Ripercorrendo la giurisprudenza sul tema, la Cassazione chiarisce il momento in cui il reo deve essere presente nel territorio dello Stato ai fini della sussistenza della giurisdizione italiana.
La controversia trae origine dalla condanna dell'imputato a tre anni di reclusione per il delitto di maltrattamenti in famiglia posto in essere in Giordania a danni della moglie e dei figli conviventi.
In sede di legittimità, l'imputato eccepisce l'improcedibilità dell'azione penale per difetto di giurisdizione del giudice...
Svolgimento del processo
1. I.J. è stato tratto a giudizio dal Pubblico Ministero del Tribunale di Treviso, in quanto imputato del delitto di maltrattamenti in famiglia, posto in essere in Amman (Giordania) ai danni della moglie e dei quattro figli conviventi dal 2009 sino al 27 luglio 2014 (capo 1), del delitto di lesioni, commesso in Amman (Giordania) in data 14 luglio 2014 in danno della figlia R. (capo 2), del delitto di minaccia grave posto in essere nel luglio 2014 in Amman (Giordania) (capo 3) e del delitto di lesioni, posto in essere ai danni della moglie in Amman (Giordania) tra la fine dell'anno 2012 e i primi mesi del 2013 (capo 3).
2. Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Treviso, con sentenza emessa in data 17 maggio 2016 all'esito del giudizio abbreviato di primo grado, ha dichiarato l'imputato responsabile dei reati al medesimo ascritti, unificati dal vincolo della continuazione, e lo ha condannato alla pena di quattro anni di reclusione e al pagamento delle spese processuali.
3. La Corte di appello di Venezia, con la decisione impugnata, in parziale riforma della sentenza di primo grado, appellata dall'imputato, ritenuti assorbiti i reati di minacce e di lesioni cui ai capi 2) e 3) dell'imputazione nel delitto di maltrattamenti in famiglia, ha dichiarato di non doversi procedere nei confronti dell'imputato in ordine al delitto di lesioni contestato al capo 4), in quanto estinto per intervenuta prescrizione, e ha rideterminato la pena per il delitto di cui all'art. 572 cod. pen. contestato al capo 1) in tre anni di reclusione.
La Corte di appello ha, inoltre, confermato nel resto la sentenza impugnata e ha condannato l'imputato al pagamento delle spese del grado e di costituzione e rappresentanza delle parti civili costituite.
4. L'avvocato M.S., nell'interesse dell'imputato, ha presentato ricorso avverso tale sentenza e ne ha chiesto l'annullamento, proponendo due motivi.
4.1. Con il primo motivo il difensore deduce la violazione dell'art. 9 cod. pen. ed eccepisce l'improcedibilità dell'azione penale per difetto di giurisdizione del giudice italiano, in quanto il delitto di maltrattamenti in famiglia contestato all'imputato sarebbe stato commesso interamente all'estero e, segnatamente, ad Amman, in Giordania.
Il difensore rileva, inoltre, che nel caso di specie non sussisterebbe la condizione di procedibilità della presenza del reo nel territorio dello Stato italiano al momento dell'esercizio dell'azione penale (in data 6 novembre 2015), come documentato dalla produzione del passaporto dell'imputato durante il giudizio di primo grado.
La Corte di appello avrebbe, dunque, illegittimamente ritenuto integrata la condizione di procedibilità prevista dall'art. 9 cod. pen. esclusivamente sulla base dell'elezione di domicilio sottoscritta dall'imputato in data 30 settembre 2014 e, dunque, valorizzando una sua presenza estemporanea in territorio italiano, intervenuta, peraltro, in un momento antecedente all'esercizio dell'azione penale.
Secondo il difensore, tuttavia, non potrebbe radicarsi la giurisdizione dell'autorità italiana a fronte della documentata presenza all'estero dell'imputato all'atto dell'esercizio dell'azione penale e, inoltre, l'elezione di domicilio non potrebbe essere assimilata alla presenza dell'imputato in territorio italiano, in quanto il legislatore all'art. 9 cod. pen. ha optato esclusivamente per la presenza fisica dell'imputato in territorio italiano.
4.2. Con il secondo motivo, il difensore censura la contraddittorietà della motivazione in ordine alla mancata concessione delle attenuanti generiche all'imputato, fondata sull'assenza di alcun segno di ravvedimento o di resipiscenza, in quanto tale diniego si porrebbe in netto e insanabile contrasto con il versamento da parte dell'imputato in favore delle persone offese, prima dell'ammissione del giudizio abbreviato, della somma di euro 10.000, a titolo di risarcimento del danno; la Corte d'appello, inoltre, non avrebbe considerato, al fine di concedere le attenuanti generiche, lo standard di vita garantito dall'imputato in Giordania alla propria famiglia.
5. Il ricorso è stato trattato con procedura scritta, ai sensi dell'art. 23, comma 8, d.l. 137 del 28 ottobre 2020 convertito in legge n. 176 del 18 dicembre 2020, prorogato per effetto dell'art. 16, comma 1, del d.l. 30 dicembre 2021, n. 228, convertito con modificazioni dalla legge n. 15 del 25 febbraio 2022.
Con la requisitoria e le conclusioni scritte depositate in data 21 novembre 2022, il Procuratore generale ha chiesto l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata.
Con memoria depositata in data 28 novembre 2022 l'avvocato M.S., nell'interesse dell'imputato, ha chiesto l'accoglimento del ricorso.
Con conclusioni depositata in data 30 novembre 2022 l'avvocato C.C., nell'interesse delle parti civili costituite, ha chiesto il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente alla refusione delle spese di assistenza e rappresentanza sostenute.
6. All'udienza del 7 dicembre 2022 il Collegio ha differito la deliberazione, ai sensi dell'art. 615 cod. proc. pen., alla camera di consiglio del 13 gennaio 2023.
Motivi della decisione
1. Il ricorso deve essere rigettato, in quanto i motivi nello stesso proposti sono infondati.
· 2. Con il primo motivo il difensore censura la violazione dell'art. 9 cod. pen., in quanto la Corte d'appello di Venezia avrebbe ritenuto soddisfatto il requisito della «presenza del reo nel territorio dello Stato», necessario per la sussistenza della giurisdizione dello Stato italiano, per effetto della mera elezione di domicilio sottoscritta dall'imputato ai sensi dell'art. 161 cod. proc. pen., nonostante il medesimo non si trovasse in Italia al momento dell'esercizio dell'azione penale.
3.II motivo è infondato.
3.1. Per delibare adeguatamente la censura devoluta all'esame della Corte è, tuttavia, necessario muovere da una preliminare ricognizione della disciplina applicabile nel caso di specie.
Il delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi per cui si procede è stato contestato come integralmente commesso all'estero, in quanto posto in essere nella città di Amman in Giordania, dal cittadino italiano I.J. dal 2009 sino al 27 luglio 2014, data della partenza delle vittime dalla Giordania, ai danni di cittadini italiani.
L'art. 9 cod. pen., dedicato al «delitto comune del cittadino all'estero», al primo comma prevede che «il cittadino, che, fuori dei casi indicati nei due articoli precedenti, commette in territorio estero un delitto per il quale la legge italiana stabilisce l'ergastolo o la reclusione non inferiore nel minimo a tre anni, è punito secondo la legge medesima, sempre che si trovi nel territorio dello Stato».
In ragione della cornice edittale del delitto di maltrattamenti in famiglia, che all'epoca dei fatti contemplava un minino edittale di due anni di reclusione, nel caso di specie deve, tuttavia, trovare applicazione il secondo comma dell'art. 9 cod. pen.
Tale disposizione sancisce che «se si tratta di delitto per il quale è stabilita una pena restrittiva della libertà personale di minore durata, il colpevole è punito a richiesta del ministro della giustizia ovvero a istanza, o a querela della persona offesa».
Il difensore della parte civile ha eccepito che la censura proposta dal ricorrente sarebbe infondata, in quanto la presenza del cittadino in territorio italiano non sarebbe richiesta dalla formulazione letterale del secondo comma dell'art. 9 cod. pen. e, posto che le parti offese hanno presentato la querela, sussisterebbe la giurisdizione del giudice italiano in relazione al delitto contestato al capo a), indipendentemente dalla prova della presenza dell'imputato in territorio italiano dopo la commissione del fatto per cui si procede.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, tuttavia, ancorché il secondo comma dell'art. 9 cod. pen. non ne faccia menzione, anche per i delitti puniti con la reclusione inferiore nel minimo a tre anni la perseguibilità è subordinata alla presenza del cittadino nel territorio dello Stato dopo la commissione del reato (Sez. 5, n. 40278 del 06/04/2016, Camerlingo, Rv. 268199-01; Sez. 2., n. 9093 del 08/03/1989 (dep. 1990), Trivellato, Rv. 184696 - 01), in quanto, essendo questa condizione espressamente richiesta per i diritti più gravi (quelli puniti con la reclusione superiore nel minimo a tre anni), a maggior ragione deve ritenersi necessaria per i diritti meno gravi (quelli puniti con la reclusione inferiore al minimo a tre anni).
Stante la querela presentata dalle persone offese, dunque, per il delitto di maltrattamenti in famiglia per cui si procede può ritenersi sussistente la giurisdizione italiana, ai sensi dell'art. 9, secondo comma, cod. pen., nei confronti dell'imputato solo se ed in quanto sia dimostrata la sua presenza in territorio italiano dopo la commissione del fatto.
3.2. L'art. 9 cod. pen., in applicazione del principio di universalità, ricollega la punibilità (e dunque l'interesse dello Stato ad esercitare l'azione penale) al fatto che il colpevole «si trovi nel territorio dello Stato».
Nel disegno del legislatore, tale presupposto fa sorgere il concreto interesse dello Stato alla punizione del colpevole, in quanto la collettività non può assumere un atteggiamento di indifferenza di fronte a un soggetto, presente nel territorio italiano, che ha dimostrato la sua pericolosità commettendo un reato all'estero; come ha rilevato un'autorevole dottrina coeva all'introduzione del codice penale
«se [lo Stato] mancasse all'imperativo della repressione, si trasformerebbe in asilo di malfattori», anche in quanto, ai sensi dell'art. 26 Cost., l'estradizione del cittadino è consentita soltanto ove sia espressamente prevista dalle convenzioni internazionali.
3.3. La presenza dell'imputato, dopo la commissione del reato, nel territorio dello Stato, nell'ormai unanime opinione della dottrina e della giurisprudenza, integra una condizione di procedibilità (Sez. 6, n. 9106 del 21 febbraio 2013, P.M. in proc. Capriotti, Rv. 254706; Sez. 1, n. 739 del 30/03/1978, Severino, Rv. 139148 - 01; con riferimento all'omologo presupposto che ricorre nella fattispecie di cui all'art. 10: Sez. 1, n. 41333 dell'll/07/2003, Mohamad Taher, Rv. 225750; Sez. 1, n. 4144 del 19/10/1992 (dep. 1993), Shoukry Tarek, Rv. 192674 - 01; Sez. 1, n. 377 del 29/01/1993, Shoukry Tarek, Rv. 193321 - 01) e non già una condizione di punibilità (Sez. 1, n. 170 del 05/02/1969, Brezavschek, Rv. 112254 - 01), in quanto, al pari della richiesta, dell'istanza e della querela, è regolata dal codice penale quale condizione che non attiene alla struttura del fatto di reato e alla sua punibilità, bensì alla procedibilità dell'azione penale.
Tale qualificazione comporta che il termine di prescrizione del delitto comune commesso dal cittadino all'estero decorre secondo le regole ordinarie (e non, irragionevolmente, secondo la scelta del reo, nel caso in cui dovesse applicarsi al delitto comune del cittadino all'estero il disposto dell'art. 158, secondo comma, cod. pen., che regola il decorso del temine di prescrizione nel caso in cui la legge fa dipendere la punibilità del reato dal verificarsi di una condizione).
3.4. Controverso nelle rare sentenze dedicate dalla giurisprudenza di legittimità al tema è, invece, la determinazione del momento processuale nel quale deve sussistere la presenza del cittadino in territorio italiano per radicare la giurisdizione italiana.
Secondo un primo, più risalente, orientamento, ai fini della punibilità dei delitti comuni commessi dal cittadino in territorio estero, il requisito della presenza sul territorio dello Stato deve necessariamente sussistere al momento dell'esercizio dell'azione penale, a nulla rilevando che venga meno in un momento successivo (Sez. 2, n. 23304 del 19/03/2008, Dumas, Rv. 242047 - 01; Sez. 1, n. 372 del 19/04/1971, Sefio, Rv. 119138-01).
Secondo un diverso orientamento, la sussistenza o meno della condizione di procedibilità richiesta dalla legge penale quale quella della presenza del cittadino nel territorio dello Stato in caso di delitto comune commesso all'estero, va valutata non in riferimento al momento in cui viene iniziata l'azione penale, ma con riferimento al momento della definizione del giudizio di merito, di primo o anche di secondo grado. È, pertanto, necessario e sufficiente che i presupposti sui quali la condizione si fonda sussistano in quel momento, a nulla rilevando la loro originaria carenza, una volta che quest'ultima non sia stata rilevata all'atto della definizione giurisdizionale di alcune delle fasi precedenti, tanto da consentire la prosecuzione del procedimento (Sez. 1, n. 6698 del 10/05/1991, Di Bella, Rv. 188032 - 01, in una fattispecie di ritenuta illegittimità della declaratoria di improcedibilità originaria dell'azione penale, pronunciata dal giudice di appello, pur apparendo dagli atti che la condizione della presenza del cittadino, imputato di reato comune commesso all'estero, si era comunque verificata anteriormente alla sentenza di primo grado).
Secondo un più recente orientamento, emerso in relazione alla fattispecie del delitto commesso in territorio estero da uno straniero in danno di altro straniero, la presenza del colpevole nel territorio dello Stato, richiesta dall'art. 10 cod. pen. per la sua perseguibilità in Italia, deve sussistere prima della richiesta di rinvio a giudizio, a nulla rilevando l'eventuale allontanamento dello straniero in un momento successivo all'avveramento della citata condizione di procedibilità (Sez. 1, n. 2955 del 07/12/2005 (dep. 2006), El Hallal, Rv. 233424 - 01).
3.5. Ritiene il Collegio di aderire a quest'ultima interpretazione.
Il momento da prendere in considerazione al fine di verificare la sussistenza o meno delle condizioni di procedibilità è, infatti, quello dell'esercizio dell'azione penale, come richiesto dagli artt. 129 e 345 cod. proc. pen.
La divergenza registratasi nella giurisprudenza di legittimità attiene, tuttavia, alla necessità che la presenza dell'imputato persista nello Stato italiano sino al momento della presentazione della richiesta di rinvio a giudizio o che sia sufficiente che tale condizione sussista prima della sua presentazione, non rilevando l'allontanamento dell'imputato in un momento successivo all'avveramento della condizione di procedibilità.
La seconda soluzione appare corretta ed in linea con la disciplina vigente.
Una volta, infatti, che la condizione di procedibilità di cui si tratta (che deve sussistere prima della richiesta di rinvio a giudizio e che è richiesta anche ai fini della emissione della misura cautelare nella fase delle indagini, come affermato da Sez. 1, n. 41333 dell'll/07/2003, Mohamad, Rv. 225750) si è verificata, con l'ingresso del cittadino nel territorio dello stato, resta avverata e non viene meno a causa del suo eventuale allontanamento.
Al fine di radicare la giurisdizione dello Stato italiano ai sensi dell'art. 9 cod. pen., dunque, la presenza del cittadino in territorio italiano deve essersi già verificata al momento dell'esercizio della azione penale, in quanto una diversa soluzione, condurrebbe a ritenere - contro ogni logica - che la condizione di procedibilità sia rimessa alla libera scelta dell'imputato, il quale, essendo libero di decidere di lasciare il territorio prima dell'esercizio dell'azione penale, potrebbe così fare cessare in base al suo arbitrio la giurisdizione italiana, dopo averla determinata in precedenza attraverso l'ingresso volontario nello stato italiano.
3.6. Alla stregua dei rilievi che precedono, deve, dunque, ritenersi correttamente radicata nel presente processo la giurisdizione italiana.
La Corte d'appello di Venezia ha, infatti, congruamente ritenuto dimostrata la presenza in territorio italiano dell'imputato non soltanto in ragione dell'elezione di domicilio sottoscritta ai fini della celebrazione del presente processo, ma anche dalla sua presenza nel novembre del 2014, quando ha chiamato al telefono la vittima che era riuscita a fuggire dalla Giordania, dicendole che aveva lasciato dei videogiochi e CD alla gelateria di via (omissis) a Spinea. Questo episodio era, peraltro, stato avvertito dalla moglie come una minaccia e l'aveva indotta a sporgere querela, in quanto, in tal modo, l'imputato aveva dimostrato di aver avuto conoscenza del luogo nel quale lei ed i figli erano fuggiti.
La Corte d'appello ha, inoltre, congruamente rilevato che l'imputato è stato identificato e fermato allo scalo aereo di Villafranca in data 30 settembre 2014 ed è comparso personalmente innanzi al Tribunale di Venezia in data 3 ottobre 2014 nell'ambito del procedimento civile incardinato in quella sede.
E', dunque, sussistente la condizione di procedibilità richiesta dall'art. 9 cod. pen., in quanto l'imputato è stato presente in territorio italiano dopo la commissione del reato e prima dell'esercizio dell'azione penale.
3.7. La presenza, non altrimenti connotata dall'art. 9 cod. pen., può, infatti, anche essere transitoria e occasionale e non necessariamente deve porsi come indicativa di un effettivo radicamento del soggetto sul territorio nazionale (in tal senso anche Sez. 1, n. 2955 del 7/12/2005, dep. 2006, El Hallal, Rv. 233424; cfr., in senso analogo, Sez. 1, n. 19762 del 17/06/2020, Tartoussi, Rv. 279210 - 03, con riferimento alla fattispecie di cui all'art. 10, comma secondo, n. 1, cod. pen.).
In stretta aderenza alla ratio perseguita dal legislatore, è, inoltre, irrilevante la causa della presenza in Italia dell'imputato e anche la sua volontarietà, salva l'applicazione del principio di specialità che regola l'estradizione; in applicazione di tale principio, infatti, non può essere ritenuta idonea la presenza dell'imputato per effetto di una precedente procedura estradizionale, salvi gli effetti dell'estensione dell'estradizione e del permanere dell'estradato in Italia dopo la scarcerazione.
4. Con il secondo motivo, il difensore censura la contraddittorietà della motivazione in ordine alla mancata concessione delle attenuanti generiche all'imputato.
5. Il motivo è infondato.
La Corte di appello, nel negare le attenuanti generiche in ragione della gravità e della durata (oltre due anni) delle condotte accertate, non ha motivato specificamente sul versamento della somma di 10.000 euro in favore delle parti lese, successiva all'instaurazione del giudizio abbreviato, ma la deduzione svolta dalla difesa deve essere ritenuta implicitamente e congruamente disattesa in ragione dell'obiettiva inidoneità della somma versata a ristorare i danni patiti dalle parti civili costituite in ragione della gravità delle condotte accertate (che hanno determinato anche la rottura del timpano della moglie), del numero di parti lese (cinque), di cui quattro minorenni, e della protrazione delle condotte violente per un arco temporale di almeno due anni.
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, del resto, in tema di circostanze, ai fini del diniego della concessione delle attenuanti generiche, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente il riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, purché la valutazione di tale rilevanza tenga conto, a pena di illegittimità della motivazione, delle specifiche considerazioni mosse sul punto dall'interessato (Sez. 3, n. 2233 del 17/06/2021 (dep. 2022), Bianchi, Rv. 282693 - 01; Sez. 3, n. 23055 del 23/04/2013, Banic, Rv. 256172 01; Sez. 1, n. 707 del 13/11/1997 (dep. 1998), Ingardia, Rv. 209443 - 01).
6. Alla stregua di tali rilievi, il ricorso deve essere rigettato.
Il ricorrente deve, pertanto, essere condannato, ai sensi dell'art. 616, comma 1, cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento.
L'imputato deve, inoltre, essere condannato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili costituite, che si liquidano in complessivi euro 3.000,00, oltre accessori di legge.
7. In caso di diffusione del presente provvedimento devono essere omesse le generalità e gli altri dati identificativi, ai sensi dell'art. 52 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, in quanto imposto dalla legge.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili costituite, che liquida in complessivi euro 3.000,00, oltre accessori di legge.