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4 maggio 2023
Un ente pubblico può vietare ai propri dipendenti l’uso di segni visibili di appartenenza politica o religiosa sul luogo di lavoro?

Sì, ma solo a determinate condizioni. Secondo l'Avvocato Generale, se applicata in modo generale e indifferenziato, tale regola può essere giustificata dalla volontà di un Comune di organizzare un ambiente amministrativo totalmente neutro.

La Redazione

Dopo aver vietato ad una dipendente di indossare il velo islamico sul posto di lavoro, un Comune del Belgio modificava il proprio regolamento di lavoro imponendo da quel momento ai propri dipendenti di rispettare una rigorosa neutralità, vietando qualsiasi forma di proselitismo e bandendo l'uso di segni vistosi di appartenenza ideologica o religiosa. La dipendente adiva il Tribunale del Lavoro belga sostenendo che tale divieto ledeva la sua libertà di religione.
Premettendo che il divieto in questione non costituisce una discriminazione diretta basata sulle convinzioni religiose o filosofiche, ma una discriminazione indiretta basata su tali criteri, il Tribunale adito solleva il seguente interrogativo:

precisazione

«se, ai sensi della direttiva «antidiscriminazione» in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, il fatto di imporre una neutralità «esclusiva e assoluta» a tutti i dipendenti di un servizio pubblico, persino a coloro che non hanno alcun contatto diretto con gli utenti del servizio pubblico, costituisca una finalità legittima e se i mezzi impiegati per il suo conseguimento, ossia il divieto di indossare qualsiasi segno di convinzioni personali, siano appropriati e necessari».

Nelle sue conclusioni nella causa C-148/22, l'Avvocato generale Collins rileva anzitutto che il regolamento di lavoro in esame rientra nell'ambito di applicazione della Direttiva 2000/78/CE, in quanto applicazione sia al settore pubblico sia a quello privato, e che la nozione di «religione» indicata in tale direttiva ricomprende sia il fatto di avere convinzioni religiose, sia la manifestazione in pubblico della fede religiosa, come il fatto per una donna di indossare il velo islamico.

Secondo l'Avvocato generale, la direttiva lascia un margine di discrezionalità agli Stati membri, che è tanto più ampio quando sono in gioco principi che possono riguardare la loro identità nazionale. Dunque, «il fatto di prevedere restrizioni alla libertà dei dipendenti pubblici di manifestare le proprie convinzioni politiche, filosofiche o religiose nell'esercizio delle loro funzioni può essere di tale importanza in alcuni Stati membri da rientrare nell'identità nazionale insita nelle loro strutture fondamentali, politiche e costituzionali».
Ciò detto, un simile divieto previsto dal regolamento di lavoro di un ente pubblico al fine di organizzare un ambiente di lavoro amministrativo totalmente neutro, non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, ai sensi della direttiva, qualora tale divieto sia applicato in maniera generale e indiscriminata.

Per quanto riguarda la questione se tale divieto possa costituire una discriminazione indiretta, l'Avvocato generale non esclude che lo stesso, apparentemente neutro, possa in realtà colpire maggiormente una determinata categoria di persone, come le dipendenti del Comune che indossano il velo a causa della loro fede musulmana. Tuttavia, rimette tale valutazione al giudice del rinvio limitandosi ad affermare che «una tale differenza di trattamento non costituirebbe, però, una discriminazione indiretta se fosse oggettivamente giustificata da una finalità legittima e se i mezzi impiegati per conseguirla fossero appropriati e necessari».

Pertanto, conclude l'Avvocato generale, «la volontà di condurre una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa all'interno di un ente pubblico è, in termini assoluti, idonea a configurare una finalità legittima, in particolare al fine di rispettare le convinzioni filosofiche e religiose dei cittadini, nonché alla luce della necessità di un trattamento paritario e non discriminatorio degli utenti del servizio pubblico».

Spetta dunque al Comune dimostrare che tale scelta risponde a un'esigenza reale e al Tribunale del lavoro valutare la fondatezza di tale dimostrazione.