La Cassazione conferma la condanna dell'imputato che aveva obbligato alcuni dipendenti extracomunitari a firmare un foglio in bianco per accettare lo svolgimento di ore di lavoro straordinario non retribuite, minacciandoli di licenziamento.
La Corte d'Appello di Bologna confermava la decisione con cui il Tribunale di Ravenna aveva riconosciuto l'attuale ricorrente responsabile del delitto di estorsione continuata. In particolare, l'imputato, in qualità di legale rappresentante di una società, aveva costretto alcuni dipendenti extracomunitari ai fini dell'assunzione, a firmare una...
Svolgimento del processo
1. Con sentenza in data 11 maggio 2021 la Corte di Appello di Bologna confermava la sentenza del Tribunale di Ravenna in data 10/01/2018 che aveva riconosciuto F.L. responsabile del delitto di estorsione continuata, condannandolo alla pena ritenuta di giustizia.
Secondo la ricostruzione dei giudici di merito I' imputato, in qualità di legale rappresentante della società G. s.r.l., aveva costretto taluni dipendenti extracomunitari quale condizione dell'assunzione, a firmare una lettera o un foglio in bianco senza data che costituiva lo strumento di pressione idonea a coartare la volontà del lavoratore durante lo svolgimento del rapporto di lavoro e, dunque, la minaccia di attivare il meccanismo che avrebbe condotto alla cessazione del rapporto di lavoro così costringendoli ad effettuare ore di lavoro straordinario non retribuiti ed a sostenere turni lavoro più gravosi rispetto a quanto previsto dal contratto collettivo di categoria conseguendo l'ingiusto profitto corrispondente al risparmio di spesa.
2. F.L. ricorre per cassazione, tramite difensore di fiducia, formulando seguenti motivi.
2.1. Con il primo motivo deduce, ex art. 606 comma 1 lett. c) ed e) c.p.p., vizio di motivazione anche per travisamento della prova nella parte in cui la Corte di appello ha ritenuto integrati gli estremi del delitto di estorsione in ragione dell'asserito utilizzo di fogli di dimissioni firmati in bianco.
Il ricorrente lamenta che la condanna era stata basata, nella sostanza, su una lettura parziale delle complessive emergenze processuali e che i giudici territoriali erano incorsi in un travisamento della prova laddove avevano ritenuto sussistenti detti documenti sottoscritti in bianco, sebbene non ne fosse stata accertata l'esistenza effettiva.
Rileva che nessuno dei lavoratori li aveva forniti né erano stati trovati all' atto della perquisizione, non rilevando il modello di lettera rinvenuto all' interno di un computer della società.
Deduce, ancora, che il lavoratore A.B. aveva sottoscritto la lettera di dimissioni solo allorquando aveva inteso rassegnarle nell' imminenza della cessazione del rapporto lavorativo e che i giudici di appello non avevano adeguatamente considerato quanto riferito dalla teste Roberta Altini, segretaria della società, circa le effettive modalità delle dimissioni dei dipendenti.
Assume che del tutto erronea era l'affermazione della Corte di appello secondo cui A.B. aveva sottoscritto il foglio di dimissioni ben prima della comunicazione della cessazione del rapporto di lavoro, non avendo i giudici territoriali considerato che la discrasia temporale fra la data del 21/04/2012 (data risultante dal timbro postale) e quella del 30/04/2012 (data del deposito presso gli uffici competenti), non giustificava affatto la conclusione che il foglio delle dimissioni era stato firmato ali' atto dell'assunzione ovvero della trasformazione del rapporto in rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
2.2. Con il secondo motivo deduce, ex art. 606 comma 1 lett. c) ed e) c.p.p., vizio di motivazione anche per travisamento della prova quanto alla valutazione della prova con il teste A.V..
Osserva che la Corte di appello aveva ritenuto che le dichiarazioni dello stesso - il quale aveva smentito le vessatorie condizioni di lavoro lamentate in danno dei lavoratori extracomunitari - erano generiche e dubitative, apparendo, per contro, le stesse decisive al fine di escludere la condotta illecita lamentata.
2.3. Con il terzo motivo deduce, ex art. 606 comma 1 lett. c) ed e) c.p.p., vizio di motivazione quanto alla ritenuta irrilevanza della mancata partecipazione al giudizio dei lavoratori.
Osserva che i giudici di appello erroneamente avevano affermato che gli stessi non erano stati citati mentre avevano ricevuto il decreto di citazione a giudizio quali pp.oo. ed erano stati citati come testi per l'udienza del 16 marzo 2017, salvo, poi, non essere stati nuovamente<per l'udienza successiva per un errore dell'ufficio del P.M. ed, altresì, rileva che a fronte della acquisizione delle s.i.t. - cui la difesa aveva acconsentito per ragioni di economia processuale - i giudici non avevano valutato i profili di attendibilità anche alla luce della mancata ed ingiustificata comparizione in udienza.
2.4. Con il quarto motivo deduce, ex art. 606 comma 1 lett. c) c.p.p., violazione dell'art. 192 c.p.p.
Rileva che la condanna era stata basata sulle dichiarazioni rese a s.i.t. ritenute, senza alcuna motivazione logica ed adeguat "prevalenti" rispetto alle univoche dichiarazioni rese dai testi escussi A. e V. i quali avevano riferito in ordine alla libertà con cui venivano rassegnate le dimissioni dai dipendenti nonché la loro libertà di lavorare nei giorni festivi.
2.5. Con il quinto motivo deduce, ex art. 606 comma 1 lett. b) c.p.p., violazione dell'art. 62 n. 6 c.p.
Evidenzia che i giudici territoriali al fine di non concedere detta attenuante, nemmeno sub specie di "ravvedimento operoso", aveva escluso la valenza dei verbali di conciliazione sottoscritti dalla G. s.r.l. con i lavoratori, non esaminando in alcun modo il profilo relativo alla congruità del risarcimento operato.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è inammissibile.
2. Prima di procedere all’esame dei singoli motivi di ricorso appaiono necessarie alcune considerazioni di ordine generale.
2.1. "I limiti del sindacato di legittimità".
Va, in primo luogo, rilevato che al giudice di legittimità è preclusa - in sede di controllo della motivazione - la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Tale modo di procedere trasformerebbe, infatti, la Corte nell'ennesimo giudice del fatto, mentre la Corte, anche nel quadro della nuova disciplina, è - e resta - giudice della motivazione.
Secondo le Sezioni Unite "l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato - per espressa volontà del legislatore - a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali; l'illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile "ictu oculi", dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (Cass. Sez. Un. sent. n. 24 del 24.11.1999 dep. 16.12.1999 rv 214794).
Deve, pure, essere rimarcato che ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, la struttura giustificativa della sentenza di appello, trattandosi di c.d. doppia conforme, si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando il giudice del gravame, esaminando le censure proposte dall'appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed operando frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima sentenza, concordi nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione (Cass. Sez. 3, sent. n. 44418 del 16/07/2013, dep. 04/11/2013, Rv. 257595). Nel giudizio di appello è, pertanto, consentita la motivazione "per relationem" alla pronuncia di primo grado, nel caso in cui le censure formulate dall'appellante non contengano - come nel caso di specie - elementi di novità rispetto a quelle già condivisibilmente esaminate e disattese dalla sentenza richiamata (Cass. Sez. 2, sent. n. 30838 del 19/03/2013, dep. 18/07/2013, Rv. 257056).
Va, anche, osservato che l'omesso esame di un motivo di appello da parte della Corte di merito non da luogo a un difetto di motivazione rilevante a norma dell'art. 606 cod. proc. pen., ne' determina incompletezza della motivazione della sentenza allorché, pur in mancanza di espressa disamina, il motivo proposto debba considerarsi implicitamente disatteso perché incompatibile con la struttura e con l'impianto della motivazione, nonché con le premesse essenziali, logiche e giuridiche che compendiano la ratio decidendi della sentenza medesima. Secondo il disposto dell'art. 597 c.p.p., comma 1, l'appello attribuisce al giudice di secondo grado la cognizione nel procedimento (limitatamente ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti).
Pertanto il giudice d'appello deve tenere presente, dandovi risposta in motivazione, quali sono state le doglianze dell'appellante in ordine ai punti (o capi art. 581, comma 1, lett. e) investiti dal gravame, ma non è tenuto ad indagare su tutte le argomentazioni elencate in sostegno dell'appello quando esse siano incompatibili con le spiegazioni svolte nella motivazione, poiché in tal modo quelle argomentazioni si intendono assorbite e respinte dalle spiegazioni fornite dal giudice di secondo grado. (Sez. 1, Sentenza n. 1778 del 21/12/1992 Ud. (dep. 23/02/1993) Rv. 194804).
Occorre rilevare, altresì, che in tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo; per cui sono inammissibili tutte le doglianze che "attaccano" la persuasività, l'inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell'attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento». (Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015 - dep. 31/03/2015, O., Rv. 26296501).
Deve, inoltre, ricordarsi che mentre è consentito dedurre con il ricorso per cassazione il vizio di "travisamento della prova", che ricorre nel caso in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova obiettivamente ed incontestabilmente diverso da quello reale, non è affatto permesso dedurre il vizio del "travisamento del fatto", stante la preclusione per il giudice di legittimità a sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito, e considerato che, in tal caso, si domanderebbe alla Cassazione il compimento di una operazione estranea al giudizio di legittimità, qual è quella di reinterpretazione degli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione (così, tra le tante, Sez. 3A, n. 39729 del 18/06/2009, Belluccia, Rv. 244623; Sez. SA, n. 39048 del 25/09/2007, Casavola, Rv. 238215). E questo è tanto più vero laddove con l'impugnazione venga posto un mero problema di interpretazione di espressioni o frasi, trattandosi di questione di fatto, rimessa all'apprezzamento del giudice di merito, che si sottrae al giudizio di legittimità se - come nella fattispecie è accaduto secondo quanto appresso chiarito - la valutazione risulta logica anche in rapporto alle massime di esperienza utilizzate.
Giova rammentare, ancora, la corretta deduzione del vizio di travisamento della prova che si realizza allorché si introduce nella motivazione un'informazione rilevante che non esiste nel processo, oppure si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronunzia secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte non è riscontrabile nel caso gli atti del processo invocati dal ricorrente siano semplicemente "contrastanti" con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e della responsabilità dell'imputato. E', invece, necessario che gli "atti del processo" su cui fa leva il ricorrente per sostenere l'esistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l'intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione. Perché il vizio sia valutabile in sede di legittimità è però onere del ricorrente, non solo illustrare le ragioni per cui il dato travisato inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l'interna coerenza della motivazione, ma soprattutto individuare in modo inequivoco e rappresentare in modo specifico gli atti processuali che intende far valere.
Vero è, poi, che tra i vizi riconducibili al novero di quelli denunziabili ai sensi dell'art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen. vi è quello del "travisamento" che, come è noto, è ravvisabile nel caso di contraddittorietà della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato, ovvero da altri atti del processo indicati nei motivi di gravame, ovvero dall'errore cosiddetto revocatorio, che cadendo sul significante e non sul significato della prova, si traduce nell'utilizzo di una prova inesistente per effetto di una errata percezione di quanto riportato dall'atto istruttorio ovvero nella omessa valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia (cfr., Sez. 5, Sentenza n. 18542 del 21/01/2011, Carone, Rv. 250168; Sez. 2, Sentenza n. 47035 del 03/10/2013, Giugliano, Rv. 257499; Sez. 5, Sentenza n. 8188 del 04/12/2017, Grancini, Rv. 272406; Sez. 2, Sentenza n. 27929 del 12/06/2019, PG c/Borriello, Rv. 276567).
In altri termini, il vizio di "travisamento" deve riguardare una prova che non sia stata affatto valutata ovvero che sia stata considerata dal giudice di merito in termini incontrovertibilmente difformi (non già dal suo "significato" ma) dal suo "significante" e che venga individuata specificamente e "puntualmente" oltre che idonea a disarticolare il ragionamento su cui si fonda la decisione impugnata. È necessario, dunque, che la relativa deduzione abbia un oggetto definito e inopinabile, tale da evidenziare la palese e non controvertibile difformità tra il senso intrinseco della dichiarazione (o di altro elemento di prova) e quello tratto dal giudice, con conseguente esclusione della rilevanza di presunti errori da questi commessi nella valutazione del significato probatorio della dichiarazione medesima (cfr., Cass. Pen., 5, 4.12.2017 n. 8.188, Grancini; cfr., Cass. Pen., 2, 12.6.2019 n. 27.929, PG in proc. Borriello; cfr., anche, Sez. 5, Sentenza n. 48050 del 02/07/2019, S, Rv. 277758, secondo cui il vizio di travisamento della prova è ravvisabile ed efficace solo se l'errore accertato sia idoneo a disarticolare l'intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa dell'elemento frainteso o ignorato, fermi restando il limite del "devolutum" in caso di cosiddetta "doppia conforme" e l'intangibilità della valutazione nel merito del risultato probatorio).
Va, precisato, inoltre, che il giudizio sulla rilevanza ed attendibilità delle fonti di prova è devoluto insindacabilmente ai giudici di merito e la scelta che essi compiono, per giungere al proprio libero convincimento, con riguardo alla prevalenza accordata a taluni elementi probatori, piuttosto che ad altri, ovvero alla fondatezza od attendibilità degli assunti difensivi, quando non sia fatta con affermazioni apodittiche o illogiche, si sottrae al controllo di legittimità della Corte Suprema. Si è in particolare osservato che non è sindacabile in sede di legittimità, salvo il controllo sulla congruità e logicità della motivazione, la valutazione del giudice di merito, cui spetta il giudizio sulla rilevanza e attendibilità delle fonti di prova, circa contrasti testimoniali o la scelta tra divergenti versioni e interpretazioni dei fatti. (Sez. 2, n. 20806 del 05/05/2011 - dep. 25/05/2011, Tosto, Rv. 25036201).
2.2. "Il reato di estorsione in danno dei lavoratori".
La Suprema Corte ha più volte ribadito che integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che, per costringere i suoi dipendenti ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate e, più in generale, condizioni di lavoro contrarie alle leggi o ai contratti collettivi, li minacci di licenziamento (cfr., Cass. Pen., 2, 27.11.2013 n. 50.074, Bleve; Cass. Pen., 2, 10.10.2014 n. 677, Di Vincenzo e Cass. Pen., 2, 14.2.2017 n. 11.107, Tessitore, in entrambe le quali è stata ritenuta idonea ad integrare la fattispecie incriminatrice anche una condotta di minaccia "larvata"). D'altra parte, è principio consolidato quello per cui ai fini della configurabilità del reato sono indifferenti la forma o il modo della minaccia, potendo questa essere manifesta o implicita, palese o larvata, diretta o indiretta, reale o figurata, orale o scritta, determinata o indeterminata, purché comunque idonea, in relazione alle circostanze concrete, a incutere timore ed a coartare la volontà del soggetto passivo; in definitiva, la connotazione di una condotta come minacciosa e la sua idoneità ad integrare l'elemento strutturale del delitto di estorsione vanno valutate in relazione a concrete circostanze oggettive, quali la personalità sopraffattrice dell'agente, le circostanze ambientali in cui lo stesso opera, l'ingiustizia della pretesa, le particolari condizioni soggettive della vittima, una effettiva intimidazione del soggetto passivo (cfr., Cass. Pen., 6, 26.1.1999 n. 3.298, Savian; Cass. Pen., 2, 19.6.2012 n. 36.698, D'Andrea; Cass. Pen., 2, 18.11.2015 n. 2.702, Nuti; vedi pure Sez. 2 - , Sentenza n. 3724 del 29/10/2021 Ud. (dep. 02/02/2022) Rv. 282521 - 01.
Sul punto vedi anche Sez. 2 - , Sentenza n. 8477 del 20/02/2019 Ud. (dep. 26/02/2019) Rv. 275613 - 01).
Ed al riguardo è bene ribadire che l'oggetto della tutela giuridica del reato di estorsione è duplice, nel senso che da un lato la norma persegue l'interesse pubblico all'inviolabilità del patrimonio e da un altro lato essa tutela la libertà di autodeterminazione delle persone offese. In tal senso l'evento del reato, costituito dalla disposizione patrimoniale lesiva del patrimonio della persona offesa, proviene proprio da quest'ultima e rappresenta la conseguenza di una situazione di costrizione determinatasi in suo danno dall'azione di violenza o minaccia posta in essere dal soggetto agente. Il potere di autodeterminazione della vittima, in conseguenza della condotta dell'agente, non viene annullato del tutto, venendo, però, fortemente condizionato nel senso che la vittima è posta nell'alternativa di fare conseguire all'agente il vantaggio economico voluto o subire un pregiudizio diretto ed immediato. A ciò consegue che, sulla base del costante orientamento espresso da questa Corte, anche l'uso strumentale di mezzi leciti può assumere un significato ricattatorio, laddove è volto a coartare la volontà della vittima; in tal senso la minaccia di un male legalmente giustificato assume il carattere dell'ingiustizia quando sia fatta, non già con l'intenzione di esercitare un diritto, ma con il proposito di coartare la volontà di altri per soddisfare scopi personali non conformi a giustizia (sez. 2 n. 877 del 17/10/1973, Rv. 126068; sez. 2 n. 5239 del 18/1/2013, Rv. 254975). Ed analogamente la prospettazione di un male ingiusto può integrare il delitto di estorsione anche quando si persegua un giusto profitto ed il negozio concluso a seguito di essa si riveli addirittura vantaggioso per il soggetto destinatario della minaccia; ciò in quanto la specificità del delitto di estorsione sta nella condizione di soggezione o dipendenza in cui è posta la vittima con apprezzabile sacrificio della sua autonomia decisionale in conseguenza della condotta di violenza o di minaccia posta in essere dall'agente in suo danno (sez. 2 n. 1071 del 5/3/1992, Rv. 189950; sez. 2 n. 1/ 3043 del 7/11/2000, Rv. 217508).
3. Ciò premesso osserva la Corte che i primi quattro motivi di ricorso (da esaminare congiuntamente in quanto fra loro connessi), oltre che in parte generici, appaiono meramente reiterativi di profili già disattesi dai giudici di merito con congrue argomentazioni e, comunque, manifestamente infondati.
3.1. Deve osservarsi che i giudici di appello hanno valorizzato quanto dichiarato in sede di s.i.t. da B.A., S.M., A.C.H. e B.M., dichiarazioni ritenute pienamente attendibili anche perchè riscontrate sulla scorta del foglio di dimissioni in bianco fornito da B.A. ed in forza del file denominato "lettera dimissioni" trovato nel computer della G. s.r.l.
Nelle suddette dichiarazioni, in modo pressocché costante, si fa riferimento alle condizioni vessatorie, cui sono stati sottoposti ad opera del Lanconelli, i lavoratori extracomunitari i quali, in alcuni casi hanno confermato di avere firmato lettere di dimissioni in bianco.
La Corte di appello, senza incorrere in alcun travisamento deducibile in questa sede, ma operando una valutazione dei complessivi dati istruttori, ha ritenuto che la circostanza relativa alla firma di lettere di dimissioni in bianco dei lavoratori extracomunitari, al fine di imporre agli stessi condizioni vessatorie (è stato, del resto, accertato che il Lanconelli non aveva registrato nel libro unico del lavoro le ore effettuate da vari lavoratori fra cui B.A., S.M., A.C.H. e B.M.) costituiva un dato di fatto oggettivo ed acclarato, non smentito dalle complessive emergenze istruttorie e da quanto riferito dai testi escussi A.V. e R.A..
3.2. Rileva il Collegio che del tutto infondata è la tesi della difesa secondo cui i giudici di merito avrebbero operato un travisamento della prova quanto alle dichiarazioni di A.V.. Va, invero, osservato che la prova dichiarativa per sua stessa natura essa è scandita da significati non univoci: infatti, salvi i casi limite in cui l'oggetto della deposizione sia del tutto definito o attenga alla proposizione di un dato storico assolutamente semplice e non opinabile, ogni narrazione è sempre frutto di una percezione soggettiva del dichiarante anche se concerne fatti di cui abbia scienza diretta; ne consegue che il giudice di merito, nel valutare i contenuti
della deposizione testimoniale, è sempre chiamato ad effettuare una indagine complessa.
Dunque, il giudice di legittimità, per poter esprimere un eventuale giudizio sulla completezza, logicità e non contraddittorietà della motivazione in rapporto all'apprezzamento di fatto di una fonte testimoniale, dovrebbe avere contezza dell'intero compendio probatorio raccolto fino al momento della decisione, sulla base del quale svolgere l'analisi comparativa attinente alla decisività o non della fonte testimoniale e dell'incidenza causale della stessa nell'iter decisionale del giudice di merito, il che è ovviamente impraticabile in rapporto alla natura del giudizio di legittimità. Tale analisi comparativa, preclusa davanti alla Corte Suprema, non potrebbe neppure essere surrogata dalla circostanza per cui il testo della pronuncia impugnata non rechi menzione (neppure per interpretarne od escluderne il valore dimostrativo) di talune delle testimonianze evocate dalla difesa dell'imputato: anche in tale evenienza, infatti, qualsiasi apprezzamento imporrebbe la conoscenza dell'intero quadro delle emergenze probatorie, cioè di tutti gli atti processuali (non estensibili al giudice di legittimità).
Nè gioverebbe ali' odierno ricorrente intendere le summenzionate censure come denunce di travisamento dei fatti o delle prove: il travisamento dei fatti, com'è noto, proprio perché attiene alla generale ricostruzione della vicenda alla luce delle acquisizioni processuali e perché richiede una reiterazione dell'esperienza conoscitiva dei giudici di merito mediante accesso diretto e completo a tutti gli atti processuali, non può dedursi come vizio neppure alla luce del nuovo testo dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) come modificato dalla L. n. 46 del 2006 (cfr., per tutte, Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018 - dep. 02/05/2018, Ferri, Rv. 27321701). Quanto alla denuncia di travisamento della prova, è pur vero che questa Corte Suprema, lungi dal procedere ad una (inammissibile) rivalutazione del fatto (e del contenuto delle prove), si limita a prendere in esame gli elementi di prova indicati in ricorso al fine di verificare se il relativo contenuto è stato veicolato o meno, senza distorsioni, all'interno della decisione.
Nondimeno, nel caso in esame qualsivoglia denuncia di eventuale travisamento della prova risulta pregiudizialmente inibita dal rilievo che, in tema di motivi di ricorso per cassazione, la novella dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) ad opera della L. n. 46 del 2006 consente la deduzione del vizio di travisamento della prova, in ipotesi di doppia pronuncia conforme, nel solo caso in cui il giudice di appello, al fine di rispondere alle censure fatte valere in via di impugnazione, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice, ostandovi altrimenti il limite del devoluto, che non può essere superato ipotizzando recuperi in sede di legittimità (cfr., ad es., Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016 - dep. 20/02/2017, La Gumina e altro, Rv. 26921701). A ciò si aggiunga, infine, che nel dedurre un travisamento della prova la parte deve trascriverla integralmente od allegare in copia il documento in cui essa è consacrata (il che non è avvenuto nel caso di specie), evidenziando l'esatto passaggio in cui si annida il vizio: diversamente, non consentendo la citazione di alcuni brani della prova l'effettivo apprezzamento del vizio dedotto, il ricorso non è autosufficiente.
E' stato, infatti, condivisibilmente osservato che in forza della regola della "autosufficienza" del ricorso, operante anche in sede penale, il ricorrente che intenda dedurre in sede di legittimità il travisamento di una prova testimoniale ha l'onere di suffragare la validità del suo assunto mediante la completa trascrizione dell'integrale contenuto delle dichiarazioni rese dal testimone, non consentendo la citazione di alcuni brani delle medesime l'effettivo apprezzamento del vizio dedotto (cfr. ex multis Sez. 4, n. 37982 del 26/06/2008 - dep. 03/10/2008, Buzi, Rv. 24102301).
3.4. Per altro verso va osservato che non coglie nel segno la censura di parte ricorrente in relazione al vizio di motivazione quanto alla ritenuta irrilevanza della mancata partecipazione al giudizio dei lavoratori.
Lamenta il ricorrente che i giudici di appello, erroneamente, avevano affermato che gli stessi non erano stati citati mentre avevano ricevuto il decreto di citazione a giudizio quali pp.oo. ed erano stati citati come testi per l'udienza del 16 marzo 2017, salvo poi non essere stati nuovamente citati per l'udienza successiva per un errore dell'ufficio del P.M. ed, altresì, rileva che a fronte della acquisizione delle s.i.t. - cui la difesa aveva acconsentito per ragioni di economia processuale - i giudici non avevano valutato i profili di attendibilità anche alla luce della mancata ed ingiustificata comparizione in udienza.
In disparte la considerazione che la difesa dell'imputato ha acconsentito all' acquisizione delle s.i.t., va osservato che i giudici di merito hanno adeguatamente vagliato, con congrue argomentazioni, tutte le prove acquisite e che la questione dedotta non inficia la complessiva ricostruzione dei fatti addebitati all' imputato.
3.3. Occorre, quindi, chiarire che non sussiste alcuna violazione dell'art. 192 c.p.p. in relazione ad un asserito non corretto "bilanciamento delle prove": il ricorrente censura, in realtà, il giudizio sulla rilevanza ed attendibilità delle fonti di prova che è di competenza esclusiva del giudice di merito.
3.4. In sintesi rileva il Collegio che a fronte di una motivazione, conforme a quella di primo grado, relativa alla ricostruzione delle condotta delittuosa in esame, che appare congrua ed adeguata nella parte in cui ha ritenuto configurabile la responsabilità dell' imputato sulla scorta dei dati probatori emersi sopra indicati unitariamente valutati ed interpretati, tutte le contestazioni formulate relative alla asserita erronea valutazione dei dati probatori ed a pretesi travisamenti non mirano a contestare la logicità dell'impianto argomentativo delineato nella motivazione della decisione impugnata ma si risolvono nella contrapposizione, in contrasto con giudizio espresso dai giudici di merito - i quali, come detto, hanno disatteso le questioni in questa sede riproposte - di una alternativa ricostruzione dei fatti (nel senso della piena liceità della condotta dell' imputato in relazione ai rapporti di lavoro de quibus) evidentemente sottratta alla delibazione di questa Suprema Corte in ragione dei limiti posti alla cognizione di legittimità dall'art. 606 cod. proc. pen.
4. Il quarto motivo è manifestamente infondato: come correttamente ritenuto dai giudici di merito l'intervenuta conciliazione sindacale con i lavoratori non giustifica l'applicazione dell'attenuante di cui all'art. 62 n. 6 c.p., non avendo parte ricorrente chiarito per quali ragioni il risarcimento del danno in questione poteva essere ritenuto "integrale".
Occorre, ancora, rilevare che la circostanza attenuante comune del "ravvedimento attivo" (art. 62, comma primo, n. 6, seconda ipotesi, cod. pen.), concernente l'elisione o l'attenuazione delle conseguenze del reato, non è applicabile ai reati contro il patrimonio per i quali l'attenuazione della pena esige l'integrale risarcimento del danno patrimoniale o non patrimoniale da parte dell'imputato. (Sez. 5, Sentenza n. 45646 del 26/10/2010, Rv. 249144 - 01), ipotesi non applicabile al reato in esame rientrante fra quelli contro il patrimonio di cui al Capo I del Titolo XIII del codice penale.
5. Per le considerazioni esposte, dunque, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Alla declaratoria d'inammissibilità consegue, per il disposto dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al pagamento in favore della Cassa delle Ammende di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti dai ricorsi, si determina equitativamente in euro tremila.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore Cassa delle Ammende.