Sì, ma solo a determinate condizioni. Secondo l'Avvocato Generale, se applicata in modo generale e indifferenziato, tale regola può essere giustificata dalla volontà di un Comune di organizzare un ambiente amministrativo totalmente neutro.
Dopo aver vietato ad una dipendente di indossare il velo islamico sul posto di lavoro, un Comune del Belgio modificava il proprio regolamento di lavoro imponendo da quel momento ai propri dipendenti di rispettare una rigorosa neutralità, vietando qualsiasi forma di proselitismo e bandendo l'uso di segni vistosi di appartenenza ideologica o religiosa. La dipendente adiva il Tribunale del Lavoro belga sostenendo che tale divieto ledeva la sua libertà di religione.
Premettendo che il divieto in questione non costituisce una discriminazione diretta basata sulle convinzioni religiose o filosofiche, ma una discriminazione indiretta basata su tali criteri, il Tribunale adito solleva il seguente interrogativo:
|
«se, ai sensi della direttiva «antidiscriminazione» in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, il fatto di imporre una neutralità «esclusiva e assoluta» a tutti i dipendenti di un servizio pubblico, persino a coloro che non hanno alcun contatto diretto con gli utenti del servizio pubblico, costituisca una finalità legittima e se i mezzi impiegati per il suo conseguimento, ossia il divieto di indossare qualsiasi segno di convinzioni personali, siano appropriati e necessari». |
Nelle sue conclusioni nella causa C-148/22, l'Avvocato generale Collins rileva anzitutto che il regolamento di lavoro in esame rientra nell'ambito di applicazione della Direttiva 2000/78/CE, in quanto applicazione sia al settore pubblico sia a quello privato, e che la nozione di «religione» indicata in tale direttiva ricomprende sia il fatto di avere convinzioni religiose, sia la manifestazione in pubblico della fede religiosa, come il fatto per una donna di indossare il velo islamico.
Secondo l'Avvocato generale, la direttiva lascia un margine di discrezionalità agli Stati membri, che è tanto più ampio quando sono in gioco principi che possono riguardare la loro identità nazionale. Dunque, «il fatto di prevedere restrizioni alla libertà dei dipendenti pubblici di manifestare le proprie convinzioni politiche, filosofiche o religiose nell'esercizio delle loro funzioni può essere di tale importanza in alcuni Stati membri da rientrare nell'identità nazionale insita nelle loro strutture fondamentali, politiche e costituzionali».
Ciò detto, un simile divieto previsto dal regolamento di lavoro di un ente pubblico al fine di organizzare un ambiente di lavoro amministrativo totalmente neutro, non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, ai sensi della direttiva, qualora tale divieto sia applicato in maniera generale e indiscriminata.
Per quanto riguarda la questione se tale divieto possa costituire una discriminazione indiretta, l'Avvocato generale non esclude che lo stesso, apparentemente neutro, possa in realtà colpire maggiormente una determinata categoria di persone, come le dipendenti del Comune che indossano il velo a causa della loro fede musulmana. Tuttavia, rimette tale valutazione al giudice del rinvio limitandosi ad affermare che «una tale differenza di trattamento non costituirebbe, però, una discriminazione indiretta se fosse oggettivamente giustificata da una finalità legittima e se i mezzi impiegati per conseguirla fossero appropriati e necessari».
Pertanto, conclude l'Avvocato generale, «la volontà di condurre una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa all'interno di un ente pubblico è, in termini assoluti, idonea a configurare una finalità legittima, in particolare al fine di rispettare le convinzioni filosofiche e religiose dei cittadini, nonché alla luce della necessità di un trattamento paritario e non discriminatorio degli utenti del servizio pubblico».
Spetta dunque al Comune dimostrare che tale scelta risponde a un'esigenza reale e al Tribunale del lavoro valutare la fondatezza di tale dimostrazione.
Conclusioni dell’Avvocato Generale del 4 maggio 2023, causa C-148/22
«Rinvio pregiudiziale – Politica sociale – Direttiva 2000/78/CE – Parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro – Divieto di discriminazioni fondate sulla religione o sulle convinzioni personali – Articolo 2, paragrafo 2, lettera a) – Articolo 2, paragrafo 2, lettera b), i) – Articolo 2, paragrafo 5 – Articolo 4, paragrafo 1 – Regolamento di lavoro di un ente pubblico che vieta ai suoi dipendenti di indossare segni visibili di convinzioni politiche, filosofiche o religiose sul luogo di lavoro – Divieto per una lavoratrice di indossare il velo islamico – Principio di neutralità dello Stato»
Introduzione
1. In diversi paesi europei la questione dell’uso di segni religiosi negli spazi pubblici, negli istituti di istruzione e sul luogo di lavoro è regolarmente oggetto di un intenso dibattito nella società civile, nella politica e nei media. Una delle questioni più controverse è se un datore di lavoro abbia il diritto di imporre ai suoi dipendenti restrizioni al riguardo nell’ambito dell’esercizio delle loro funzioni. Si tratta di una questione delicata che richiede di conciliare il diritto fondamentale alla libertà di religione – che ha come corollario il divieto di qualsiasi discriminazione fondata sulla religione – con altre libertà e principi, quali la libertà d’impresa, i principi di laicità, neutralità e imparzialità, e la protezione dei diritti e delle libertà altrui.
2. Negli ultimi anni la Corte di giustizia ha più volte esaminato, alla luce del divieto di «discriminazione fondata sulla religione o le convinzioni personali» ai sensi degli articoli 1 e 2 della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (2), il caso di lavoratrici del settore privato, di fede musulmana, alle quali il datore di lavoro aveva vietato di indossare il velo islamico (3) sul posto di lavoro (4).
3. La presente domanda di pronuncia pregiudiziale, presentata dal tribunal du travail de Liège (Tribunale del lavoro di Liegi, Belgio), si iscrive nel solco di tali cause, seppur con la particolarità che, nel caso di specie, il divieto di indossare segni religiosi sul luogo di lavoro non proviene da un datore di lavoro privato, ma da un datore di lavoro pubblico, nella fattispecie un Comune. È la prima volta che la Corte è chiamata a pronunciarsi su un caso del genere, il che solleva, in particolare, la questione se la natura e le caratteristiche specifiche del servizio pubblico nonché il contesto proprio di ciascuno Stato membro impongano di adottare nella presente fattispecie una soluzione diversa da quella adottata in dette precedenti cause.
Contesto normativo
Diritto dell’Unione
4. Ai sensi del suo articolo 1, la direttiva 2000/78 mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali (5), gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento.
5. Ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, «per “principio della parità di trattamento” si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all’articolo 1» di tale direttiva.
6. L’articolo 2, paragrafo 2, della direttiva 2000/78 prevede che, ai fini dell’applicazione dell’articolo 2, paragrafo 1, di quest’ultima:
«a) sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga;
(b) sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone, a meno che:
(i) tale disposizione, tale criterio o tale prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari (...)».
7. Ai sensi del suo articolo 2, paragrafo 5, la direttiva 2000/78 lascia impregiudicate le misure previste dalla legislazione nazionale che, in una società democratica, sono necessarie alla sicurezza pubblica, alla tutela dell’ordine pubblico, alla prevenzione dei reati e alla tutela della salute e dei diritti e delle libertà altrui.
8. L’ambito di applicazione della direttiva 2000/78 è determinato dal suo articolo 3, paragrafo 1, che dispone in particolare che:
«Nei limiti dei poteri conferiti [all’Unione], la presente direttiva si applica a tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico, per quanto attiene:
(...)
(c) all’occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione;
(...)»
9. L’articolo 4 di tale direttiva, intitolato «Requisiti per lo svolgimento dell’attività lavorativa», così prevede al suo paragrafo 1:
«Fatto salvo l’articolo 2, paragrafi 1 e 2, gli Stati membri possono stabilire che una differenza di trattamento basata su una caratteristica correlata a uno qualunque dei motivi di cui all’articolo 1 non costituisca discriminazione laddove, per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato».
Diritto belga
10. La loi du 10 mai 2007 tendant à lutter contre certaines formes de discrimination (6) (legge del 10 maggio 2007 sulla lotta a talune forme di discriminazione), nella versione applicabile alla controversia principale (in prosieguo: la «legge generale contro la discriminazione») è diretta a recepire la direttiva 2000/78 nel diritto belga.
11. Ai sensi dell’articolo 3, la legge generale contro la discriminazione mira a stabilire, nelle materie menzionate al suo articolo 5, un quadro generale per combattere la discriminazione basata sull’età, sull’orientamento sessuale, sullo stato civile, sulla nascita, sul patrimonio, sulle convinzioni religiose o filosofiche, sulle convinzioni politiche, sulla lingua, sullo stato di salute attuale o futuro, su una disabilità, su una caratteristica fisica o genetica o sull’origine sociale.
12. L’articolo 4 della presente legge, che verte sulle definizioni, così dispone:
«Ai fini dell’applicazione della presente legge, si intende per:
1° rapporti di lavoro: i rapporti che comprendono, inter alia, l’occupazione, le condizioni di accesso al lavoro, le condizioni di lavoro e le norme sul licenziamento, e questo:
– sia nel settore pubblico che nel settore privato;
(...)
4° criteri tutelati: l’età, l’orientamento sessuale, lo stato civile, la nascita, il patrimonio, le convinzioni religiose, filosofiche o politiche, la lingua, lo stato di salute attuale o futuro, una disabilità, una caratteristica fisica o genetica, l’origine sociale;
(...)
6° distinzione diretta: la situazione che si verifica allorché, sulla base di uno dei criteri tutelati, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra persona in una situazione analoga;
7° discriminazione diretta: distinzione diretta, fondata su uno dei criteri tutelati, che non può essere giustificata sulla base delle disposizioni del titolo II;
8° distinzione indiretta: la situazione che si verifica allorché una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono comportare un particolare svantaggio per le persone caratterizzate da uno dei criteri tutelati rispetto alle altre;
9° discriminazione indiretta: distinzione indiretta, fondata su uno dei criteri tutelati, che non può essere giustificata sulla base delle disposizioni del titolo II;
(...)»
13. L’articolo 5, paragrafo 1, della legge generale contro la discriminazione dispone che, ad eccezione delle materie di competenza delle comunità o delle regioni, tale legge si applica a tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico per quanto riguarda, in particolare, i rapporti di lavoro.
14. L’articolo 7 di tale legge (7) così recita:
«Ogni distinzione diretta basata su uno dei criteri tutelati costituisce discriminazione diretta, a meno che tale distinzione diretta sia oggettivamente giustificata da una finalità legittima e che i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari».
15. L’articolo 8 della legge generale contro la discriminazione stabilisce quanto segue:
«§ 1. In deroga all’articolo 7, e fatte salve le altre disposizioni del presente titolo, una distinzione diretta basata sull’età, sull’orientamento sessuale, sulle convinzioni religiose o filosofiche, o su una disabilità nei settori di cui all’articolo 5, paragrafo 1, punti 4°, 5° e 7°, può essere giustificata unicamente da requisiti professionali essenziali e determinanti.
§ 2. Un requisito professionale essenziale e determinante può sussistere unicamente laddove:
una particolare caratteristica relativa all’età, all’orientamento sessuale, alle convinzioni religiose o filosofiche o alla disabilità sia essenziale e determinante in ragione della natura delle specifiche attività lavorative interessate o del contesto in cui esse vengono espletate, e;
il requisito si basi su una finalità legittima e sia proporzionato in rapporto ad essa.
§ 3. Spetta al giudice verificare, caso per caso, se tale determinata caratteristica costituisca un requisito professionale essenziale e determinante.
(...)».
16. L’articolo 9 di tale legge così prevede:
«Qualsiasi distinzione indiretta fondata su uno dei criteri tutelati costituisce una discriminazione indiretta,
a meno che la disposizione, il criterio o la prassi apparentemente neutri su cui si basa la distinzione indiretta siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari;
(...)».
17. Ai sensi dell’articolo 11, paragrafo 1, della legge generale contro la discriminazione, «[u]na distinzione diretta o indiretta sulla base di uno dei criteri tutelati non si configura come una forma di discriminazione vietata dalla presente legge se tale distinzione diretta o indiretta è imposta da o in base a una legge».
Procedimento principale e questioni pregiudiziali
18. L’11 aprile 2016 OP, giurista di formazione, è stata assunta con un contratto a tempo determinato dal Comune di Ans (Belgio) (in prosieguo: il «Comune») come agente a contratto. L’11 ottobre successivo è stata promossa alla posizione di responsabile dell’ufficio e il suo contratto è stato convertito in un contratto a tempo indeterminato. Il suo compito è quello di gestire gli appalti pubblici del Comune e svolge le sue funzioni principalmente senza essere a contatto con il pubblico, ossia, per riprendere l’espressione usata dal giudice del rinvio, «in back office» (8).
19. L’8 febbraio 2021, OP, che è di fede musulmana, ha comunicato ufficialmente al Comune la sua intenzione di indossare il velo islamico sul luogo di lavoro a partire dal 22 febbraio successivo.
20. Il 18 febbraio 2021, il Comune ha adottato una prima decisione che vietava a OP di indossare «segni di convinzioni personali» (9) nell’esercizio della sua attività professionale «sino all’adozione di un regolamento generale sull’uso dei segni di convinzioni personali all’interno dell’amministrazione» (10).
21. Il 26 febbraio 2021, dopo aver sentito OP, assistita dal suo consulente, il Comune ha adottato una seconda decisione, che sostituisce la prima e conferma il divieto in essa contenuto.
22. Il 29 marzo 2021, il Comune ha modificato l’articolo 9 del suo regolamento di lavoro. Nella sua nuova versione risultante da tale modifica, tale articolo, ora intitolato «Obbligo di neutralità e dovere di riservatezza», prevede, in particolare, quanto segue (11):
«Il lavoratore ha libertà di espressione nel rispetto del principio di neutralità, del proprio obbligo di riservatezza e del proprio dovere di lealtà.
Il lavoratore è tenuto a rispettare il principio di neutralità, il che implica il dovere di astenersi da qualsiasi forma di proselitismo e il divieto di esibire qualsiasi segno vistoso che possa rivelare la sua appartenenza ideologica o filosofica o le sue convinzioni politiche o religiose. Tale regola si applica al lavoratore sia nell’ambito dei suoi contatti con il pubblico sia nei suoi rapporti con i suoi superiori e i suoi colleghi.
(...)».
23. Successivamente, OP ha avviato diversi procedimenti dinanzi ai giudici nazionali, in particolare al fine di far constatare la violazione della sua libertà di religione da parte del Comune e per ottenere la sospensione e l’annullamento delle decisioni di quest’ultimo del 18 e del 26 febbraio 2021.
24. Il 26 maggio 2021, OP ha adito il giudice del rinvio, il tribunal du travail de Liège (Tribunale del lavoro di Liegi) con un’azione inibitoria (12), chiedendo, in particolare, di constatare l’esistenza di una discriminazione nei suoi confronti fondata sulla religione e sul genere e la nullità delle decisioni del Comune del 18 e del 26 febbraio 2021 nonché della norma di cui trattasi nel procedimento principale.
25. Il giudice del rinvio considera il divieto imposto a OP dal Comune, in tali decisioni, di indossare il velo islamico come una «discriminazione diretta fondata su una distinzione diretta su[lla] base del criterio tutelato “convinzione religiosa o filosofica”». Infatti, secondo tale giudice, sebbene si possa ammettere che esisteva una regola non scritta all’interno dell’amministrazione comunale che vietava di indossare qualsiasi segno «molto vistoso, se non addirittura ostentativo» di convinzioni personali, come il velo islamico, da diverse fotografie prodotte da OP risulta che l’uso di segni discreti di convinzioni personali era tollerato. Tale distinzione diretta non risulterebbe giustificata da requisiti professionali essenziali e determinanti, dal momento che OP esercita prevalentemente le sue funzioni senza essere a contatto con gli utenti del servizio pubblico. Né essa sarebbe oggettivamente giustificata da una finalità legittima i cui mezzi di attuazione sarebbero appropriati e necessari.
26. Per quanto riguarda la norma di cui trattasi nel procedimento principale, il giudice del rinvio rileva che essa ha una «portata collettiva», relativa a qualsiasi segno vistoso di convinzioni personali e che, adottandola, il Comune ha scelto la «neutralità esclusiva» (13). Esso ritiene che tale norma non costituisca una discriminazione diretta basata sulla religione o sulle convinzioni personali, bensì, a ben vedere, una discriminazione indiretta fondata su tali criteri, osservando in particolare che – a meno che non si reputi che «la neutralità esclusiva sia un principio fondamentale e incontestabile dello Stato di diritto [in Belgio] e debba essere rigorosamente rispettata da tutti» – la distinzione operata non sembra essere giustificata da una finalità legittima, dal momento che OP svolge principalmente le sue funzioni senza essere in contatto con gli utenti del servizio pubblico. Inoltre, sembrerebbe che il Comune pratichi una neutralità «a geometria variabile», ossia esclusiva nei confronti di OP e più inclusiva nei confronti dei suoi colleghi con altre convinzioni filosofiche o religiose. Di conseguenza, il giudice del rinvio autorizza provvisoriamente OP a indossare un segno visibile di convinzioni personali, tranne quando è a contatto con gli utenti del servizio pubblico o quando esercita funzioni di autorità.
27. Il giudice del rinvio chiede se l’imposizione di una neutralità «esclusiva e assoluta» a tutti i dipendenti di un servizio pubblico, inclusi coloro che non hanno un contatto diretto con gli utenti del servizio pubblico, costituisca una finalità legittima e se i mezzi impiegati per il suo conseguimento, ossia il divieto di indossare qualsiasi segno di convinzioni personali, siano appropriati e necessari.
28. In tale contesto, il tribunal du travail de Liège (Tribunale del lavoro di Liegi) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Se l’articolo 2, paragrafo 2, lettere a) e b), della direttiva [2000/78] possa essere interpretato nel senso che autorizza una pubblica amministrazione a organizzare un ambiente amministrativo totalmente neutro e a vietare pertanto a tutti i membri del personale, a prescindere dal fatto che siano o meno a diretto contatto con il pubblico, di indossare segni di convinzioni personali.
2) Se l’articolo 2, paragrafo 2, lettere a) e b), della direttiva [2000/78] possa essere interpretato nel senso che autorizza una pubblica amministrazione a organizzare un ambiente amministrativo totalmente neutro e a vietare pertanto a tutti i membri del personale, a prescindere dal fatto che siano o meno a diretto contatto con il pubblico, di indossare segni di convinzioni personali, benché tale divieto neutro sembri colpire in maggioranza le donne, potendo dunque costituire una discriminazione dissimulata fondata sul genere».
29. OP, il Comune, i governi belga, francese e svedese nonché la Commissione europea hanno presentato osservazioni scritte. Il 31 gennaio 2023 si è tenuta un’udienza alla quale hanno partecipato OP, il Comune, il governo francese e la Commissione, durante la quale sono state ascoltate le memorie di queste ultime parti e le loro risposte ai quesiti posti dalla Corte.
Analisi
30. Esaminerò innanzitutto la seconda questione pregiudiziale, la cui ricevibilità è contestata dal governo francese e la cui rilevanza è contestata dalla maggior parte delle parti del procedimento.
Sulla seconda questione pregiudiziale
31. Con la sua seconda questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se la norma di cui trattasi nel procedimento principale possa essere considerata conforme all’articolo 2, paragrafo 2, lettere a) e b), della direttiva 2000/78, laddove il divieto da essa previsto sembra colpire le donne più degli uomini e può quindi costituire una discriminazione indiretta basata sul genere.
32. Secondo una giurisprudenza costante, il procedimento istituito dall’articolo 267 TFUE costituisce uno strumento di cooperazione tra la Corte e i giudici nazionali, per mezzo del quale la prima fornisce ai secondi gli elementi di interpretazione del diritto dell’Unione che sono loro necessari per la soluzione delle controversie che sono chiamati a dirimere (14).
33. La necessità di pervenire a un’interpretazione del diritto dell’Unione che sia utile per il giudice nazionale impone che quest’ultimo definisca il contesto di fatto e di diritto nel quale si inseriscono le questioni da esso sollevate o che, quantomeno, illustri le ipotesi di fatto su cui tali questioni sono fondate. Infatti, la Corte può pronunciarsi esclusivamente sull’interpretazione di un testo dell’Unione a partire dai fatti ad essa presentati dal giudice nazionale (15).
34. Peraltro, la Corte ribadisce l’importanza dell’indicazione, ad opera del giudice nazionale, dei motivi precisi che l’hanno indotto ad interrogarsi sull’interpretazione del diritto dell’Unione e a ritenere necessaria la presentazione di questioni pregiudiziali alla Corte. È indispensabile che il giudice nazionale, nella stessa decisione di rinvio, fornisca un minimo di spiegazioni in merito alle ragioni della scelta delle disposizioni del diritto dell’Unione di cui chiede l’interpretazione, nonché al collegamento che esso stabilisce tra tali disposizioni e la normativa nazionale applicabile alla controversia di cui è investito (16).
35. Nel caso di specie, concordo con il governo francese, secondo il quale la decisione di rinvio non soddisfa tali requisiti per quanto riguarda la seconda questione pregiudiziale, cosicché quest’ultima è irricevibile.
36. Infatti, da un lato, la decisione di rinvio non contiene il minimo elemento di fatto che consenta di valutare l’esistenza, nella presente causa, di un’eventuale discriminazione indiretta fondata sul genere.
37. Dall’altro lato, il giudice del rinvio non fornisce alcuna spiegazione sulle ragioni che l’hanno condotto a interrogarsi sull’interpretazione delle disposizioni del diritto dell’Unione cui fa riferimento in relazione alla seconda questione pregiudiziale e sul collegamento che esso stabilisce tra tali disposizioni e la controversia di cui è investito, per quanto riguarda una tale discriminazione. Dalla decisione di rinvio risulta che al riguardo esso si sia basato unicamente su alcuni argomenti avanzati da OP, e ciò senza meglio specificarli. Orbene, il sistema istituito dall’articolo 267 TFUE non costituisce un mezzo di ricorso a disposizione delle parti di una controversia pendente dinanzi a un giudice nazionale, né è sufficiente che una parte sostenga che la controversia verte su una questione di interpretazione del diritto dell’Unione perché l’organo giurisdizionale interessato sia tenuto a considerare che una tale questione è stata sollevata ai sensi di tale articolo (17).
38. In ogni caso, occorre rilevare, come indicato nelle loro osservazioni scritte da tutte le parti del procedimento, ad eccezione del Comune, che la discriminazione fondata sul genere non rientra nell’ambito di applicazione della direttiva 2000/78, che è l’unico atto del diritto dell’Unione a cui fa riferimento la seconda questione pregiudiziale. Pertanto, nel caso di specie non è necessario esaminare l’esistenza di una siffatta discriminazione (18).
39. Alla luce di quanto sopra, propongo alla Corte di dichiarare che la seconda questione pregiudiziale è irricevibile e che, in ogni caso, non è necessario esaminarla.
Sulla prima questione
Osservazioni preliminari
40. Con la sua prima questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se la norma di cui trattasi nel procedimento principale dia origine a una discriminazione diretta o indiretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, in violazione dell’articolo 2, paragrafo 2, lettere a) e b), della direttiva 2000/78. Nella sua formulazione, il divieto previsto da tale norma di indossare segni di convinzioni personali sul luogo di lavoro si applica in modo generale e assoluto ai dipendenti del Comune, ovvero a prescindere tanto dalla natura delle loro funzioni (funzioni di responsabilità o di mera esecuzione) quanto dalle condizioni di esercizio delle stesse (a diretto contatto con il pubblico o meno). È importante rilevare che il giudice del rinvio non chiede alla Corte di valutare la compatibilità di tale norma di portata generale con le citate disposizioni della direttiva 2000/78 operando una distinzione in base a tali ultime ipotesi. Ciò che esso vuole sapere è se tale direttiva possa essere interpretata nel senso che autorizza un ente pubblico a organizzare un «ambiente amministrativo totalmente neutro» e a vietare pertanto a «tutti i membri del personale, a prescindere dal fatto che siano o meno a diretto contatto con il pubblico» di indossare segni del genere.
41. Inoltre, ritengo utile ricordare alcuni elementi che possono essere dati per scontati alla luce della giurisprudenza e che sono rilevanti ai fini della presente causa.
42. Innanzi tutto, è evidente che la norma di cui trattasi nel procedimento principale rientra nell’ambito di applicazione della direttiva 2000/78. Da un lato, come risulta dal suo articolo 3, paragrafo 1, tale direttiva si applica sia al settore pubblico che al settore privato. Dall’altro lato, una norma che vieta di portare segni visibili di convinzioni segnatamente filosofiche o religiose, nell’ambito dell’attività lavorativa dev’essere considerata come rientrante nell’ambito dell’«occupazione e [delle] condizioni di lavoro» ai sensi della lettera c) di tale disposizione.
43. Inoltre, la nozione di «religione» di cui all’articolo 1 della direttiva 2000/78 deve essere interpretata nel senso che ricomprende sia il forum internum, ossia il fatto di avere convinzioni religiose, sia il forum externum, ossia la manifestazione in pubblico della fede religiosa (19). Il fatto, per una donna, di indossare il velo islamico costituisce un’espressione della sua appartenenza alla religione musulmana. Nel caso di specie, dai fatti esposti dal giudice del rinvio emerge che tale è precisamente il caso di OP, le cui convinzioni personali non possono essere tacciate di insincerità.
44. Infine, va ricordato che la direttiva 2000/78 si limita a stabilire un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro che lascia un margine di discrezionalità agli Stati membri, tenuto conto della diversità dei loro approcci quanto al ruolo che essi attribuiscono, al loro interno, alla religione o alle convinzioni personali. Essa consente quindi di tenere conto del contesto specifico di ciascuno Stato membro e di riconoscere a ciascuno di essi un margine di discrezionalità nell’ambito della necessaria conciliazione dei diversi diritti e interessi in gioco, al fine di assicurare un giusto equilibrio tra questi ultimi (20).
45. In linea con le considerazioni esposte al paragrafo precedente, condivido l’opinione del governo francese secondo cui tale margine di discrezionalità è ancora più ampio quando sono in gioco principi che possono riguardare l’identità nazionale degli Stati membri ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 2, TUE (21). Ai sensi di tale disposizione, l’Unione ha il dovere di rispettare l’identità nazionale degli Stati membri, che è insita nelle loro strutture fondamentali, politiche e costituzionali, il che, secondo l’avvocato generale Kokott, può essere inteso come un obbligo di rispettare la pluralità di concezioni, e, pertanto, le differenze che caratterizzano ogni Stato membro (22). In linea con l’avvocato generale Emiliou (23), a mio avviso non spetta all’Unione determinare, per ciascuno Stato membro, gli elementi che fanno parte del nucleo dell’identità nazionale di cui all’articolo 4, paragrafo 2, TUE. Gli Stati membri dispongono, al riguardo, di un potere discrezionale ampio, ma non illimitato (24). Inoltre, la concezione dell’identità nazionale invocata da uno Stato membro deve essere conforme, in particolare, ai valori fondamentali dell’Unione (articolo 2 TUE) (25).
46. A tale proposito, senza voler anticipare, a questo stadio, se ciò avvenga nel caso di specie, sono d’accordo con il governo francese anche quando sostiene che il fatto di prevedere restrizioni alla libertà dei dipendenti pubblici di manifestare le proprie convinzioni politiche, filosofiche o religiose nell’esercizio delle loro funzioni può essere di tale importanza in alcuni Stati membri da rientrare nell’identità nazionale insita nelle loro strutture fondamentali, politiche e costituzionali.
47. Nello stesso contesto, ritengo parimenti utile sottolineare che l’identità nazionale consente, in particolare, di «limitare l’impatto del diritto dell’Unione in settori ritenuti essenziali per gli Stati membri» (26) e che, pertanto, essa deve essere presa debitamente in considerazione dalle istituzioni, dagli organi e dagli organismi dell’Unione in sede di interpretazione e applicazione del diritto dell’Unione (27).
48. La mia risposta alla prima questione pregiudiziale sarà strutturata come segue. Innanzi tutto, esaminerò se la norma di cui trattasi nel procedimento principale sia di natura tale da costituire una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali. Poi, analizzerò la questione se tale norma sia idonea a creare una discriminazione indiretta fondata su quegli stessi criteri. Infine, sebbene tale aspetto non sia stato espressamente menzionato nella decisione di rinvio, valuterò la possibilità di applicare nel caso di specie talune deroghe al divieto di tali discriminazioni previste dalla direttiva 2000/78.
Sull’esistenza di una discriminazione diretta
49. Il giudice del rinvio, facendo riferimento alla sentenza G4S Secure Solutions, ritiene che la norma di cui trattasi nel procedimento principale non costituisca una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali. Esso chiede tuttavia alla Corte di pronunciarsi su tale punto.
50. Nella causa che ha dato origine a tale sentenza, alla Corte è stata posta la questione se una norma interna di un’impresa privata che vieta in generale di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro costituisca una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78 (28). In tale sentenza, la Corte ha dichiarato che una norma del genere non istituisce una siffatta discriminazione ove riguardi indifferentemente qualsiasi manifestazione di tali convinzioni e tratti in maniera identica tutti i dipendenti dell’impresa, imponendo loro, in maniera generale e indiscriminata, segnatamente una neutralità di abbigliamento che osta al fatto di indossare tali segni (29).
51. La Corte ha confermato tale approccio nella sentenza WABE e MH Müller Handel e nella sentenza S.C.R.L., aggiungendo che, poiché ogni persona può avere una religione oppure convinzioni religiose, filosofiche o spirituali, una norma di tal genere, a condizione che sia applicata in maniera generale e indiscriminata, non istituisce una differenza di trattamento fondata su un criterio inscindibilmente legato alla religione o a tali convinzioni personali (30). Nella sentenza WABE e MH Müller Handel, la Corte ha anche osservato che la circostanza che taluni lavoratori seguano determinati precetti religiosi che impongono un particolare abbigliamento non è tale da mettere in discussione tali valutazioni. Secondo la Corte, benché sia vero che una norma interna che impone una neutralità di abbigliamento è idonea ad arrecare disagi a tali lavoratori, detta circostanza non incide tuttavia in alcun modo sulla constatazione in base alla quale tale medesima norma non istituisce, in linea di principio, una differenza di trattamento tra lavoratori basata su un criterio inscindibilmente legato alla religione o alle convinzioni personali (31).
52. Al pari del Comune e del governo francese, condivido pienamente l’approccio adottato dalla Corte in tali sentenze e non vedo alcun motivo per discostarsene nel caso di specie che, come è già stato osservato, riguarda il settore pubblico e non quello privato.
53. Pertanto, poiché la norma interna di cui trattasi nel procedimento principale riguarda qualsiasi manifestazione di convinzioni personali, in particolare religiose, senza distinzione alcuna, occorre considerare che essa tratta in maniera identica tutti i dipendenti del Comune, imponendo loro, in maniera generale e indiscriminata, segnatamente una neutralità di abbigliamento che osta al fatto di indossare tali segni. Una norma del genere non istituisce pertanto una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78.
54. Tuttavia, si dovrebbe constatare una siffatta discriminazione se la norma di cui trattasi nel procedimento principale dovesse essere intesa come riguardante solo l’uso di segni vistosi di grandi dimensioni di convinzioni segnatamente filosofiche o religiose, tra i quali, a mio avviso, potrebbe rientrare il velo islamico. Infatti, come la Corte ha già dichiarato, una norma interna di un’impresa che vieti soltanto di indossare tali segni vistosi può costituire una discriminazione diretta ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78, qualora tale criterio sia inscindibilmente legato a una o più religioni o convinzioni personali determinate (32). La norma di cui trattasi nel procedimento principale si riferisce a qualsiasi segno «vistoso», termine che, a mio avviso, il giudice del rinvio equipara correttamente a quello di «visibile», e non sembra quindi limitarsi ai segni vistosi di grandi dimensioni, punto che spetta al giudice del rinvio verificare.
55. Spetta inoltre al giudice del rinvio verificare se, in pratica, il Comune applichi davvero la norma di cui trattasi nel procedimento principale in maniera generale e indiscriminata e, in particolare, se tratti OP alla stregua di qualsiasi altro dipendente che abbia manifestato la propria religione o le proprie convinzioni filosofiche o religiose indossando segni visibili di convinzioni personali. Noto, infatti, che nella decisione di rinvio, tale giudice rileva che il Comune «pratica una neutralità a geometria variabile nello spazio e nel tempo, esclusiva nei confronti di OP, e meno esclusiva, o più inclusiva, per i suoi colleghi con altre convinzioni personali», e che quest’ultima ha fornito al riguardo «elementi probatori sufficienti». Nelle loro osservazioni scritte, OP e il governo svedese sostengono che vi sono quindi motivi per concludere che nella fattispecie vi sia stata una discriminazione diretta.
56. Alla luce di tali considerazioni, propongo alla Corte di rispondere, in un primo tempo, alla prima questione pregiudiziale, dichiarando che l’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel senso che una disposizione di un regolamento di lavoro di un ente pubblico che vieti ai dipendenti, al fine di organizzare un ambiente amministrativo totalmente neutro, di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi segno visibile di convinzioni politiche, filosofiche o religiose non costituisce, nei confronti dei dipendenti che intendano esercitare la propria libertà di religione e di coscienza indossando un segno o un indumento visibile avente una connotazione religiosa, una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, ai sensi di tale direttiva, ove tale disposizione sia applicata in maniera generale e indiscriminata.
Sull’esistenza di una discriminazione indiretta
57. Il giudice del rinvio ritiene che la norma di cui trattasi nel procedimento principale crei una discriminazione indiretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali.
58. Secondo una giurisprudenza consolidata, una norma interna come quella di cui trattasi nel procedimento principale può istituire una differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78, qualora venga dimostrato che l’obbligo apparentemente neutro che essa contiene comporta, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia (33).
59. A mio avviso, e come hanno sostenuto il governo svedese e la Commissione, sebbene la norma di cui trattasi nel procedimento principale sia apparentemente neutra, non si può escludere che, in pratica, essa colpisca in particolare i dipendenti del Comune che osservano determinati precetti religiosi che impongono un particolare abbigliamento, e segnatamente le lavoratrici che indossano il velo a causa della loro fede musulmana. Al riguardo, concordo con l’osservazione formulata dall’avvocato generale Sharpston nelle sue conclusioni nella causa Bougnaoui e ADDH, secondo cui tali dipendenti, «[q]ualora [volessero restare] fedeli alle loro convinzioni religiose, non avrebbero altra scelta se non violare la norma e subirne le conseguenze» (34). Tuttavia, spetta in ultima analisi al giudice del rinvio accertare tale punto alla luce dei fatti per i quali è stato adito (35).
60. Ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), i), della direttiva 2000/78, una tale differenza di trattamento non costituirebbe tuttavia una discriminazione indiretta ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), di tale direttiva, se fosse oggettivamente giustificata da una finalità legittima e se i mezzi impiegati per il suo conseguimento fossero appropriati e necessari. Tali condizioni devono essere interpretate in modo restrittivo (36).
61. Anche in tal caso spetta al giudice del rinvio stabilire se ed entro quali limiti la norma di cui trattasi nel procedimento principale sia conforme a dette condizioni (37). Tuttavia, la Corte, chiamata a fornire a tale giudice una risposta utile che gli permetta di statuire, è competente a fornirgli indicazioni tratte dagli atti come pure dalle osservazioni scritte di cui dispone (38). È questo l’aspetto su cui mi soffermerò nelle seguenti considerazioni.
Sull’esistenza di una finalità legittima
62. Per quanto riguarda la condizione relativa all’esistenza di una finalità legittima (39), dalla decisione di rinvio e dalle osservazioni scritte e orali del Comune risulta che quest’ultimo giustifica il divieto di indossare segni di convinzioni politiche, filosofiche o religiose imposto ai suoi dipendenti nell’esercizio delle loro funzioni con il principio di neutralità dello Stato (o del servizio pubblico) (40) e con la sua volontà di organizzare uno «spazio amministrativo totalmente neutro» (41).
63. Come quasi tutte le parti del procedimento, ritengo che la volontà di un ente pubblico, come il Comune, di condurre una politica di neutralità politica, filosofica o religiosa sia, in termini assoluti, idonea a configurare una finalità legittima.
64. Certamente, a differenza di quanto statuito dalla Corte nelle sentenze G4S Secure Solutions, WABE e MH Müller Handel, e S.C.R.L. (42), in un caso come quello in esame, che riguarda il settore pubblico e non quello privato, la volontà del datore di lavoro pubblico di condurre una simile politica non può riguardare la libertà d’impresa, riconosciuta dall’articolo 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (43). Per contro, a mio avviso, essa potrebbe, più in generale, essere messa in connessione con la necessità di tutelare i diritti e le libertà altrui, il che implica, in particolare, il rispetto di tutte le convinzioni filosofiche o religiose dei cittadini nonché il trattamento non discriminatorio e su un piano di parità degli utenti del servizio pubblico. Come sottolinea il governo belga nelle sue osservazioni scritte, riproducendo un passaggio di una sentenza del Conseil d’État (Consiglio di Stato, Belgio) del 27 marzo 2013, in uno Stato democratico di diritto, l’autorità pubblica deve essere neutrale «perché è l’autorità di tutti i cittadini e per tutti i cittadini e deve, in linea di principio, trattarli in modo uguale senza discriminazioni basate sulla loro religione, sulle loro convinzioni personali o sulla loro preferenza per una comunità o un partito» (44).
Sull’esistenza di una giustificazione oggettiva
65. Occorre esaminare se la volontà del datore di lavoro pubblico, nel caso di specie il Comune, di condurre una politica di neutralità sia in grado di giustificare in maniera oggettiva una potenziale differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali. A tale proposito, la giurisprudenza della Corte, sviluppata in relazione al settore privato (45), secondo cui il carattere oggettivo di una siffatta giustificazione può ravvisarsi solo a fronte di un’esigenza reale di tale datore di lavoro, che spetta a quest’ultimo dimostrare, mi sembra del tutto pertinente anche nel presente contesto.
66. Dalle osservazioni scritte della Commissione nonché dalle discussioni svoltesi in udienza emerge che in Belgio coesistono concezioni diverse, se non addirittura opposte, del principio di neutralità dello Stato, consistenti, in sostanza, nella «neutralità inclusiva», nella «neutralità esclusiva» e in concezioni intermedie. La concezione inclusiva della neutralità si basa sull’idea che l’aspetto del dipendente pubblico debba essere dissociato dal modo in cui fornisce il servizio pubblico. Secondo tale concezione, ciò che importa è la neutralità degli atti compiuti dal dipendente, e non il suo aspetto, cosicché non gli si può vietare di indossare segni di convinzioni segnatamente filosofiche o religiose. Per contro, la concezione esclusiva della neutralità si basa sul presupposto che tanto gli atti compiuti dal dipendente pubblico quanto l’aspetto di quest’ultimo debbano essere rigorosamente neutri. Secondo tale concezione, a tutti i dipendenti pubblici deve essere vietato esporre segni del genere sul posto di lavoro, indipendentemente dalla natura delle loro funzioni e dal contesto in cui esse vengono svolte. Esistono anche concezioni intermedie della neutralità, che si collocano a metà strada tra le due concezioni sopra descritte. Esse consistono, ad esempio, nel riservare un tale divieto ai dipendenti che sono a diretto contatto con il pubblico o a coloro che esercitano funzioni di responsabilità, in contrapposizione alle semplici funzioni esecutive.
67. Nel caso di specie, come espressamente rilevato dal giudice del rinvio, il Comune, nell’adottare la norma di cui trattasi nel procedimento principale, ha volontariamente optato per la «neutralità esclusiva», e ciò al fine di istituire uno «spazio amministrativo totalmente neutro» (46). Dalla decisione di rinvio emerge chiaramente che, per giustificare quest’ultima finalità, il Comune si limita essenzialmente a fare riferimento a un’«esigenza sociale imperativa», di cui tenta di dimostrare l’esistenza solo con affermazioni lapidarie e astratte (47).
68. A mio avviso, il giudice del rinvio dovrebbe valutare da due punti di vista, alternativi e non necessariamente cumulativi, se il Comune, sul quale grava l’onere della prova al riguardo (48), dimostri adeguatamente che la sua scelta di adottare una concezione esclusiva del principio di neutralità dello Stato risponde a un’esigenza reale.
69. In primo luogo, la questione andrebbe esaminata da un punto di vista giuridico. A tale proposito, poiché non spetta alla Corte prendere posizione sul diritto nazionale, né tantomeno arbitrare tra le diverse interpretazioni di una nozione o di un principio di diritto nazionale e stabilire quale di tali interpretazioni sia corretta, limiterò le mie seguenti osservazioni ad alcune considerazioni che emergono dagli atti e dagli interventi in udienza.
70. In tal senso, constato che nessuna delle parti del procedimento ha fatto riferimento a una normativa nazionale che obbligherebbe il Comune ad adottare una concezione esclusiva di neutralità e, di conseguenza, a imporre ai suoi dipendenti un divieto assoluto di indossare segni di convinzioni segnatamente filosofiche o religiose nell’esercizio delle loro funzioni.
71. Sembra inoltre che il principio di neutralità dello Stato, sebbene sia generalmente qualificato come un principio costituzionale, non sia sancito come tale dalla Costituzione belga, ad eccezione del settore molto specifico dell’istruzione, e, soprattutto, che la sua portata e il suo ambito non siano definiti in modo chiaro e uniforme nell’ordinamento giuridico belga. Ciò mi induce a ritenere che tale principio non imponga di per sé il divieto per i dipendenti pubblici di indossare segni di convinzioni segnatamente filosofiche o religiose sul luogo di lavoro, né escluda la possibilità di un tale divieto.
72. L’osservazione che precede mi porta anche a ritenere che, contrariamente a quanto sostenuto dal governo francese, l’articolo 4, paragrafo 2, TUE non abbia alcun ruolo particolare da svolgere nel caso di specie. L’apparente assenza in Belgio di una definizione costituzionale della portata e del contenuto del principio di neutralità dello Stato, unitamente al fatto che il governo belga non ha ritenuto utile né proporre una risposta alla prima questione pregiudiziale, preferendo rimettersi al riguardo alla saggezza della Corte, né partecipare all’udienza, sembra indicare che tale principio, almeno nella sua concezione esclusiva, non fa parte dell’identità nazionale, ai sensi di tale disposizione, del Regno del Belgio.
73. In secondo luogo, occorrerebbe verificare se la scelta del Comune di applicare una concezione esclusiva della neutralità dello Stato sia giustificata da elementi di fatto. Al riguardo, rilevo che nelle sue osservazioni scritte la Commissione afferma che tale concezione non è condivisa da tutti i comuni belgi, citando come esempi le città di Gand (Belgio) e di Mechelen (Belgio), che autorizzano senza riserve i dipendenti delle loro amministrazioni ad indossare segni di convinzioni segnatamente filosofiche o religiose sul luogo di lavoro, e che in udienza nessuna parte l’ha contraddetta su tale punto. Non si può escludere che tale soluzione non possa essere trasposta al Comune a causa, ad esempio, dell’eventuale esistenza, sul suo territorio, di forti tensioni tra comunità o di gravi problemi sociali o, all’interno della sua stessa amministrazione, di atti di proselitismo o di un rischio concreto di conflitti tra dipendenti legati a convinzioni del genere. A tale proposito, ribadisco che spetta al Comune fornire prove concrete di tali elementi e al giudice del rinvio statuire sulla loro rilevanza.
Sull’appropriatezza e sulla necessità dei mezzi di attuazione della finalità legittima
74. Se, alla luce delle indicazioni fornite nei paragrafi precedenti delle presenti conclusioni, il giudice del rinvio dovesse concludere che la volontà del Comune di istituire uno «spazio amministrativo totalmente neutro» conducendo una politica di neutralità esclusiva è idonea a giustificare oggettivamente una differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, esso dovrebbe ancora valutare se il divieto previsto dalla norma di cui trattasi nel procedimento principale sia appropriato e necessario per il conseguimento di tale finalità.
75. Per quanto riguarda il primo di tali requisiti, mi sembra indiscutibile che se tutti i dipendenti del Comune dovessero svolgere le loro funzioni senza mostrare segni visibili di convinzioni segnatamente filosofiche o religiose, ciò contribuirebbe ad attuare la politica di esclusiva neutralità che quest’ultimo ha scelto di perseguire. Tuttavia, resterebbe ancora da esaminare se tale politica sia realmente applicata in modo coerente e sistematico (49). Orbene, come ho già rilevato al paragrafo 55 delle presenti conclusioni, il giudice del rinvio nutre dubbi al riguardo. Se tali dubbi dovessero rivelarsi fondati, non solo la norma di cui trattasi nel procedimento principale non soddisferebbe il requisito dell’appropriatezza dei mezzi di attuazione della finalità legittima, ma costituirebbe anche una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali.
76. Per quanto riguarda il secondo requisito, esso implica la necessità di valutare se il divieto previsto dalla norma di cui trattasi nel procedimento principale sia limitato allo «stretto necessario» (50). Al riguardo, ricordo che tale divieto si applica in modo generale e assoluto, ovvero a prescindere sia dalla natura delle funzioni esercitate dal dipendente che dal contesto in cui tali funzioni sono esercitate, e che la Corte è chiamata a valutare la compatibilità di tale divieto, considerato nella sua interezza, con la direttiva 2000/78 (51). È quindi al divieto così concepito che il giudice del rinvio deve applicare il criterio della necessità. Ai fini di un tale esercizio, si potrebbe tener conto, cercando nel contempo un giusto equilibrio tra gli interessi in gioco, delle considerazioni di fatto che ho esposto al paragrafo 73 delle presenti conclusioni.
77. Alla luce di quanto precede, propongo alla Corte di rispondere, in un secondo tempo, alla prima questione pregiudiziale, dichiarando che l’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel senso che una differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, derivante da una disposizione del regolamento di lavoro di un ente pubblico che vieta ai dipendenti di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi segno visibile di convinzioni politiche, filosofiche o religiose, può essere giustificata dalla volontà di tale ente di organizzare un ambiente amministrativo totalmente neutro, a condizione che, in primo luogo, tale volontà risponda ad un’esigenza reale di tale ente, circostanza che spetta a quest’ultimo dimostrare, in secondo luogo, che tale differenza di trattamento sia idonea ad assicurare la corretta applicazione di tale volontà e, in terzo luogo, che tale divieto sia limitato allo stretto necessario.
Sulla possibilità di deroghe
78. Qualora si concludesse che la norma di cui trattasi nel procedimento principale costituisce una discriminazione diretta o indiretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, essa potrebbe sottrarsi al divieto previsto dalla direttiva 2000/78 in caso di applicazione di una delle deroghe previste dalla medesima, in particolare quelle contenute nel suo articolo 2, paragrafo 5, e nel suo articolo 4, paragrafo 1.
79. È vero che il giudice del rinvio non chiede espressamente alla Corte di pronunciarsi su queste due deroghe, le quali peraltro non risultano essere state invocate in quanto tali dal Comune. Tuttavia, la questione dell’applicazione di dette deroghe è stata sollevata da OP e dal governo francese nelle loro osservazioni scritte, in riferimento all’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, ed è stata discussa in udienza, in riferimento anche all’articolo 2, paragrafo 5, di tale direttiva. Al fine di fornire una risposta completa al giudice del rinvio, esaminerò di seguito la possibile applicazione di tali disposizioni nel caso di specie.
Sull’articolo 2, paragrafo 5, della direttiva 2000/78
80. L’articolo 2, paragrafo 5, della direttiva 2000/78, che introduce una deroga al principio del divieto di discriminazioni, deve essere interpretato in maniera restrittiva (52).
81. La Corte ha affermato che la nozione di «misure previste dalla legislazione nazionale», ai sensi di tale disposizione, non è limitata alle sole misure risultanti da un atto adottato al termine di un procedimento legislativo, bensì comprende anche le misure introdotte sulla base di una norma abilitante sufficientemente precisa (53).
82. Nel caso di specie, se si dovesse concludere per l’esistenza di una differenza di trattamento, questa deriverebbe dal divieto previsto dalla norma di cui trattasi nel procedimento principale.
83. Orbene, come la Commissione ha sottolineato in udienza, tale norma non è chiaramente un atto risultante da un procedimento legislativo, cioè una legge in senso formale.
84. Inoltre, sebbene spetti in ultima istanza al giudice del rinvio decidere su tale punto, non sembra nemmeno, a prima vista, che il divieto in questione possa essere considerato come introdotto «sulla base di una norma abilitante sufficientemente precisa» ai sensi della giurisprudenza citata al paragrafo 81 delle presenti conclusioni. A tale proposito, rilevo che nessuna delle parti del procedimento è stata in grado di individuare una legislazione o una normativa nazionale che possa essere considerata abilitante per un ente pubblico come il Comune ad adottare norme «che, in una società democratica, sono necessarie (...) alla tutela (…) dei diritti e delle libertà altrui». Il fatto, invocato dal Comune in udienza, di avere, in base alla Costituzione belga, il potere di regolamentare qualsiasi questione di interesse comunale, fatto salvo l’intervento dell’autorità di vigilanza, non può, a mio avviso, essere equiparato a una tale abilitazione.
85. Pertanto, fatte salve le verifiche che il giudice del rinvio dovrà effettuare, sarei propenso a concludere che la deroga prevista dall’articolo 2, paragrafo 5, della direttiva 2000/78 non è applicabile al caso di specie.
Sull’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78
86. Secondo il governo francese, la norma di cui trattasi nel procedimento principale può essere giustificata sulla base dell’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78. Infatti, i dipendenti del settore pubblico sarebbero tenuti, in ragione della natura della loro attività professionale, ad un rigoroso obbligo di neutralità da cui discenderebbe il requisito professionale essenziale e determinante di non esprimere le proprie convinzioni politiche, ideologiche, filosofiche o religiose.
87. OP si oppone a tale interpretazione, sostenendo in sostanza che, ai fini dell’applicazione di tale disposizione, occorre tenere conto della natura e delle condizioni di esercizio dell’attività professionale in questione. Orbene, nel caso di specie, la sua attività consisterebbe nel trattare questioni giuridiche relative agli appalti pubblici del Comune e sarebbe svolta senza essere a contatto con il pubblico. Nella fattispecie non può quindi trattarsi di un requisito professionale essenziale e determinante.
88. Ricordo che, ove siano soddisfatte le condizioni di cui all’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, che esaminerò in seguito, una differenza di trattamento che altrimenti costituirebbe una discriminazione, indipendentemente dal fatto che sia diretta o indiretta, non rientra nell’ambito di applicazione di tale direttiva. Ricordo inoltre che, dal momento che consente di derogare al principio di non discriminazione, tale disposizione, letta alla luce del considerando 23 della medesima direttiva, poiché fa riferimento a «casi strettamente limitati» nei quali una simile differenza di trattamento può essere giustificata, deve essere interpretata restrittivamente (54).
89. In primo luogo, spetta agli Stati membri «stabilire», se del caso, che una differenza di trattamento basata su una caratteristica correlata a uno qualunque dei motivi di cui all’articolo 1 della direttiva 2000/78 non costituisca discriminazione. Nel caso di specie, il Regno del Belgio sembra essersi avvalso di tale facoltà, almeno per quanto riguarda i casi di differenza diretta di trattamento, attraverso l’adozione dell’articolo 8 della legge generale contro la discriminazione, punto questo che, tuttavia, spetta al giudice del rinvio verificare.
90. In secondo luogo, ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, affinché una differenza di trattamento possa sfuggire alla qualificazione come discriminazione, essa deve essere «basata su una caratteristica correlata a uno qualunque dei motivi di cui all’articolo 1 [di tale direttiva]». Al riguardo, la Corte ha chiarito che ciò che deve costituire un requisito essenziale non è il motivo su cui è basata la differenza di trattamento, bensì una caratteristica correlata a tale motivo (55). A mio avviso, ciò si verifica nella presente causa. Infatti, il divieto posto ai dipendenti del Comune di indossare segni che possano rivelare la loro adesione, in particolare, a una data religione, come il velo islamico in quanto manifestazione della fede musulmana, costituisce una caratteristica legata alla religione.
91. In terzo luogo, la caratteristica in questione deve costituire «un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa» e tale requisito deve essere «oggettivamente» (56) dettato dalla natura dell’attività lavorativa o dal contesto in cui questa viene espletata. A tale proposito, concordo pienamente con la posizione dell’avvocato generale Sharpston, che ritiene che l’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78 debba essere applicato in una maniera specifica e non possa essere utilizzato per giustificare un’eccezione generale per tutte le attività che un lavoratore possa teoricamente svolgere (57). Orbene, nel concreto caso di specie, mi risulta difficile capire come l’uso del velo islamico da parte di OP possa in qualche modo impedirle di svolgere appieno le sue funzioni di giurista alle dipendenze di un’amministrazione comunale. Del resto, la decisione di rinvio non contiene alcuna indicazione che possa deporre in tal senso. Ciò è tanto più vero in quanto in altri comuni belgi le stesse mansioni sono svolte da dipendenti senza che alcuna restrizione sia loro imposta relativamente all’abbigliamento, e a prescindere dal fatto che essi siano o meno a diretto contatto con il pubblico.
92. In quarto luogo, per quanto riguarda la condizione della legittimità della finalità perseguita e della proporzionalità del requisito, sempreché sia necessario esaminarla, alla luce di quanto precede, mi permetto di rinviare all’analisi da me svolta nei paragrafi da 62 a 64 e 76 delle presenti conclusioni.
93. Ritengo pertanto che, fatte salve le verifiche che il giudice del rinvio dovrà effettuare, nemmeno la deroga prevista dall’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78 sia applicabile al caso di specie.
Conclusione
94. Alla luce delle considerazioni che precedono, propongo alla Corte di rispondere come segue alle questioni pregiudiziali sollevate dal tribunal du travail de Liège (Tribunale del lavoro di Liegi, Belgio):
1) L’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro dev’essere interpretato nel senso che:
una disposizione di un regolamento di lavoro di un ente pubblico che vieti ai dipendenti, al fine di organizzare un ambiente amministrativo totalmente neutro, di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi segno visibile di convinzioni politiche, filosofiche o religiose non costituisce, nei confronti dei dipendenti che intendano esercitare la propria libertà di religione e di coscienza indossando un segno o un indumento visibile avente una connotazione religiosa, una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, ai sensi di tale direttiva, ove tale disposizione sia applicata in maniera generale e indiscriminata.
2) L’articolo 2, paragrafo 2, lettera b) della direttiva 2000/78
dev’essere interpretato nel senso che:
una differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, derivante da una disposizione di un regolamento di lavoro di un ente pubblico che vieta ai dipendenti di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi segno visibile di convinzioni politiche, filosofiche o religiose, può essere giustificata dalla volontà di tale ente di organizzare un ambiente amministrativo totalmente neutro, a condizione che, in primo luogo, tale volontà risponda ad un’esigenza reale di tale ente, che spetta a quest’ultimo dimostrare, in secondo luogo, che tale differenza di trattamento sia idonea ad assicurare la corretta applicazione di tale volontà e, in terzo luogo, che tale divieto sia limitato allo stretto necessario.