Nel caso di specie il ricorrente, responsabile del tentato furto in un supermercato, lamenta il metodo utilizzato per la determinazione della pena e il calcolo effettuato.
La Corte d'Appello di Bologna confermava la decisione di primo grado che aveva ritenuto l'imputato responsabile del tentativo di furto di merce all'interno di un supermercato.
In sede di legittimità, il ricorrente lamenta il metodo utilizzato per la determinazione della pena per il delitto tentato e il calcolo...
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 23.12.21, la Corte di Appello di Bologna confermava la sentenza emessa in data 14.01.2018 dal locale Tribunale, con la quale T.C. era ritenuto responsabile del tentativo di furto di merce all'interno di un supermercato del valore di euro 94,35 e condannato, riconosciute le circostanze attenuanti di cui all'art. 62, comma primo, cod. pen. e generiche, alla pena di mesi due e giorni venti di reclusione ed euro 134 di multa.
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l'imputato, con atto a firma dell'avv. L.B., affidando le proprie censure ad un unico motivo, con il quale deduce i vizi di violazione di legge e di motivazione, in relazione al metodo utilizzato per la determinazione della pena per il delitto tentato e al calcolo effettuato; la Corte territoriale ha ritenuto che la pena inflitta all'imputato sia stata correttamente determinata dal primo giudice, che ha operato un calcolo che parte da una pena base per il delitto contestato già nella forma del tentativo; tuttavia, il metodo utilizzato dal giudice di primo grado non è condivisibile, poiché nel caso in esame doveva essere utilizzato il metodo cd. "bifasico", individuando la pena che avrebbe dovuto applicarsi in concreto per il delitto, come se questo fosse stato consumato e, in una seconda fase, sulla pena così individuata, si sarebbe dovuta calcolare la riduzione per il tentativo; tale procedura appare più rispettosa dell'obbligo motivazionale che incombe sul giudice circa il calcolo della pena, così disposto dagli artt. 132 e 133 c.p., anche in considerazione del combinato disposto con l'art. 546 c.p.p., poiché se il giudice adotta il cd. metodo "diretto" nel determinare la pena del delitto tentato, non si avrebbe contezza né della pena base scelta dal giudice nel caso concreto, né della diminuzione in virtù dell'operatività dell'art. 56, comma 2 c.p.; tra i due criteri di calcolo, solo il criterio "bifasico" assolve davvero a tale funzione, perché, nel caso di delitto tentato, renderebbe facilmente decifrabile la pena base scelta dal giudice, nonché la relativa diminuzione per la forma tentata del delitto; nel caso di specie, la Corte di appello e il giudice di primo grado non hanno esaustivamente motivato in relazione al calcolo della pena· nel concreto applicata, omettendo di motivare anche sul perché ci si è discostati dal minimo edittale.
Motivi della decisione
Il ricorso è inammissibile, siccome manifestamente infondato.
1. Preliminarmente occorre dare atto del fatto che in data 30.12.2022 è entrato in vigore il d.lgs. n. 150 del 10 ottobre 2022 (cd. riforma Cartabia)- come da slittamento operato con l'art. 6 del d.l. n.162 del 31 ottobre 2022, mediante l'introduzione nelle disposizioni della riforma dell'art. 99-bis - e per quanto rileva in questa sede è entrato in vigore, l'art. 2, lett. i), con il quale è stato ridisegnato il regime di procedibilità del reato di furto, con la modifica del terzo comma dell'art. 624 cod. pen., che, all'esito della novella, così recita:
"Il delitto è punibile a querela della persona offesa. Si procede, tuttavia, d'ufficio se la persona offesa è incapace, per età o per infermità, ovvero se ricorre taluna delle circostanze, di cui all'artico/o 625, numeri 7, salvo che il fatto sia commesso su cose esposte alla pubblica fede, e 7-bis)".
Il nuovo regime di procedibilità a querela trova applicazione a partire appunto dall'entrata in vigore del decreto legislativo n. 150, ma anche retroattivamente, con i temperamenti dettati dall'art. 85, comma 1, in tema di disposizioni transitorie in materia di modifica del regime di procedibilità, secondo cui- "per i reati perseguibili a querela della persona offesa in base alle disposizioni del presente decreto, commessi prima della data di entrata in vigore dello stesso, il termine per la presentazione della querela decorre dalla predetta data, se la persona offesa ha avuto in precedenza notizia del fatto costituente reato".
Tale norma, dettata all'evidenza per la peculiare natura mista della querela -processuale e sostanziale, costituente, nel contempo, condizione di procedibilità e di punibilità (Sez. 5, n. 44390 del 08/06/2015, Rv. 265999), rappresenta il punto di equilibrio tra la necessaria retroattività della legge penale più favorevole all'agente (art. 2, comma 4, cod. pen.), con conseguente obbligo di immediata declaratoria di non doversi procedere estinzione del reato e la necessità di scongiurare un risultato normativo nocivo per le ragioni della persona offesa dal reato per fatto "incolpevole" dell'ampliamento del "catalogo" di reati perseguibili a querela.
1.1. Nella fattispecie in esame, il ricorrente ha dedotto la mancata proposizione della querela ad opera della p.o., ma tale circostanza non rileva, poiché, per quanto si dirà, il ricorso è inammissibile.
2. La difesa lamenta che nella determinazione della pena per il delitto tentato, il giudice di primo grado abbia utilizzato il c.d. "metodo diretto o sintetico"- calcolo questo non censurato dalla sentenza impugnata- con indicazione di una pena base di mesi sei di reclusione ed euro 154 di multa, già ridotta a norma dell'art. 56 c.p., in misura compresa tra due terzi e la metà, che il giudice non specifica, ma che chiaramente indica come operata nella determinazione appunto della pena base. Su tale quantum di pena, poi, il primo giudice ha operato la riduzione per le due circostanze attenuanti riconosciute, arrivando alla pena quantificata nella misura finale di mesi due e giorni venti di reclusione ed euro 134 di multa.
La Corte territoriale, a fronte delle analoghe censure svolte dell'imputato in appello- circa la correttezza, invece, del metodo c.d. bifasico (ossia prendendo cioè come punto di partenza la pena minima di cui all'art. 624 c.p., ossia mesi 6 e della multa in euro 154, riducendola di due terzi ex art. 56 c.p. a mesi due di reclusione e 51,30 euro di multa)- ha ritenuto corretta la determinazione del primo giudice, attraverso il metodo "diretto o sintetico", non risultando esso operato in violazione di regole o limiti.
3. Con tale valutazione, invero, la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione del principio più volte affermato da questa Corte, secondo cui la determinazione della pena, nel caso di delitto tentato, può essere indifferentemente effettuata con il cosiddetto metodo diretto o sintetico, cioè senza operare la diminuzione sulla pena fissata per la corrispondente ipotesi di delitto consumato, oppure con il calcolo bifasico, mediante scissione dei due momenti indicati, ferma la necessità del contenimento della riduzione della pena edittale prevista per il reato consumato da uno a due terzi con motivazione della scelta operata.
Nel caso di specie la pena in concreto irrogata, poi, è ben al di sotto della media edittale prevista per l'ipotesi di furto tentato e si colloca in una "fascia" che, per giurisprudenza consolidata, non impone specifici obblighi motivazionali, ancorché rispettati nel caso di specie attraverso l'espressione di un giudizio di congruità avuto riguardo agli elementi di cui all'art. 133 c.p. Questa Corte, inoltre, ha ripetutamente evidenziato che "deve ritenersi adempiuto l'obbligo di motivazione del giudice di merito sulla determinazione in concreto della misura della pena, al/archè siano indicati nella sentenza gli elementi ritenuti rilevanti o determinanti ne/l'ambito della complessiva dichiarata applicazione di tutti i criteri di cui all'art. 133 cod. pen." (Sez. 1, Sentenza n. 3155 del 25/09/2013, Rv. 258410).
L'inammissibilità del ricorso, come accennato in premessa, comporta l'irrilevanza della questione circa la mancata presentazione della querela, alla luce dei principi espressi dalle Sez. U. n. 40150 del 21/06/2018, Salatino Rv. 273551,che sebbene coniati con riferimento ai reati divenuti perseguibili a querela per effetto del d.lgs. 10 aprile 2018, n. 36 e agli effetti sui giudizi pendenti in sede di legittimità, hanno valenza generale, tenuto conto del percorso argomentativo sotteso agli stessi.
Vale la pena riportare i punti salienti della sentenza suddetta, per quello che rileva in questa sede.
3.1. All'uopo la sentenza Salatino- nel premettere che la proposizione di un atto di impugnazione non consentito dà luogo alla formazione di un giudicato che attende di essere formalizzato con le modalità previste dall'articolo 648 cod. proc. pen. e, per distinguersi da questo, viene definito "sostanziale", ma che, ciò nondimeno, produce l'effetto di rendere giuridicamente indifferenti fatti processuali come l'integrazione di cause di non punibilità precedentemente non rilevate perché non dedotte oppure integrate successivamente al giudicato stesso- ha evidenziato come, il disposto dell'art. 129 cod. proc. pen., nel rendere doveroso per il giudice rilevare in ogni stato e grado del processo una eventuale causa di non punibilità, pure coordinato con l'art. 609, comma 2, cod. proc. pen. sui poteri di ufficio della Corte di cassazione, non pone una regola in contrasto con quanto affermato, bensì un precetto che in tanto si rende operativo, in quanto abbia avuto esito positivo il previo scrutinio sulla ammissibilità dell'impugnazione: uno scrutinio che deve coniugarsi col principio dispositivo delle impugnazioni. Cioè quello che consente l'introduzione del giudizio di impugnazione esclusivamente nei limiti concretamente individuati dalle parti e nel necessario rispetto delle regole poste dal codice. Tanto più, il ricorso inammissibile preclude di procedere all'iter complesso previsto dal legislatore del 2018 per la eventuale realizzazione delle condizioni di procedibilità del reato, a querela di parte.
Già la sentenza Ricci, ponendosi nel solco di Sez. U, n. 12283 del 25/01/2005, De Rosa, Rv. 230529, ha ribadito che l'art. 129 cod. proc. pen. non riveste una valenza prioritaria rispetto alla disciplina della inammissibilità, attribuendo al giudice dell'impugnazione un autonomo spazio decisorio svincolato dalle forme e dalle regole che presidiano i diversi segmenti processuali, ma enuncia una regola di giudizio che deve essere adattata alla struttura del processo e che presuppone la proposizione di una valida impugnazione (Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015, dep. 2016, Ricci, Rv. 266818). E', in definitiva, da escludersi che, in presenza di ricorso inammissibile - e senza che si apprezzi alcuna novità normativa o sistematica atta a riaprire il dibattito sulla eventuale distinguibilità fra cause di ontologica invalidità del ricorso e cause che richiedano un meno evidente apprezzamento da parte del giudice (come nel caso di manifesta infondatezza dei motivi) - possa affermarsi che, alle condizioni suddette, il
procedimento sia "pendente". E tale affermazione non è neppure in contrasto con i diritti fondamentali sul giusto processo garantiti dalla CEDU, se si considera che, come sottolineato anche dalla sentenza Ricci, è la parte interessata ad essere onerata di attivare correttamente il rapporto processuale di impugnazione con la conseguenza che il mancato rispetto delle regole processuali paralizza i poteri cognitivi del giudice e non vengono perciò in considerazione l'equità o la razionalità del processo. Inoltre, è anche da escludere che la sopravvenienza della procedibilità a querela e, ancor prima, la procedura finalizzata all'eventuale accertamento della improcedibilità per mancanza di querela a seguito dell'esito negativo della informativa data alla persona offesa, possano essere ritenute idonee ad operare come una ipotesi di abolitio criminis, capace di prevalere sulla inammissibilità del ricorso. La sopravvenuta eventualità della improcedibilità, dovuta all'abbandono del regime di perseguimento di ufficio del reato, non opera infatti come la richiamata ipotesi abrogativa la quale è destinata ad essere rilevata anche in sede esecutiva mediante la revoca della sentenza ai sensi dell'art. 673 cod. proc. pen. e per tale ragione - essenzialmente di economia processuale - è stata ritenuta dalla giurisprudenza apprezzabile anche in fase di cognizione ed in presenza di ricorso inammissibile. È, invero, da escludere che il giudice dell'esecuzione possa revocare la condanna rilevando la mancata integrazione del presupposto di procedibilità. Ed anche nel giudizio di legittimità, la mancanza di tale condizione viene comunemente trattata come una questione di fatto, soggetta alle regole della autosufficienza del ricorso (Sez. 6, n. 44774 del 08/10/2015, Raggi, Rv. 265343) ed ai limiti dei poteri di accertamento della Cassazione (Sez. 3, n. 39188 del 14/10/2010, S., Rv. 248568), sicché non può dirsi che la declaratoria di inammissibilità del ricorso sia destinata ad essere messa in crisi da una ipotetica, incondizionata necessità di verifica dello stato della condizione di procedibilità come richiesta dalla normativa subentrata.
4. Alla luce di siffatti chiari principi, pertanto, il ricorso va dichiarato inammissibile e il ricorrente va condannato al pagamento.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.