
L'art. 1115 c.c. non ostacola il diritto del compartecipe di esercitare il suo diritto di regresso in sede di divisione, fermo restando che egli non potrà ottenere il controvalore in natura del bene ma dovrà accontentarsi del pagamento per equivalente.
La vicenda si inserisce nella causa di scioglimento della comunione di un appartamento acquistato dagli ex coniugi mediante accensione di un mutuo ipotecario intestato ad entrambi. In tale contesto, il Giudice di primo grado rigettava la domanda avanzata dalla ex moglie per ottenere il rimborso pro quota dei ratei di mutuo pagati dopo la...
Svolgimento del processo
Nella causa di scioglimento della comunione fra gli ex coniugi S.M.G. e I. F., relativamente a un appartamento acquistato tramite accensione di un mutuo ipotecario intestato a entrambi i comproprietari, il Tribunale adito, nell’assegnare l’immobile alla S., rigettava la domanda di rimborso pro quota dei ratei di mutuo pagati dall’assegnataria dopo la predisposizione del progetto da parte del consulente. Secondo il primo giudice, il consulente avrebbe tenuto conto del debito già in sede di valutazione del cespite comune ai fini dell’assegnazione. La Corte d’appello, investita con l’appello della S., ha tenuto fermo il disconoscimento del rimborso, sulla base però di una diversa ragione, fondata sull’applicabilità dell’art. 1115 c.c. Secondo la corte territoriale, tale norma riconosce, in favore del compartecipe il quale abbia pagato un debito solidale, il rimborso dei soli debiti già scaduti o che scadano entro l’anno dalla domanda di divisione (e se questa è veicolata in un giudizio contenzioso, entro l’anno dalla predisposizione del progetto). Pertanto, al fine del recupero dei ratei pagati successivamente al 30 novembre 2009 (predisposizione del progetto) e sino alla data della decisione, la S. avrebbe dovuto agire in separato giudizio in via di regresso ai sensi dell’art. 1299 c.c. La Corte d’appello ha confermato la decisione di primo grado anche nella parte in cui furono riconosciuti in favore del comproprietario i frutti per il godimento esclusivo della cosa da parte della S..
Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione S. M.G., sulla base di due motivi. Si difende con controricorso I. F..
Motivi della decisione
La ricorrente censura la sentenza impugnata sulla base di due motivi, come segue riassunti:
1) violazione e falsa applicazione degli artt. 1114 - 1115 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., per avere la Corte negato il rimborso delle rate di mutuo sulla base di una preclusione non applicabile nell’ipotesi, quale quella in esame, in cui la divisione sia operata mediante attribuzione della cosa intera in favore di uno dei comunisti.
2) violazione dell’art. 1148 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 e 5 c.p.c. per avere la Corte di Appello di Catania confermato il capo della sentenza di primo grado con il quale era stata accolta la domanda dello Iacono, il quale aveva preteso e ingiustamente ottenuto il ristoro dei frutti in dipendenza dell’uso esclusivo dell’appartamento da parte della S..
Il primo motivo sfugge alle eccezioni di inammissibilità formulate dal controricorrente. Esso, seppure non sempre in modo limpido, denuncia una violazione di legge e non un errore nella ricostruzione delle risultanze istruttorie.
Il motivo, oltre che ammissibile, è anche fondato. In base all’art. 1115 c.c. ogni condividente può esigere che siano estinte le obbligazioni in solido contratte per la cosa comune e già scadute o scadenti entro l’anno dalla domanda di divisione. È evidente la ragione pratica che ha ispirato la norma: i comunisti hanno interesse alla liquidazione immediata del credito, almeno per evitare che, a scioglimento avvenuto, uno qualunque possa essere chiamato a rispondere e non abbia modo di rifarsi con azioni di regresso verso i condebitori solidali. La norma, nel secondo comma, prevede i modi di realizzazione della somma da pagare, aggiungendo, nel terzo comma, che il compartecipe, il quale abbia estinto il debito solidale prima dello scioglimento, ha diritto di avere il rimborso sotto forma di incremento di quota al momento della divisione. Secondo Cass. n. 20841/2013 il terzo comma della norma dell’art. 1115 c.c. è correlato al secondo, per cui il compartecipe, il quale abbia pagato debiti solidali solido fuori dai limite temporali previsti nel secondo comma, non potrebbe pretendere il rimborso in natura tramite l’incremento di quota, non potendo pertanto aspirare a trasformare il suo diritto di credito in un diritto reale (cfr. Cass. n. 27086/2020).
La norma in esame, in altre parole, introduce un limite temporale nella identificazione dei debiti in solido rilevanti agli effetti di tale trasformazione, il che non vuol dire, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte d’appello, che il compartecipe, nella situazione considerata, non potrebbe neanche esercitare il diritto di regresso in sede in sede di divisione. La domanda di regresso, nei limiti delle comuni preclusioni, è invece incondizionatamente ammissibile, fermo restando, in base al principio sopra richiamato, che il compartecipe, il quale abbia pagato il debito scaduto oltre quel limite temporale, non potrebbe aspirare ad avere il controvalore in natura, ma dovrebbe accontentarsi del pagamento per equivalente, salva la compensazione con i crediti degli altri per diverso titolo.
La Corte d’appello, pertanto, avrebbe dovuto esaminare e decidere sulla richiesta della compartecipe, che non trovava alcun ostacolo in quanto dispone l’art. 1115 c.c. Si deve ancora aggiungere che la norma riguarda le sole obbligazioni che si siano contratte nell’interesse della cosa comune, vale a dire nella gestione di questa da parte di chi rappresentava la comunione, mentre nella specie si trattava del mutuo ipotecario contratto per l’acquisto. Tale aspetto rende ancora più evidente l’errore commesso dalla Corte di merito, la quale, in fin dei conti, era stata investita di una domanda di regresso proposta dalla convenuta nel giudizio divisorio verso l’altro compartecipe, anche con riferimento a pagamento avvenuti in corso di causa, domanda che non incorreva in alcuna preclusione ulteriore oltre a quelle valevoli in genere per l’ordinario giudizio di merito; giova piuttosto rimarcare che circa l’ammissibilità, in linea di principio, di una tale domanda, la Corte d’appello, a prescindere dalla inconfigurabile preclusione ravvisata nell’art. 1115 c.c., non ha sollevato alcuna riserva.
Il secondo motivo, il quale censura violazione di legge e omesso esame di un fatto decisivo, è inammissibile.
Quanto alla denunziata violazione dell’art. 1148 c.c., la norma riguarda il diverso caso diverso caso della sorte dei frutti naturali o civili percepiti dal possessore di buona fede tenuto a restituire la cosa al rivendicante (Cass. n. 20394/2013). La norma non estende la propria sfera di operatività fuori dell'ambito della sfera possessoria, essendo l'obbligo del comunista, relativamente alla restituzione dei frutti goduti manente comunione in virtù del godimento esclusivo di un bene comune, disciplinato in base a regole diverse. Costituisce principio acquisito nella giurisprudenza della Corte che il comproprietario, il quale abbia il godimento di uno dei beni comuni senza un titolo giustificativo, deve corrispondere agli altri, quale ristoro per la privazione dell’utilizzazione pro quota del bene comune e dei relativi profitti, i frutti civili. Questi, identificandosi con il corrispettivo del godimento dell’immobile che si sarebbe potuto concedere ad altri, possono, solo in mancanza di altri più idonei parametri, essere individuati nei canoni di locazione percepibili per l’immobile (Cass. n. 7716/1990; n. 7881/2011; n. 17876/2019).
Risulta chiaramente dalla giurisprudenza della Suprema corte che l’obbligo dei vari partecipanti alla comunione di non esercitare il godimento diretto della cosa comune, che di norma compete a ciascun partecipante ai sensi dell’art. 1102 c.c., sorge solo se ed in quanto venga deliberato, in sede di amministrazione della cosa comune, di procedere alla sua utilizzazione con la forma del godimento indiretto. In difetto di una siffatta delibera, ove l’immobile venga usato di fatto da uno soltanto dei comproprietari, con il consenso espresso o tacito e comunque senza l’opposizione degli altri aventi diritto, non può in ciò configurarsi un impedimento a che gli altri partecipanti possano usare della cosa comune secondo il loro diritto, in guisa da concretare una violazione dei limiti che sono stabiliti dall’art. 1102 c.c. all’uso della cosa comune da parte dei vari partecipanti (Cass. n. 2902/1974; n. 4131/2001; n. 22435/2011).
In questo ordine di idee è stato precisato che il semplice godimento esclusivo da parte del singolo comunista non può provocare un danno ingiusto nei confronti di coloro che hanno mostrato acquiescenza all’altrui uso esclusivo, quando non risulti provato che i beneficiari del godimento esclusivo del bene, ne abbiano tratto anche un vantaggio patrimoniale (Cass. n. 13036/1991; n. 24647/2010; n. 2423/2015).
Il principio, appunto, implica l’acquiescenza all’altrui uso e questa non sussiste più, per la contraddizione che non lo consente, nel momento in cui il comproprietario abbia chiesto, come nella specie, il rilascio dell’immobile, o più semplicemente abbia avanzato una istanza di resa del conto. Infatti, il rendiconto fra coeredi include ogni atto di godimento separato della cosa comune, suscettibile di risolversi in un credito verso gli altri: non solo, perciò, la riscossione dei canoni da terzi dei beni eventualmente locati, ma anche il godimento diretto esercitato dal singolo oltre i limiti stabiliti dall’art. 1102 c.c. (Cass. n. 21906/2021).
La decisione impugnata, seppure con una motivazione non sempre coerente, ha fatto corretta applicazione di questi principi. La Corte d’appello ha innanzitutto menzionato la istanza, rivolta dal comproprietario alla S., di rilascio dell’appartamento; ciò posto ha ritenuto strumentale la disponibilità della S. verso l’uso promiscuo, che la Corte d’appello ha ritenuto nella specie non praticabile; ha aggiunto che nessuna “prontezza” fu invece manifestata dalla stessa S. verso la soluzione, sicuramente praticabile, di concedere l’immobile in locazione a terzi.
In rapporto a queste considerazioni del giudice di merito è chiaro che, sotto l’egida del vizio di violazione di legge, la ricorrente intende piuttosto un ripetere un giudizio sul merito, qui non più censurabile, se non nei ristretti limiti di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. (come perimetrati da Cass., sez. un., n. 8053/2014). Nella rubrica del motivo è invero menzionato anche l’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., ma la deduzione è del vizio è invocata genericamente ed in modo apodittico. La ricorrente non ha enunciato in cosa esso si sarebbe sostanziato. Si deve ancora aggiungere che la stessa censura è radicalmente inammissibile in presenza di doppia conforme, ai sensi dell’art. 348-bis, commi 4 e 5, c.p.c. (Cass. 3 novembre 2020, n. 24395).
In conclusione, in accoglimento del primo motivo, la sentenza impugnata va cassata, con rinvio innanzi alla Corte d'appello di Catania, in diversa composizione, perché decida sulla domanda di rimborso pro quota dei ratei di mutuo pagati dalla compartecipe sino alla definizione del giudizio divisorio. Alla stessa si demanda anche la liquidazione delle spese di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il primo motivo di ricorso; rigetta il secondo motivo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto; rinvia la causa alla Corte d'appello di Catania in diversa composizione anche per la pronuncia sulle spese di legittimità.