regione Siciliana che ha chiesto a questa Corte di dichiarare l’inammissibilità delle censure relative alla violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. ¿ perché il parametro costituzionale non è indicato nella delibera di autorizzazione al ricorso del Consiglio dei ministri del 17 maggio 2022 ¿ e la non fondatezza delle altre.
2.1.¿ In primo luogo, la difesa della Regione evidenzia che la De.Co. non è un marchio bensì un’attestazione che lega un prodotto o una produzione al luogo storico di origine e, al tempo stesso, costituisce un certificato che acquista un forte e significativo valore identitario per una comunità.
Essa rappresenta un riconoscimento concesso dalla locale amministrazione comunale a un bene, una attività, o a un prodotto, strettamente collegati al territorio e alla sua comunità, senza alcuna sovrapposizione con le denominazioni d’origine vigenti, quali DOP, IGP, IGT, STG e altri simili.
La De.Co., contrariamente a quanto sostenuto dall’Avvocatura, non potrebbe essere considerata sovrapponibile e/o incompatibile con le certificazioni di matrice europea, in quanto si pone con le stesse solo in un rapporto di alternatività e, comunque, non è idonea a sostituirsi all’iscrizione dei prodotti tutelati dalla normativa europea.
Infatti, dall’art. 1, comma 4, della legge reg. Siciliana n. 3 del 2022 si evince che la ratio della De.Co., e la relativa iscrizione dei prodotti locali nel registro delle De.Co., è quella di creare esclusivamente un primo presidio di tutela dei prodotti tipici legati al territorio di origine (non ancora dotati di alcun elemento identificativo), destinato comunque a venire meno allorquando intervengano le certificazioni europee attestanti le «indicazioni geografiche» (DOP, IGP e STG).
Ad avviso della Regione, la De.Co. in alcun modo verrebbe a sostituirsi alle certificazioni disciplinate dalla normativa europea, sia per quelle già attribuite sia per quelle eventualmente da attribuire, in quanto viene istituita sotto condizione risolutiva.
L’attestazione di De.Co., ai sensi dell’art. 2 della legge regionale impugnata, viene rilasciata dai comuni i quali vi provvedono con delibera del Consiglio comunale, su proposta della Giunta comunale. Si tratterebbe di un potere esercitato in attuazione dei principi sul decentramento amministrativo, ai sensi dell’art. 118, secondo comma, Cost. e della legge 8 giugno 1990, n. 142 (Ordinamento delle autonomie locali) e, da ultimo, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali).
In particolare, la difesa regionale osserva che, in materia di ordinamento degli enti locali, la Regione Siciliana ha una competenza legislativa esclusiva (art. 14, comma 1, lettera o, dello statuto reg. Siciliana), attuata con la legge della Regione Siciliana 11 dicembre 1991, n. 48 (Provvedimenti in tema di autonomie locali), e che, inoltre, il principio di sussidiarietà è riconosciuto, specificatamente, all’art. 2, comma 1, della legge della Regione Siciliana 23 dicembre 2000, n. 30 (Norme sull’ordinamento degli enti locali), dovendosi, pertanto, escludere qualsiasi vulnus costituzionale.
La resistente sottolinea inoltre che, vertendosi nella materia «valorizzazione, distribuzione, difesa di prodotti agricoli ed industriali e delle attività commerciali», rientrante nella potestà legislativa esclusiva della Regione Siciliana, ai sensi dell’art. 14, comma 1, lettera e), dello statuto, spetta alla Regione legiferare in materia, nel rispetto della Costituzione e con i soli limiti derivanti dall’ordinamento comunitario e del ritrovato interesse nazionale.
Le disposizioni regionali, pertanto, non violano le norme internazionali e/o comunitarie in quanto la stessa giurisprudenza della Corte di giustizia ha ammesso la possibilità di segni distintivi dell’origine territoriale dei prodotti alimentari anche al di fuori del sistema comunitario delle DOP e delle IGP, riconoscendo autonoma tutelabilità al nome geografico (è richiamata, ex plurimis, la sentenza Warsteiner).
In linea con tale giurisprudenza è appunto la legge reg. Siciliana n. 3 del 2022, che si limita, genericamente, ad approntare a livello locale e regionale un primo ed elementare presidio di tutela per i prodotti agricoli e alimentari legati alla storia e alla tradizione di un determinato territorio senza alcun riferimento alla qualità del prodotto, tale da poter ingenerare confusione con altri prodotti diversamente certificati.
La difesa regionale, inoltre, osserva che leggi regionali dal medesimo contenuto non sono state impugnate dal Governo (il richiamo è alla legge della Regione Campania 20 luglio 2021, n. 7, recante «Istituzione e disciplina del Registro regionale dei Comuni con prodotti De.Co.» alla legge della Regione Liguria 1° luglio 2018, n. 11, recante «Registro regionale dei comuni con prodotti De.Co.», che hanno regolamentato la medesima materia), sicché l’eventuale accoglimento del ricorso comporterebbe anche un’ingiustificata sperequazione tra la posizione della Regione Siciliana e quella della Regione Campania e della Regione Liguria.
Detta sperequazione appare ancora più grave se si considerano la competenza legislativa esclusiva prevista dallo statuto della Regione Siciliana, sia in ordine alla «valorizzazione, distribuzione, difesa dei prodotti agricoli» sia in materia di ordinamento degli enti locali, ai sensi dell’art. 14, comma 1, lettere e) e o).
2.2.¿ Con riferimento alla censura inerente la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., la difesa della Regione, dopo aver eccepito l’inammissibilità della relativa questione, osserva, nel merito, che essa sarebbe comunque non fondata.
Motivi della decisione
1.¿ Con il ricorso indicato in epigrafe (reg. ric. n. 34 del 2022), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, in riferimento agli artt. 117, commi primo, secondo, lettere a) ed e), e terzo, Cost. e all’art. 14 dello statuto reg. Siciliana, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 3, 2, 3 e 4 della legge reg. Siciliana n. 3 del 2022.
Il ricorrente afferma che le disposizioni impugnate ¿ le quali, rispettivamente, istituiscono le denominazioni comunali, cosiddette De.Co. (art. 1, comma 1); prevedono il registro regionale telematico dei comuni e dei relativi prodotti a denominazione comunale De.Co (art. 1, comma 3, e art. 3, comma 1); regolano tali denominazioni e tale registrazione facendone l’oggetto di un procedimento basato sulla verifica della rispondenza del prodotto ad un disciplinare (art. 3, comma 2, lettere c e d) ¿ si pongono in contrasto con plurimi parametri costituzionali.
1.1.– Innanzi tutto, con un primo motivo di ricorso, il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., perché le disposizioni impugnate sarebbero state adottate in difformità dai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario, in quanto istituirebbero un sistema di identificazione, registrazione e protezione di prodotti qualificati dalla loro origine territoriale, idoneo a sostituirsi a quello disciplinato dal diritto dell’Unione europea.
Le disposizioni impugnate, infatti, si sovrapporrebbero alle fonti sovranazionali “interposte”, di cui al regolamento n. 1151/2012/UE «sui regimi di qualità dei prodotti agricoli e alimentari», al regolamento n. 1308/2013/UE, recante organizzazione comune dei mercati dei prodotti agricoli e al regolamento n. 2019/787/UE, relativo alla definizione, alla designazione, alla presentazione e all’etichettatura delle bevande spiritose, all’uso delle denominazioni di bevande spiritose nella presentazione e nell’etichettatura di altri prodotti alimentari, nonché alla protezione delle indicazioni geografiche delle bevande spiritose e all’uso dell’alcol etilico e di distillati di origine agricola nelle bevande alcoliche, e che abroga il regolamento (CE) n. 110/2008; nonché all’Accordo di Lisbona sulla protezione delle denominazioni d’origine e sulla loro registrazione internazionale, come modificato e integrato con il cosiddetto «Atto di Ginevra», cui l’Unione europea ha aderito con la decisione (UE) n. 2019/1754.
Il ricorrente afferma che il regime posto dalle menzionate fonti europee e internazionali, nell’ambito dell’ordinamento interno, è esclusivo e deriva da regolamenti dotati di efficacia diretta e immediata, ai sensi dell’art. 288, paragrafo 2, TFUE; ciò che impedisce di “duplicare” la disciplina del regolamento UE con fonti interne aventi contenuto ed effetti in tutto o in parte sovrapponibili.
Le disposizioni regionali impugnate sarebbero, infatti, sostanzialmente sovrapponibili, o, comunque, suscettibili di recare ostacolo alla piena applicazione nell’ordinamento interno delle fonti europee e internazionali richiamate.
Tale sovrapposizione di disciplina, inoltre, determinerebbe un ostacolo all’attuazione della normativa sovranazionale, in quanto il riconoscimento ad un prodotto della denominazione De.Co. determinerebbe il venire meno dell’interesse dei produttori ad attuare le procedure di riconoscimento come DOP, IGT e STG.
Inoltre, viene impugnato anche l’art. 2, lettera b), della legge reg. Siciliana n. 3 del 2022, perché avrebbe introdotto una figura sovrapponibile a quella della STG, di cui al regolamento n. 1151/2012/UE.
Le norme regionali violerebbero, altresì, l’art. 14 dello statuto reg. Siciliana nella parte in cui prevede che l’Assemblea legifera, tra l’altro, in materia di agricoltura e di commercio, «nell’ambito della Regione e nei limiti delle leggi costituzionali dello Stato».
Sarebbero, inoltre, violati l’art. 117, terzo comma, Cost., nella parte in cui assegna alla legislazione concorrente la materia relativa ai rapporti internazionali e con l’Unione europea delle regioni, e l’art. 117, secondo comma, lettera a), Cost., nella parte in cui riserva alla legislazione esclusiva dello Stato i rapporti internazionali dello Stato e quelli con l’Unione europea, in quanto le disposizioni impugnate si sovrapporrebbero alle menzionate fonti europee e internazionali.
1.2.– Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente denuncia le stesse disposizioni regionali impugnate per contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., e dell’art. 14 dello statuto reg. Siciliana, in ragione della loro natura intrinsecamente «concorrenziale», con la conseguente invasione in una materia di competenza esclusiva del legislatore statale.
2.– Va innanzi tutto dichiarata l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale promossa con tale secondo motivo di ricorso.
Infatti, nella relazione allegata alla delibera di determinazione a impugnare la legge regionale è indicato soltanto l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione alla disciplina interposta recata dagli artt. 3, 5, 7, 11, 19 e 22 del regolamento n. 1151/2012/UE e delle analoghe disposizioni dei regolamenti n. 1308/20137UE e n. 787/2019/UE in materia di denominazioni protette di prodotti agroalimentari.
Peraltro, la mancata deduzione della violazione della competenza esclusiva statale nella materia «tutela della concorrenza» e segnatamente l’omessa indicazione, nella delibera a impugnare, del parametro costituzionale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., sono oggetto di espressa eccezione di inammissibilità della questione da parte della difesa della Regione Siciliana.
A tal riguardo, deve rilevarsi che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, «la questione proposta in via principale, rispetto alla quale difetti la necessaria piena corrispondenza tra il ricorso e la delibera del Consiglio dei ministri che l’ha autorizzato, è inammissibile (ex plurimis, sentenze n. 83 del 2018, n. 152 del 2017, n. 265 e n. 239 del 2016)» (sentenza n. 199 del 2020).
È vero che si è, altresì, precisato che soltanto «l’omissione di qualsiasi accenno a un parametro costituzionale nella delibera di autorizzazione all’impugnazione dell’organo politico comporta l’esclusione della volontà del ricorrente di promuovere la questione al riguardo, con conseguente inammissibilità della questione che, sul medesimo parametro, sia stata proposta dalla difesa [erariale] (sentenza n. 239 del 2016)» (sentenza n. 232 del 2017).
Ma, nella specie, da una parte, la relazione allegata alla delibera del Consiglio dei ministri del 17 maggio 2022 fa testuale riferimento solo all’art. 117, primo comma, Cost., e indica, come parametro interposto, la disciplina recata dagli artt. 3, 5, 7, 11, 19 e 22 del regolamento n. 1151/2012/UE e delle analoghe disposizioni dei regolamenti n. 1308/2013/UE e n. 787/2019/UE in materia di denominazioni protette di prodotti agroalimentari. D’altra parte, le argomentazioni spese a illustrazione della censura sono tutte centrate sulla dedotta violazione della normativa europea.
Non è, invece, indicato il parametro interno che fa riferimento alla violazione della competenza esclusiva del legislatore statale in materia di «tutela della concorrenza» (art. 117, secondo comma, lettera e, Cost.); né alcuna argomentazione è svolta sotto questo profilo.
Sicché è chiaro l’intento del Governo di censurare le disposizioni della impugnata legge regionale solo con riferimento alla dedotta violazione, come parametro interposto, della normativa europea; ciò che l’Avvocatura dello Stato fa con il primo motivo di ricorso.
2.1.– Per la stessa ragione è parimenti inammissibile la deduzione, contenuta nel primo motivo di ricorso, del parametro interposto costituito dall’Accordo di Lisbona, come modificato e integrato con il cosiddetto Atto di Ginevra, trattandosi di fonte normativa internazionale non indicata nella delibera di autorizzazione all’impugnazione.
2.2.– Sono, invece, ammissibili le altre censure prospettate, con il primo motivo di ricorso, in riferimento a tutti i parametri, indicati congiuntamente all’art. 117, primo comma, Cost., in quanto strettamente connessi e riconducibili a una matrice unitaria.
Infatti, l’Avvocatura dello Stato, con il limite della sostanziale fedeltà alla delibera autorizzatoria del Consiglio dei ministri, ha un’autonomia tecnica nella indicazione dei parametri di censura, dovendo riconoscerle «il potere di integrare il tenore della autorizzazione» (sentenze n. 177 del 2020 e n. 39 del 2017).
Come già rilevato, gli argomenti esposti nella relazione allegata alla delibera di autorizzazione al ricorso sono tesi a far valere la violazione, da parte delle disposizioni regionali impugnate, della normativa europea, sul presupposto che essa non consente alcun spazio di intervento al legislatore regionale. Al nucleo essenziale di questa censura sono riconducibili anche i parametri ulteriori rispetto all’art. 117, primo comma, Cost., l’unico indicato espressamente nella delibera suddetta.
Benché gli artt. 117, commi secondo, lettera a), e terzo, Cost. e l’art. 14 dello statuto reg. Siciliana non siano stati menzionati nella relazione allegata alla delibera del Consiglio dei ministri, non può dubitarsi della volontà del Governo, titolare del potere di impugnativa, di proporre, a mezzo della difesa tecnica, le questioni di legittimità costituzionale anche con riferimento a tali parametri; l’Avvocatura generale ha, infatti, più specificamente individuato le norme costituzionali cui riferire le censure di legittimità costituzionale, rimanendo nel perimetro della volontà politica espressa nella delibera di autorizzazione al ricorso (ex plurimis, sentenze n. 126 del 2022, n. 177 e n. 27 del 2020 e n. 232 del 2017).
3.– Delimitato il thema decidendum nei termini appena indicati, occorre ora soffermarsi sulle disposizioni della legge reg. Siciliana n. 3 del 2022 recanti la disciplina delle De.Co.; legge regionale che, come sopra rilevato, è impugnata in relazione agli articoli da 1 a 4, con la delimitazione delle censure relative all’art. 1, ai soli commi 1 e 3, rimanendo dunque escluso l’art. 5, che concerne materia diversa da quella oggetto delle disposizioni impugnate.
In primo luogo, l’art. 1 individua le finalità della legge regionale, stabilendo che «[l]a Regione siciliana promuove l’istituzione della denominazione comunale (De.Co.), quale strumento per la salvaguardia, la tutela e la diffusione delle produzioni agroalimentari ed enogastronomiche territoriali, dell’artigianato, della biodiversità nonché per la difesa della storia, delle tradizioni e dei saperi locali e la promozione delle specificità storiche e culturali dei territori comunali».
Al comma 3, poi, è stabilito che, «[n]el rispetto della normativa europea e nazionale in materia di protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni di origine dei prodotti agricoli e alimentari», è istituito il registro regionale telematico dei comuni e dei relativi prodotti a denominazione comunale.
Non sono invece impugnati i commi 2 e 4.
Al comma 2 vi è la precisazione che la De.Co. «non è un marchio di qualità o di certificazione», venendo tali denominazioni istituite nell’esercizio delle funzioni proprie dei comuni indicate all’art. 118, secondo comma, Cost. e ai sensi del principio di sussidiarietà di cui all’art. 2 della legge reg. Siciliana n. 30 del 2000.
Al comma 4 si prevede che «[n]on possono essere inclusi nel Registro regionale telematico De.Co. i prodotti interessati da indicazioni geografiche (DOP-IGP-STG) nonché i prodotti inseriti nell’elenco di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 30 aprile 1998, n. 173, recante “Disposizioni in materia di contenimento dei costi di produzione per il rafforzamento strutturale delle imprese agricole, a norma dell’articolo 55, commi 14 e 15, della legge 27 dicembre 1997, n. 449”».
Tale comma dell’art. 1 si chiude, poi, con la previsione della “clausola di cedevolezza”. È stabilito che «[n]el caso di riconoscimento europeo di un prodotto De.Co. nonché in caso di iscrizione nell’elenco di cui al predetto articolo 8 del decreto legislativo 173/1998, la denominazione comunale decade automaticamente».
Le altre tre disposizioni impugnate (artt. 2, 3 e 4) completano il quadro normativo.
L’art. 2 reca la definizione di De.Co., stabilendo, al comma 1, che consiste in «una attestazione di identità territoriale, deliberata dal Consiglio comunale su proposta della Giunta comunale, che individua l’origine ed il legame storico culturale di un determinato prodotto con il territorio comunale».
Quanto invece ai prodotti che possono beneficiare della De.Co., al comma 2, è stabilito che «per prodotti a denominazione comunale si intendono:
a) i “prodotti tipici”, cioè quelli in cui si realizza la concomitanza di fattori riconducibili alla localizzazione geografica dell’area di produzione o alle relative tecniche di preparazione. Tale prodotto può derivare da attività agricola, zootecnica, di pesca artigianale o dalla lavorazione e trasformazione di prodotti derivanti dalle stesse attività, ottenuto o realizzato sul territorio comunale, secondo modalità consolidate nei costumi e nelle consuetudini locali, anche mediante tecniche innovative che ne costituiscono il naturale sviluppo e aggiornamento. Per prodotto tipico si può intendere una ricetta o un prodotto ad alto valore storico della tradizione locale.
b) i “prodotti tradizionali locali”, cioè quelli caratterizzati da metodi di lavorazione e trasformazione praticati su un territorio e consolidati nel tempo, per un periodo non inferiore ai venti anni.
Segue, poi, l’art. 3 che istituisce il registro regionale telematico dei comuni e dei relativi prodotti a denominazione comunale De.Co. presso l’Assessorato regionale dell’agricoltura, dello sviluppo rurale e della pesca mediterranea nel quale vengono iscritti i comuni e i relativi prodotti che ottengono il riconoscimento di De.Co.
In particolare, il comma 1 prevede che entro centoventi giorni dall’entrata in vigore della legge regionale impugnata, l’Assessore regionale per l’agricoltura, lo sviluppo rurale e la pesca mediterranea con proprio decreto, sentita la competente Commissione legislativa dell’Assemblea regionale siciliana, provvede tra l’altro a definire «gli adempimenti che i comuni richiedono per il riconoscimento delle denominazioni comunali e indica i modelli dei disciplinari di produzione da adottare per ottenere il riconoscimento di prodotto a denominazione comunale».
Vi è infine l’art 4, anch’esso oggetto di censura, secondo cui la Regione, nel perseguire la finalità della legge regionale, valorizza i prodotti De.Co. iscritti nel registro regionale di cui all’art. 3, testimonianza del territorio siciliano.
4.– Venendo al versante europeo può ricordarsi, in sintesi, che la disciplina dei regimi di qualità dei prodotti agricoli alimentari – richiamata dal ricorrente a sostegno delle censure di illegittimità costituzionale – registra un avanzato processo di armonizzazione, venendo in rilievo le competenze che gli artt. 3 e 4 TFUE assegnano all’Unione europea (segnatamente l’art. 3, paragrafo 1, lettera b), quanto alla «definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno», e soprattutto l’art. 4 TFUE, paragrafo 2, lettere a) e d), quanto al «mercato interno» e all’«agricoltura e pesca, tranne la conservazione delle risorse biologiche del mare».
Tale materia – dapprima oggetto del regolamento CEE n. 2081/1992 del Consiglio del 14 luglio 1992, relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine dei prodotti agricoli ed alimentari, poi abrogato dall’art. 19 del regolamento CE n. 510/2006 del Consiglio, del 20 marzo 2006, relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine dei prodotti agricoli e alimentari – è attualmente disciplinata dal regolamento (UE) n. 1151/2012.
Questa fonte normativa costituisce strumento specifico per l’attuazione dell’armonizzazione delle legislazioni nel settore agricolo, stante la previsione dell’art. 43, paragrafo 2, TFUE, che fa riferimento alla «organizzazione comune dei mercati agricoli». Rileva anche l’art. 118, paragrafo 1, TFUE che prescrive, «[n]ell’ambito dell’instaurazione o del funzionamento del mercato interno», l’adozione di «misure per la creazione di titoli europei al fine di garantire una protezione uniforme dei diritti di proprietà intellettuale nell’Unione e per l’istituzione di regimi di autorizzazione, di coordinamento e di controllo centralizzati a livello di Unione».
Il regolamento n. 1151/2012 – che è direttamente applicabile in tutti gli Stati membri sicché gli ordinamenti interni non possono porre normative nazionali che siano di ostacolo a tale efficacia (Corte di giustizia, sentenze 28 marzo 1985, in causa 272/83, Commissione delle Comunità europee contro Repubblica italiana, punto 26; 31 gennaio 1978, in causa 94/77, Fratelli Zerbone snc, punti 22 e seguenti, e 2 febbraio 1977, in causa C-50/76, Amsterdam Bulb, punti da 4 a 7) – specificamente istituisce, in continuità con i precedenti regolamenti europei, un regime di denominazioni di origine e di indicazioni geografiche protette al fine di aiutare i produttori di prodotti legati a una zona geografica nei modi seguenti: a) garantendo una giusta remunerazione per le qualità dei loro prodotti; b) garantendo una protezione uniforme dei nomi in quanto diritto di proprietà intellettuale sul territorio dell’Unione; c) fornendo ai consumatori informazioni chiare sulle proprietà che conferiscono valore aggiunto ai prodotti (art. 4).
Nell’ambito di tale specifica disciplina – riguardante i beni agroalimentari – rientrano i prodotti che, ai sensi dell’art. 5 del regolamento n. 1151/2012 ottengono il marchio DOP con ciò intendendosi, ai sensi del paragrafo 1, una «denominazione di origine» che identifica un prodotto «a) originario di un luogo, di una regione o, in casi eccezionali, di un paese determinati; b) la cui qualità o le cui caratteristiche sono dovute essenzialmente o esclusivamente ad un particolare ambiente geografico ed ai suoi intrinseci fattori naturali e umani; e c) le cui fasi di produzione si svolgono nella zona geografica delimitata».
Vi rientrano, poi, i prodotti con marchio IGP, ovvero con indicazione geografica protetta, che identifica, ai sensi del successivo paragrafo 2, un prodotto «a) originario di un luogo, di una regione o di un paese determinati; b) alla cui origine geografica sono essenzialmente attribuibili una data qualità; la reputazione o altre caratteristiche; e c) la cui produzione si svolge per almeno una delle sue fasi nella zona geografica delimitata».
Entrambe le definizioni di DOP e IGP fanno riferimento, in particolare, alla qualità del prodotto.
Infine, lo stesso regolamento prevede, all’art 17, un regime relativo alle STG «per salvaguardare metodi di produzione e ricette tradizionali, aiutando i produttori di prodotti tradizionali a commercializzare i propri prodotti e a comunicare ai consumatori le proprietà che conferiscono alle loro ricette e ai loro prodotti tradizionali valore aggiunto».
A tali denominazioni si lega la speciale protezione di cui all’art. 13 sul presupposto della corrispondenza del prodotto ad un rigoroso disciplinare, il quale in particolare richiede la “prova” del legame fra la qualità e le caratteristiche del prodotto e l’origine geografica. Si prevede che tali nomi registrati siano protetti contro qualsiasi impiego commerciale di prodotti che non siano oggetto di registrazione e contro qualsiasi imitazione del prodotto stesso.
Dalla registrazione di un prodotto con il marchio DOP, IGP o STG, discende tale speciale protezione, cui consegue il diritto di escludere l’uso, diretto o indiretto, da parte di terzi che non siano titolari della denominazione protetta.
È la qualità del prodotto che costituisce il fondamento della protezione accordata a livello europeo (Corte di giustizia, sentenza 20 maggio 2003, in causa C-108/01, Consorzio del Prosciutto di Parma e Salumificio S. Rita, punto 63).
Dalla giurisprudenza europea risulta, dunque, che il regime di protezione delle DOP e delle IGP mira essenzialmente a garantire ai consumatori che i prodotti agricoli che beneficiano di una denominazione registrata presentino talune caratteristiche particolari e, pertanto, offrano una garanzia di qualità, dovuta anche alla loro provenienza geografica (Corte di giustizia, sentenze 14 settembre 2017, in causa C-56/16, European Union Intellectual Property Office (EUIPO); 20 dicembre 2017, in causa C-393/16, Comité Interprofessionnel du Vin de Champagne e 7 giugno 2018, in causa C-44/17, Scotch Whisky Association).
A livello internazionale, una disciplina sulle denominazioni protette sostanzialmente analoga è contenuta nell’Accordo di Lisbona, modificato e integrato con il cosiddetto Atto di Ginevra.
5.– Questa normativa europea è stata più volte oggetto di pronunce della Corte di giustizia.
Non di rado quella Corte ha esaminato forme di promozione di prodotti locali, qualificandole come misure di effetto equivalente, dovendo considerarsi tale «ogni normativa commerciale degli Stati membri che possa ostacolare direttamente o indirettamente, in atto o in potenza gli scambi intracomunitari (Corte di giustizia, sentenze 11 luglio 1974, in causa C-8/74, Benoit e Gustave Dassonville e 10 novembre 1992, in causa C-3/91, Exportur SA).
Si è specificato che sono misure d’effetto equivalente ad una restrizione quantitativa, vietata dall’art. 34 TFUE, e non giustificata dall’art. 36 di questo, «le norme di uno Stato membro, le quali subordinino l’uso per un prodotto nazionale di una denominazione di qualità, […] alla condizione che una o più fasi del processo produttivo precedenti alla fase della preparazione del prodotto finito abbiano avuto luogo nel territorio nazionale» (Corte di giustizia, sentenza 12 ottobre 1978, in causa C-13/78, Joh. Eggers Sohn & CO).
Con riferimento a una disciplina introdotta al fine di promuovere la commercializzazione dei prodotti agroalimentari realizzati in Germania ed il cui messaggio pubblicitario sottolineava la provenienza tedesca dei prodotti interessati (attraverso l’indicazione «Markenqualität aus deutschen Landen», CMA), la Corte di Lussemburgo ha affermato che essa ha effetti restrittivi sulla libera circolazione delle merci tra Stati membri e «può indurre i consumatori ad acquistare i prodotti che portano il marchio CMA, escludendo i prodotti importati (Corte di giustizia, sentenza 5 novembre 2002, in causa C-325/2000, Commissione delle Comunità europee contro Repubblica federale di Germania).
In altra pronuncia la Corte di giustizia ha affermato che la Repubblica francese «[n]on avendo posto fine, entro il termine fissato nel parere motivato, alla protezione giuridica nazionale concessa alla denominazione «Salaisons d’Auvergne» nonché ai marchi regionali […], è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell’art. 28 CE» (Corte di giustizia, sentenza 6 marzo 2003, in causa C-6/02, Commissione delle Comunità europee contro Repubblica francese).
E, ancora, la Corte di giustizia ha ritenuto che lo Stato belga, avendo adottato e mantenuto in vigore una normativa che concede «il marchio di qualità vallone» a prodotti fabbricati o trasformati in Vallonia, è venuto meno agli obblighi ad esso incombenti ai sensi dell’art. 28 Trattato CE (Corte di giustizia, sentenza 17 giugno 2004, in causa C-255/03, Commissione delle Comunità europee contro Regno del Belgio).
Si è affermato, altresì, che le condizioni che il disciplinare DOP hanno «come fine di meglio salvaguardare la qualità e l’autenticità del prodotto nonché, di conseguenza, la reputazione della DOP» (Corte di giustizia, sentenza 20 maggio 2003, in causa C-108/01, Consorzio del Prosciutto di Parma, Salumificio S. Rita spa).
5.1.– Al di fuori dell’ambito di applicazione dei regolamenti europei si collocano, invece, le “denominazioni geografiche semplici”, alle quali – come si dirà – possono essere ricondotte le De.Co., come disciplinate dalla legge regionale oggetto di censura.
Le stesse, quali indicazioni di mera provenienza geografica di un prodotto, trovano espressa considerazione nella giurisprudenza europea, al precipuo fine di escluderle dall’applicazione dei regolamenti UE al ricorrere di determinate condizioni.
A tal riguardo, la Corte di giustizia (sentenza 8 maggio 2014, in causa C-35/13, Assica – Associazione Industriali delle Carni e dei Salumi e Kraft Foods Italia spa, punto 30) ha affermato che «le denominazioni di provenienza geografica sono quelle che servono unicamente a mettere in rilievo l’origine geografica di un prodotto, indipendentemente dalle caratteristiche particolari di quest’ultimo», sicché «esse non ricadono nell’ambito di applicazione del regolamento n. 2081/92 (in tal senso, sentenza Warsteiner Brauerei, EU:C:2000:599, punto 44). Pertanto, il regime di protezione che può applicarsi, eventualmente, sul mercato di uno Stato membro, a una denominazione geografica priva di registrazione comunitaria è quello previsto per le denominazioni geografiche concernenti i prodotti per i quali non esiste un nesso particolare tra le loro caratteristiche e la loro origine geografica» (punti 30 e 31).
Al tal fine «devono essere soddisfatte due condizioni, ossia, da un lato, la sua applicazione non deve compromettere gli obiettivi del regolamento n. 2081/92 (si veda, in tal senso, sentenza Warsteiner Brauerei, EU:C:2000:599, punto 49) e, dall’altro, essa non deve risultare in contrasto con la libera circolazione delle merci di cui all’art. 28 CE (si veda, in particolare, in tal senso, sentenza Budejovický Budvar, EU:C:2003:618, punti da 95 a 97)» (punto 33).
Da un lato che «la protezione attribuita da un regime nazionale deve avere l’effetto non di garantire ai consumatori che i prodotti i quali godono di tale protezione presentino una qualità o una caratteristica determinata, bensì esclusivamente quello di garantire che siffatti prodotti provengano effettivamente dall’area geografica di cui si tratti» (punto 34).
Dall’altro, occorre che la protezione accordata non miri «a favorire la commercializzazione dei prodotti di origine nazionale a scapito dei prodotti importati», altrimenti integrando una misura di effetto equivalente a una restrizione quantitativa alla libera circolazione delle merci di cui all’art. 34 TFUE.
Con specifico riferimento alla distinzione tra indicazioni di provenienza e denominazione di origine la Corte di giustizia ha affermato «che le indicazioni di provenienza sono destinate ad informare il consumatore del fatto che il prodotto che le reca proviene da un luogo, da una regione o da un paese determinati», mentre la denominazione d’origine «garantisce, oltre alla provenienza geografica del prodotto, il fatto che la merce è stata prodotta secondo i requisiti di qualità o le norme di produzione disposti da un atto delle pubbliche autorità e controllati dalle stesse e quindi la presenza di talune caratteristiche specifiche» (Corte di giustizia, sentenza Warsteiner).
5.2.– In definitiva, la giurisprudenza della Corte di giustizia, sopra richiamata (in particolare la sentenza 8 maggio 2014, in causa C-35/13, Assica – Associazione Industriali delle Carni e dei Salumi e Kraft Foods Italia spa), ha chiarito che devono essere soddisfatte due condizioni perché un regime di protezione possa applicarsi, sul mercato di uno Stato membro, a una denominazione geografica priva di registrazione comunitaria quanto alle denominazioni geografiche concernenti i prodotti per i quali non esiste un nesso particolare tra le loro caratteristiche e la loro origine geografica.
Da una parte occorre che la sua applicazione non comprometta gli obiettivi dei regolamenti europei. Pertanto la protezione attribuita da un regime nazionale deve avere non già l’effetto di garantire ai consumatori che i prodotti presentino una qualità o una caratteristica determinata, bensì esclusivamente quello di assicurare che siffatti prodotti provengano effettivamente dall’area geografica di cui si tratti.
Dall’altro, occorre che essa non risulti in contrasto con la libera circolazione delle merci e tale sarebbe un regime nazionale di protezione delle denominazioni, anche allorché si applicasse sia ai prodotti nazionali che a quelli importati nel territorio dello Stato interessato, ove fosse idoneo a favorire la commercializzazione dei prodotti di origine nazionale a scapito dei prodotti importati. Una siffatta restrizione potrebbe essere giustificata da un’esigenza imperativa di interesse generale di protezione della leale concorrenza o da quella della tutela dei consumatori, sempre se applicata in modo non discriminatorio e se proporzionata rispetto allo scopo perseguito.
6.– In questo contesto normativo e giurisprudenziale si collocano le questioni promosse con il primo motivo di ricorso; le quali non sono fondate per le ragioni che seguono.
Può peraltro subito notarsi che è solo suggestiva – ma in realtà giuridicamente non rilevante – la considerazione fatta dalla difesa della Regione Siciliana che ha segnalato che in passato il Governo non ha impugnato altre leggi regionali, parimenti istitutive di denominazioni comunali De.Co., quali la legge reg. Liguria n. 11 del 2018 e la legge reg. Campania n. 7 del 2021; né ha impugnato – successivamente alla legge reg. Siciliana in esame – la legge della Regione Basilicata 10 agosto 2022, n. 23 (Istituzione del Registro regionale dei Comuni con prodotti a denominazione comunale).
7.– La progressiva armonizzazione europea della disciplina dei marchi e dei segni distintivi, che danno luogo a un regime di protezione di beni e servizi, comporta che non è ammissibile una normativa interna, nazionale o regionale, che a essa vada a sovrapporsi in modo diretto oppure che sia di ostacolo alla libera circolazione delle merci, introducendo misure di effetto equivalente ad una restrizione quantitativa all’importazione.
La sostanziale convergenza della disciplina di tutti i segni distintivi (comprese le indicazioni geografiche e le denominazioni d’origine) verso una identica funzione e la molteplicità degli interessi dalla stessa tutelati sono al fondo di questo processo di armonizzazione, ispirato alla tutela delle imprese e dei consumatori e all’esigenza di garantire la corretta e libera esplicazione dell’iniziativa economica.
Sono state, quindi, dichiarate costituzionalmente illegittime norme regionali che “garantivano” l’origine e la qualità del prodotto (sentenza n. 191 del 2012), istituendo così un «marchio “regionale” di qualità destinato a contrassegnare […] determinati prodotti agricoli ed agroalimentari» (sentenza n. 66 del 2013). Tale è stato anche il caso del marchio di origine e di qualità denominato «Marche Eccellenza Artigiana (MEA)» (sentenza n. 86 del 2012).
Ma quando è stata sottoposta al sindacato di questa Corte una norma regionale che tendeva solo a valorizzare il «patrimonio produttivo e culturale nonché i prodotti di qualità del territorio», la questione è stata dichiarata non fondata perché «la disposizione censurata non ha per oggetto l’istituzione di tali marchi» (sentenza n. 242 del 2016).
Anche la sentenza n. 372 del 2008 ha escluso che una normativa regionale, che promuoveva la valorizzazione, la diffusione e il commercio di un prodotto tipico locale, comportasse «il riconoscimento di una “qualifica” prevista dal regolamento (CE) n. 510/06, di competenza delle istituzioni comunitarie» (in senso conforme, con riferimento ad altra normativa regionale, vedi la sentenza n. 213 del 2006).
Insomma, va ribadito che è preclusa alla legge regionale l’istituzione di marchi che attestano contestualmente la qualità e l’origine geografica di prodotti, sì da produrre effetti restrittivi sulla libera circolazione delle merci in violazione della richiamata normativa europea.
Ma, perché possa ravvisarsi un ostacolo al processo di armonizzazione di marchi e segni distintivi di protezione di beni e servizi, deve trattarsi della creazione di veri e propri marchi di qualità da parte della Regione o anche solo di misure di effetto equivalente alla restrizione all’importazione, di cui agli artt. 34 e 35 TFUE.
È questa duplice verifica – in linea con le condizioni che la richiamata giurisprudenza della Corte di giustizia richiede al fine della compatibilità europea di eventuali regimi di protezione nel mercato interno – che l’esame del ricorso del Governo, in sostanza, richiede.
8.– A tal fine, sotto il primo profilo, deve considerarsi che l’elemento caratterizzante della regolamentazione dei marchi – «assunto questo termine in un senso generico, comprensivo dei vari istituti designati dalla vigente legislazione con denominazioni molteplici, come quelle di marchi di impresa, marchi collettivi, denominazioni di origine, o denominazioni di provenienza, e con funzioni in parte diverse, e cioè o prevalentemente di tutela dei produttori contro la concorrenza sleale, o invece di certificazione della qualità del prodotto avente lo scopo, almeno in via principale, di garanzia del consumatore» (sentenza n. 368 del 2008) – sta nel regime di tutela riconosciuto a chi possa legittimamente farne uso.
La disciplina europea dei marchi e dei segni distintivi di beni e servizi – al pari di quella codicistica (artt. 2569 e seguenti del codice civile) e di quella approntata dal codice della proprietà industriale (decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30, recante «Codice della proprietà industriale, a norma dell’articolo 15 della legge 12 dicembre 2002, n. 273») e non diversamente da quella internazionale (l’Accordo di Lisbona indicato) – associa ad essi un regime di protezione in favore dei loro titolari.
Il diritto di esclusiva, previsto dall’art. 2569 cod. civ. e dall’art. 30 cod. proprietà industriale, trova il simmetrico pendant nel citato regolamento (UE) n. 1151/2012, quanto alle regole di protezione dei nomi registrati (art. 13), ossia delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche (DOP e IGP, art. 5). Anche il regolamento (UE) n. 1308/2013 prevede un regime di protezione per le denominazioni di origine e per le indicazioni geografiche (art. 103).
Altresì una specifica protezione è sancita per le indicazioni geografiche di cui al regolamento (UE) n. 787/2019 quanto alle bevande spiritose e alcoliche (art. 21).
9.– Orbene, l’impugnata legge regionale non si limita a qualificare, in positivo, la denominazione comunale (De.Co.) come «attestazione di identità territoriale» e, in quanto tale, destinata (solo) a individuare l’origine e il legame storico culturale di un determinato prodotto con il territorio comunale (art. 2, comma 1), senza quindi certificarne la qualità. Ma specifica anche, in negativo, che la denominazione comunale «non è un marchio di qualità o di certificazione» (art. 1, comma 2).
Non si tratta di una mera autoqualificazione da parte della norma regionale, ma della positiva regolamentazione di un aspetto importante e determinante. La prescrizione secondo cui la denominazione comunale, in quanto attestazione di identità territoriale, non è un marchio comporta (e significa) che il legislatore regionale non ha inteso assegnare a tale attestazione un regime di protezione (né avrebbe potuto farlo, per quanto sopra detto, stante la preclusione alla sovrapposizione alla richiamata normativa europea). Chi consegue l’attestazione di identità territoriale non ha, quindi, un diritto di privativa, né di esclusiva, che possa far valere nei confronti di chi produce lo stesso prodotto “tipico” (art. 2, comma 2, lettera a) o tradizionale (art. 2, comma 2, lettera b) senza aver conseguito tale attestazione. Chi esibisce il logo del registro regionale De.Co., per essere stato a ciò autorizzato, secondo le regole rimesse ad un decreto dell’Assessore regionale per l’agricoltura, testimonia «l’origine ed il legame storico culturale di un determinato prodotto con il territorio comunale», ma non acquisisce il diritto ad un “marchio” locale.
Quindi la denominazione comunale De.Co. non è un marchio, né un segno distintivo di protezione di un prodotto; ma è una mera “attestazione di identità territoriale”, che rientra a pieno nella nozione di «indicazione geografica semplice», la quale – secondo la richiamata giurisprudenza della Corte di giustizia (sentenza Warsteiner) – non interferisce con le denominazioni registrate a livello europeo (DOP, IGP e STG).
L’indicazione De.Co. su un determinato prodotto non ne attesta le caratteristiche qualitative – come accade per le denominazioni protette a livello europeo – ma testimonia che il prodotto “è parte” di quel territorio. L’inserimento della De.Co. nel relativo registro regionale non può che valere ad attestare che il prodotto è tipico di quel luogo, indicandolo come tale senza alcuna speciale protezione nei confronti di terzi, sprovvisti di tale logo.
Si ha pertanto che, diversamente dalle denominazioni DOP, IGP e STG, l’attestazione De.Co. disciplinata dalle disposizioni regionali impugnate, non riconosce alcuna tutela specifica ai prodotti connotati da tale denominazione, la quale costituisce atto meramente ricognitivo della presenza storicamente radicata di un prodotto tipico (di norma) agroalimentare, espressivo delle tradizioni locali.
In coerenza e a conferma di ciò la legge regionale, opportunamente, prevede una clausola generale di cedevolezza che esclude in radice la possibilità di un “concorso” (e di un conflitto) di denominazioni europee e di denominazioni comunali. Infatti, il comma 4 dell’art. 1 stabilisce che non possono essere inclusi nel registro regionale telematico De.Co. i prodotti interessati da indicazioni geografiche europee (DOP, IGP e STG) e che, nel caso di riconoscimento europeo di un prodotto De.Co., la denominazione comunale «decade automaticamente». La stessa “cedevolezza” è prevista, peraltro, anche sul piano nazionale quanto alla iscrizione nell’elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali (PAT), previsto – nel contesto antecedente alla riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione (quando l’«agricoltura» era materia di competenza concorrente) – dall’art. 8 del decreto legislativo 30 aprile 1998, n. 173 (Disposizioni in materia di contenimento dei costi di produzione e per il rafforzamento strutturale delle imprese agricole, a norma dell’articolo 55, commi 14 e 15, della legge 27 dicembre 1997, n. 449).
10.– Né può ritenersi, sotto il secondo profilo, che le norme regionali impugnate introducano misure restrittive, in contrasto con la libera circolazione delle merci di cui all’art. 28 TFUE, né misure a effetto equivalente (artt. 34 e 35).
In particolare, nel riconnettere l’attestazione della tipicità del prodotto all’esser lo stesso «ottenuto o realizzato sul territorio comunale» secondo la tradizione locale, ai sensi dell’art. 2, comma 2, lettera a), della legge reg. Siciliana n. 3 del 2022 non esclude i terzi dalla possibilità di produrre il medesimo prodotto.
Il collegamento con il territorio è solo funzionale a testimoniare la tipicità e la tradizione del prodotto, ma non la sua qualità. La legge regionale essenzialmente «promuove la conoscenza […] dei comuni e dei relativi prodotti a denominazione comunale» (art. 1, comma 3) e – come già rilevato – non crea, per tali prodotti, un sistema di protezione nel mercato interno.
Anche il riferimento ai «modelli dei disciplinari di produzione da adottare per ottenere il riconoscimento di [un] prodotto a denominazione comunale», demandati al decreto dell’assessore regionale per l’agricoltura (art. 3), implica solo un mero raffronto per identificare la corrispondenza alla tradizione locale e non già un controllo sul contenuto del prodotto e sulla sua produzione in concreto, né tanto meno un controllo di qualità.
In proposito viene in rilievo la già richiamata giurisprudenza della Corte di giustizia (in particolare, sentenza 8 maggio 2014, in causa C-35/13, Assica – Kraft Foods Italia spa) secondo cui le mere attestazioni di identità territoriale o le indicazioni geografiche semplici, che non ricadono nell’ambito di applicazione del regolamento n. 1151/2021/UE, non costituiscono misure equivalenti rispetto alle restrizioni quantitative ai sensi dell’art. 34 TFUE allorché servono unicamente a informare circa l’origine geografica del prodotto e non evidenziano alcun nesso particolare tra le caratteristiche dello stesso e la sua origine geografica, nel senso che il loro scopo, in particolare, non è quello di garantire i consumatori che i prodotti recanti tali denominazioni presentano una qualità o una caratteristica determinata.
Così è per le De.Co., dove il riferimento alle «modalità consolidate nei costumi e nelle consuetudini locali» non è indicativo, appunto, delle qualità intrinseche del prodotto.
La natura di atto meramente ricognitivo della presenza storicamente radicata di un prodotto agroalimentare tipico, espressivo delle tradizioni locali, comporta di conseguenza che gli atti istitutivi delle De.Co., quali la delibera del Consiglio comunale, il regolamento comunale, il disciplinare di produzione che reca i criteri per il riconoscimento De.Co., non potranno contenere sistemi di verifica della qualità delle produzioni locali come conseguenza dell’essere esse ottenute o realizzate in quel territorio.
Come ritenuto da questa Corte in un’altra fattispecie, in cui veniva parimenti in rilievo la valorizzazione di un prodotto locale (sentenza n. 213 del 2006), anche in questa ora in esame le disposizioni impugnate non prevedono un sistema di certificazione di qualità, né istituiscono o disciplinano un marchio identificativo di un prodotto, né vengono indicate o protette particolari qualità o caratteristiche tipologiche, ma valorizzano i prodotti agricoli e tipici localizzati sul territorio comunale, sì da non determinare meccanismi economici idonei a incidere sulla concorrenzialità dei mercati.
11.– In conclusione, non essendo identificabile, nelle denominazioni comunali De.Co., né un marchio né alcun segno identificativo di protezione del prodotto, ma potendo le stesse essere qualificate come «indicazioni geografiche semplici», prive di un effetto equivalente a una restrizione quantitativa nel mercato interno, le censure mosse dal Governo con il primo motivo di ricorso non sono fondate in riferimento a tutti gli indicati parametri.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 3, 2, 3 e 4 della legge della Regione Siciliana 18 marzo 2022, n. 3 (Istituzione e disciplina del Registro regionale telematico dei Comuni e dei relativi prodotti a denominazione comunale De.Co. Modifiche alla legge regionale 28 marzo 1995, n. 22), promosse – in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, all’art. 14 del regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello statuto della Regione siciliana), convertito in legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2, e all’Accordo di Lisbona sulla protezione delle denominazioni d’origine e sulla loro registrazione internazionale del 31 ottobre 1958, ratificato con legge 28 aprile 1976, n. 424 (Ratifica ed esecuzione di accordi internazionali in materia di proprietà intellettuale, adottati a Stoccolma il 14 luglio 1967), modificato e integrato con il cosiddetto Atto di Ginevra, a cui l’Unione europea ha aderito con la decisione (UE) 2019/1754 del Consiglio del 7 ottobre 2019 – dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe;
2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 3, 2, 3 e 4 della legge reg. Siciliana n. 3 del 2022, promosse, in riferimento all’art. 117, primo comma – in relazione ai regolamenti (UE) del Parlamento europeo e del Consiglio n. 1151/2012 del 21 novembre 2012, sui regimi di qualità dei prodotti agricoli e alimentari; n. 1308/2013 del 17 dicembre 2013, recante organizzazione comune dei mercati dei prodotti agricoli; e n. 787/2019 del 17 aprile 2019, relativo alla definizione, alla designazione, alla presentazione e all’etichettatura delle bevande spiritose, all’uso delle denominazioni di bevande spiritose nella presentazione e nell’etichettatura di altri prodotti alimentari, nonché alla protezione delle indicazioni geografiche delle bevande spiritose e all’uso dell’alcol etilico e di distillati di origine agricola nelle bevande alcoliche, e che abroga il regolamento (CE) n. 110/2008 – nonché all’art. 117, commi secondo, lettera a), e terzo, Cost., e all’art. 14 del regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello statuto della Regione siciliana), convertito in legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe.