Il professionista tenta di difendersi evidenziando di aver rappresentato la ditta individuale, e non direttamente il suo ex cliente titolare, ma la Cassazione non è d'accordo: oggetto del precedente rapporto non è l'affare curato, bensì la persona fisica.
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Art. 68 cit.: “L'avvocato può assumere un incarico professionale contro una parte già assistita solo quando sia trascorso almeno un biennio dalla cessazione del rapporto professionale”. |
Con sentenza n. 14933 del 29 maggio 2023, la Cassazione dichiara il motivi di ricorso infondato.
Svolgimento del processo
All’esito di denuncia fatta dall’imprenditore D. C., l’avv. L. M. è stato sottoposto a procedimento disciplinare avanti il Consiglio distrettuale di disciplina di Trieste con incolpazione di “avere assistito e difeso in qualità di parte civile la moglie del signor C. D. nel procedimento penale a carico di costui celebrato prima che fosse decorso il biennio dalla cessazione del rapporto professionale con il sig. C. D. e ciò in violazione dell’art. 68, 1° comma Codice Deontologico”.
Il procedimento si è concluso con l’irrogazione della censura.
Il gravame dell’avv. M. è stato respinto dal Consiglio nazionale forense (CNF) e avverso la relativa sentenza è ora proposto ricorso per cassazione in tre motivi, illustrati da memoria.
Gli intimati non hanno svolto difese.
Motivi della decisione
I. – Col primo motivo il ricorrente denunzia la violazione o falsa applicazione degli artt. 23 e 68 del codice deontologico forense emanato a seguito della legge 31/12/2012, n. 247, perché il rapporto professionale con D. C. aveva avuto a oggetto vicende relative all’impresa individuale del medesimo, sicché la “parte assistita” in quel caso doveva reputarsi identificabile non col C. quale persona fisica ma, per l’appunto, con l’impresa, in relazione ai “beni giuridici” a essa relativi.
II. - Il motivo non ha fondamento.
L’art. 68 della l. cit. prevede che “l’avvocato può assumere un incarico professionale contro una parte già assistita solo quando sia trascorso almeno un biennio dalla cessazione del rapporto professionale”.
Dalla circostanza che la norma adoperi il termine “parte”, anziché quelli di “cliente” o “persona”, non può pretendersi (come invece fa il ricorrente) che la norma abbia alluso al soggetto non in quanto tale ma in relazione alle posizioni giuridiche coinvolte nell’affare affidato all’avvocato.
Ciò è in dissidio con la più elementare logica, non soltanto giuridica, poiché ai fini dell’illecito disciplinare rileva il nocumento d’immagine cagionato alla professione forense nel caso in cui l’avvocato, dopo aver assunto la difesa di un soggetto, diventi difensore di un suo avversario senza che sia trascorso un adeguato intervallo temporale.
La tesi del ricorrente determinerebbe l’effetto di sterilizzare il significato stesso della formula impiegata dal legislatore, per la necessità di discernere “il bene giuridico effettivamente difeso” al di là del soggetto che abbia postulato di esserne titolare.
In altre parole, dire che oggetto dell’anteriore rapporto professionale non era “la persona” di C. bensì l’affare, che nel concreto aveva avuto a oggetto il recupero di crediti relativi alla ditta individuale, implica l’artificio di identificare il soggetto con l’affare in sé, in netta violazione del testo - chiarissimo – oltre che della evidente ratio della previsione evocata.
III. - Né d’altronde nel caso della ditta individuale esiste un’impresa che possa dirsi distinta dal soggetto che ne è titolare.
La ditta individuale non è un soggetto diverso dal titolare, ma è semplicemente il nome col quale l'imprenditore esercita la sua attività. Pertanto non è possibile a nessun effetto di legge attribuire soggettività giuridiche distinte alla ditta individuale e alla persona fisica che con tale denominazione si identifica nell'esercizio della sua attività d’impresa (v. in modo costante Cass. Sez. 3 n. 2255-73, Cass. Sez. 1 n. 1650-74, Cass. Sez. 3 n. 8246-87, Cass. Sez. 1 n. 8784-98, Cass. Sez. 3 n. 9260-10 e moltissime altre finanche non massimate).
In questa prospettiva non è necessario più di tanto rimarcare l’ovvia differenza, a fini disciplinari, che corre rispetto al caso – da queste Sezioni Unite affrontato – in cui l'avvocato abbia svolto invece incarichi professionali in favore di una società in nome collettivo e, di seguito, difeso alcuni dei soci (Cass. Sez. U n. 8337-22).
Ciò anche a voler prescindere dal fatto che nei rapporti tra avvocato e cliente la nozione di conflitto di interessi, rilevante ai sensi del richiamato e complementare art. 24 del vigente codice deontologico forense, comprende tutti i casi in cui, per qualsiasi ragione, il professionista si ponga processualmente in antitesi con il proprio assistito (v. Cass. Sez. U n. 7030-21).
IV. – Nel secondo motivo il ricorrente chiede la sospensione dell’impugnata sentenza per le conseguenze relative all’esclusione dagli elenchi degli avvocati abilitati al patrocinio a spese dello Stato, giacché secondo l’art. 81 del d.P.R. n. 115/2002 “è cancellato di diritto dall’elenco l’avvocato per il quale è stata disposta una disciplinare superiore all’avvertimento”.
L’assunto del ricorrente non costituisce motivo di censura e l’istanza di sospensione cautelare è assorbita dalla pronuncia della decisione sul ricorso per cassazione.
V. - In via subordinata, nel terzo motivo, si eccepisce l’estinzione dell’illecito “per intervenuta prescrizione dell’azione disciplinare – art. 56 l. 247/2012 – (..) seppur non ancora maturata”.
L’assunto non integra un motivo di censura ma una sollecitazione alla verifica d’ufficio della decorrenza del termine.
In questa prospettiva è sufficiente rilevare che il termine non è decorso.
L’illecito disciplinare di cui si tratta è integrato dall’attività di difesa e assistenza svolta dall’avv. M. in favore della moglie del C. mediante l’assunzione dell’incarico finalizzato alla costituzione di parte civile nel processo penale.
La costituzione è avvenuta all’udienza penale del 19-1-2016. L’incarico si dice esser stato assunto il 23-12-2015.
L’art. 68, primo comma, del codice deontologico forense prevede che “l’avvocato può assumere un incarico professionale contro una parte già assistita solo quando sia trascorso almeno un biennio dalla cessazione del rapporto professionale”.
Il riferimento è quindi all’assunzione dell’incarico.
Ma nel caso concreto il momento di assunzione dell’incarico è equivoco laddove tratto – come il ricorrente pretende - dalla semplice data scritta in calce all’atto di costituzione di parte civile.
Occorre invece far leva sulla data di consumazione desunta dal momento di costituzione di parte civile (19-1-2016), nella quale la rilevanza dell’assunzione dell’incarico è certa a fronte del suo effettivo espletamento.
In tal caso il termine massimo al quale il ricorrente allude (sette anni e mezzo dal fatto) è destinato a spirare il 19-7-2023.
VI. – A ogni modo lo stesso ricorso dispensa il collegio da ulteriori considerazioni, perché anche a ritenere probante, quale data di assunzione dell’incarico, ciò che ivi è scritto alternativamente – in propensione della data (23-12-2015) che compare in calce all’atto di costituzione -, il termine di prescrizione non sarebbe egualmente decorso, essendo destinato a spirare il 23-6-2023.
VII. – In conclusione, il ricorso è rigettato.
P.Q.M.
La Corte, a sezioni unite, rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello relativo al ricorso, se dovuto.