Con la pronuncia in commento, la Cassazione inquadra la responsabilità del danno cagionato da cosa in custodia alla luce della più recente giurisprudenza, precisando quando può dirsi sussistente il caso fortuito.
La Corte d'Appello di Venezia accoglieva il gravame proposto dal Comitato contro la decisione del Giudice di prime cure, rigettando la domanda dell'attuale ricorrente di risarcimento dei danni patiti per via di una caduta su un'asse sconnessa della pedana in legno fornita al Comitato dal Comune. In sintesi, la danneggiata si era procurata una frattura al polso mentre era...
Svolgimento del processo
1.– Con ricorso affidato a due motivi, P. N. ha impugnato la sentenza della Corte di appello di Venezia, resa pubblica in data 11 ottobre 2019, che, in accoglimento del gravame interposto dal Comitato V. P. avverso la decisione del Tribunale della medesima Città, ne rigettava la domanda di risarcimento dei danni patiti in conseguenza delle lesioni (frattura del polso sinistro) riportate per una caduta dovuta ad inciampo su un’asse sconnessa della pedana di legno – di proprietà del Comune di J. e fornita dall’anzidetto Comitato, delimitata da quattro pali in ferro uniti da un nastro bianco-arancione e senza margini di protezione ai lati - su cui stava esibendosi in un ballo di gruppo; di qui, la condanna alla restituzione di quanto già corrispostole in forza della sentenza di primo grado.
2.– La Corte territoriale, a fondamento della decisione (e per quanto ancora rileva in questa sede), osservava che: a) non sussisteva la responsabilità, ai sensi dell’art. 2051 c.c., del Comitato V. P., custode della pedana sulla quale si era svolto il ballo di gruppo; b) alla luce delle emergenze probatorie (interrogatorio formale della N.; deposizioni dei testi G., G., V. e P.), doveva, infatti, ritenersi che l’attrice era “caduta per causa del tutto accidentali”, non essendo la “perdita di equilibrio” stata “affatto provocata dalla presenza di un’asse sconnessa”, bensì era “riconducibile all’esuberanza nel ballare ed alla scarsa attenzione e diligenza prestata nel procedere con passi di danza all’indietro, ben consapevole che la pedana fosse sopraelevata rispetto al piano stradale e che la sua superficie, formata da travi di legno, offriva minori garanzie di stabilità e di uniformità rispetto a una pavimentazione fissa”; c)nella specie, quindi, ricorreva “il caso fortuito, inteso quale comportamento della stessa danneggiata”, alla quale erano da imputarsi, pertanto, le conseguenze dannose derivate dalla sua persona, così da doversi escludere ogni addebito di responsabilità al Comitato, essendo la pedana “conforme alla normativa in materia di sicurezza”, autorizzata dal Comune di J., non necessitante di recinzioni in quanto di altezza inferiore a cm. 80 e, comunque, dotata di nastro legato ai pali che ne delimitavano il perimetro e adeguatamente illuminata.
3.– Resiste con controricorso il Comitato V. P., che ha anche proposto ricorso incidentale sulla base di un motivo.
Non ha svolto attività difensiva in questa sede l’intimato Comune di J..
Motivi della decisione
Ricorso principale
1.– Con il primo mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., violazione dell’art. 2051 c.c., per aver la Corte territoriale “ravvisato il caso fortuito nella condotta della danneggiata, senza indagare sulla sussistenza della prevedibilità di quella condotta, da parte del custode”.
2.– Con il secondo mezzo è dedotta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., violazione dell’art. 115 c.p.c., per aver la Corte territoriale “fondato la decisione, in merito alla condotta della danneggiata, su prove reputate esistenti, ma mai offerte”.
A tal riguardo, la ricorrente sostiene che “(n)essuno dei testi escussi” avrebbe «riferito quanto dichiarato dalla Corte in merito alla condotta di ballo della danneggiata, fatta eccezione del teste M. G., che ha dato un giudizio, definendo “molto plateale” il suo modo di ballare», là dove, poi, essa attrice, in sede di interpello, aveva soltanto “descritto il modo di ballare la polka”.
2.1.– I due motivi, da scrutinarsi congiuntamente in quanto strettamente connessi, sono in parte infondati e in parte inammissibili.
2.2.– All’esame delle relative censure occorre premettere quanto segue.
Nell’anno 2018, questa Sezione ritenne indispensabile operare l’intervento nomofilattico in tema di responsabilità per cose in custodia (art. 2051 c.c.), consapevole del disordine interpretativo riscontrato nella giurisprudenza di merito e delle incertezze ermeneutiche emerse nella sua stessa giurisprudenza. Il tutto in una materia particolarmente rilevante per gli aspetti giuridici, sociali ed economici, coinvolgenti soggetti sia privati che pubblici.
Nell’anno 2022 sono intervenute, poi, le Sezioni Unite di questa Corte, chiamate ad esprimersi intorno a criticità e distonie emerse nella giurisprudenza di legittimità.
Sussiste, dunque, la necessità di apportare un definitivo contributo chiarificatore sulla materia in trattazione, attraverso i punti che si vanno ad esporre.
- Non è ulteriormente discutibile che la responsabilità di cui all’art. 2051 cod. civ. abbia natura oggettiva, come affermato da questa sezione con le decisioni nn. 2477-2483 rese pubbliche in data 1/02/2018, alla luce delle origini storiche della disposizione codicistica, dell’affermazione di fattispecie di responsabilità emancipate dal principio nessuna responsabilità senza colpa, dei criteri di accertamento del nesso causale e della esigibilità (da parte dei consociati) di un’attività di adeguamento della condotta in rapporto alle diverse contingenze nelle quali vengano a contatto con la cosa custodita da altri.
- Tale qualificazione ha ricevuto una definitiva conferma dalle Sezioni Unite di questa Corte che, con la decisione n. 20943 del 30/06/2022, dopo aver diacronicamente ripercorso le tappe segnate (talvolta in modo dissonante) dalla giurisprudenza questa sezione, hanno ribadito che «La responsabilità di cui all’art. 2051 c.c. ha carattere oggettivo, e non presunto, essendo sufficiente, per la sua configurazione, la dimostrazione da parte dell’attore del nesso di causalità tra la cosa in custodia ed il danno, mentre sul custode grava l’onere della prova liberatoria del caso fortuito, senza alcuna rilevanza della diligenza o meno del custode».
- All’affermazione di tale principio, di carattere generale (punto 9 della decisione), le Sezioni Unite hanno poi fatto seguire ulteriori, altrettanto generali precisazioni, così sintetizzabili (punti 8.4. e ss. della sentenza n. 20943/2022):
a) "l’art. 2051 c.c., nel qualificare responsabile chi ha in custodia la cosa per i danni da questa cagionati, individua un criterio di imputazione della responsabilità che prescinde da qualunque connotato di colpa, sicché incombe al danneggiato allegare, dandone la prova, il rapporto causale tra la cosa e l’evento dannoso, indipendentemente dalla pericolosità o meno o dalle caratteristiche intrinseche della prima";
b) "la deduzione di omissioni, violazioni di obblighi di legge di regole tecniche o di criteri di comune prudenza da parte del custode rileva ai fini della sola fattispecie dell’art. 2043 c.c., salvo che la deduzione non sia diretta soltanto a dimostrare lo stato della cosa e la sua capacità di recare danno, a sostenere allegazione e prova del rapporto causale tra quella e l’evento dannoso";
c) "il caso fortuito, rappresentato da fatto naturale o del terzo, è connotato da imprevedibilità ed inevitabilità, da intendersi però da un punto di vista oggettivo e della regolarità causale (o della causalità adeguata), senza alcuna rilevanza della diligenza o meno del custode; peraltro le modifiche improvvise della struttura della cosa incidono in rapporto alle condizioni di tempo e divengono, col trascorrere del tempo dall’accadimento che le ha causate, nuove intrinseche condizioni della cosa stessa, di cui il custode deve rispondere";
d) "il caso fortuito, rappresentato dalla condotta del danneggiato, è connotato dall’esclusiva efficienza causale nella produzione dell’evento; a tal fine, la condotta del danneggiato che entri in interazione con la cosa si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull’evento dannoso, in applicazione anche ufficiosa dell’art. 1227 c.c., comma 1; e deve essere valutata tenendo anche conto del dovere generale di ragionevole cautela riconducibile al principio di solidarietà espresso dall’art. 2 Cost.;
e) quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione da parte dello stesso danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando lo stesso comportamento, benché astrattamente prevedibile, sia da escludere come evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale".
- I principi appena evocati sanciscono in via definitiva l’attuale statuto della responsabilità del custode, il cui fondamento riposa, pertanto, su elementi di fatto individuati tanto in positivo - la dimostrazione che il danno è in nesso di derivazione causale con la cosa custodita (la sequenza è quella che muove dall’accertamento di un danno giuridicamente rilevante per risalire alla sussistenza di una relazione causale tra l’evento dannoso e la cosa custodita e si chiude con l’imputazione in capo al custode dell’obbligazione risarcitoria, dalla quale il custode si libera giusta il disposto dell’art. 2051 c.c., provando il caso fortuito) – quanto in negativo (l’inaccettabilità di una mera presunzione di colpa in capo al custode e l’irrilevanza della prova di una sua condotta diligente).
- Nel confermare tali principi, in ossequio all’insegnamento delle Sezioni Unite, mette ancora conto di precisare, sul piano della struttura della fattispecie (non su quello degli effetti, che risultano ormai definitivamente scolpiti dal massimo organo della nomofilachia) che il caso fortuito appartiene alla categoria dei fatti giuridici e si pone in relazione causale diretta, immediata ed esclusiva con la res, senza intermediazione di alcun elemento soggettivo; mentre la condotta del terzo e la condotta del danneggiato rilevano come atto giuridico caratterizzato dalla colpa (art. 1227, primo comma, c.c.), con rilevanza causale esclusiva o concorrente (sul concorso tra causa umana e causa naturale, Cass. n. 21619/2007), intesa, nella specie, come caratterizzazione di una condotta oggettivamente imprevedibile ed oggettivamente imprevenibile da parte del custode.
- Va ancora osservato, in proposito, che sia il fatto (fortuito) che l’atto (del terzo o del danneggiato) si pongono in relazione causale con l’evento di danno non nel senso della (impropriamente definita) "interruzione del nesso tra cosa e danno", bensì alla luce del principio disciplinato dall’art. 41 c.p., che relega al rango di mera occasione la relazione con la res, deprivata della sua efficienza di causalità materiale, senza peraltro cancellarne l’efficienza causale sul piano strettamente naturalistico. Ciò tanto nell’ipotesi di efficacia causale assorbente, quanto di causalità concorrente di tali condotte, poiché, senza la preesistenza e la specifica caratterizzazione della res, il danno non si verificherebbe (esemplificando: una strada perfettamente asfaltata e senza buche non sarà in relazione causale, se non naturalistica, con il danno subito dal pedone che inciampa nei suoi piedi).
- Il dato normativo va, pertanto, applicato governando la costruzione funzionale dell’illecito e raccordandola con la modulazione dei rimedi ad esso conseguenti, vale a dire tenendo conto che il sistema risarcitorio si fonda non solo sulla capacità preventiva della colpa (giustizia correttiva), ma anche sul soddisfacimento di esigenze meramente compensative (giustizia redistributiva, cioè il trasferimento del peso economico di un evento pregiudizievole dal danneggiato su chi abbia la signoria della cosa) e, non da ultimo, muovendosi con la consapevolezza che quello causale, essendo un “giudizio” utilizzato per allocare i costi del danno, deve essere calibrato in relazione alla specifica fattispecie di responsabilità; costituisce, difatti, il proprium della responsabilità civile il presentarsi “a geometria variabile, perché moltiplica le sue possibilità a seconda degli istituti con cui si fonde, facendo scattare principi anche solo lievemente diversi ma con implicazioni notevoli sulla allocazione finale dei costi, sulla prevenzione, sulla sostenibilità nel tempo della sua promessa (il risarcimento del danno)”.
- L’irrilevanza della colpa, quale criterio per risalire al responsabile, è condizione necessaria ma non sufficiente per attribuire alla responsabilità di cui all’art. 2051 cod. civ. natura oggettiva. Essa fa giustizia di quei modelli di ragionamento che evocano la presunzione di colpa, la quale individua il fondamento della responsabilità pur sempre nel fatto dell’uomo - il custode - venuto meno al suo dovere di controllo e vigilanza affinché la cosa non abbia a produrre danno a terzi (Cass. 20/05/1998, n. 5031), ma non anche della teoria del riconoscimento di una presunzione di responsabilità in capo al custode, giustificata ritenendo che, se la cosa fosse stata ben governata e controllata, non avrebbe arrecato alcun danno, mentre se il danno si verifica (fatto noto) si presume che ciò sia avvenuto perché la cosa non è stata adeguatamente custodita (fatto ignoto); da tale presunzione di responsabilità il custode si libererebbe dimostrando, in ragione dei poteri che la particolare relazione con la cosa gli attribuisce, che il danno si è verificato in modo non prevedibile né superabile con lo sforzo diligente adeguato alle concrete circostanze del caso.
- Ritenere che sul custode gravi una presunzione di responsabilità – esclusa espressamente, come si è detto, dalla già ricordata pronuncia delle Sezioni Unite – è indice di una resistenza ad emanciparsi dalla colpa che, infatti, viene evocata in via surrettizia non per fondare, in via di regola, la responsabilità del custode, ma (comunque) per escluderla in via di eccezione. La capacità di vigilare la cosa, di mantenerne il controllo, di neutralizzarne le potenzialità dannose, difatti, non è elemento costitutivo della fattispecie di responsabilità, bensì elemento estrinseco del quale va tenuto conto alla stregua di canone interpretativo della ratio legis, cioè come strumento di spiegazione di “un effetto giuridico che sta a prescindere da essi”. L’intento di responsabilizzare il custode della res o di controbilanciare la signoria di fatto concessagli dall’ordinamento affinché ne tragga o possa trarne beneficio sulla cosa con l’obbligazione risarcitoria (Cass. 01/02/2018, n. 2480, § § 11 e 12) possono essere criteri di spiegazione del criterio scelto per allocare il danno, ma non sono elementi costitutivi della regola di fattispecie né elementi di cui tener conto per escludere l’obbligazione risarcitoria in capo al custode.
- Non è stata fornita una definizione normativa della custodia da parte del legislatore del 1942 perché l’art. 2051 cod. civ. si è limitato a tradurre l’espressione francese sous sa garde che appariva nell’art. 1384, 1° comma, Code Napoleon. Questa Corte (Cass., Sez. Un., 11/11/1991, n. 12019) ha, tuttavia, avuto già occasione di rilevare le diverse accezioni della portata della custodia come criterio di determinazione della responsabilità rinvenienti dalle fonti romane e ha ritenuto di poterle raggruppare nelle seguenti categorie: a) quella che si riallaccia alla configurazione giustinianea per cui la custodia non è che un particolare tipo di diligentia; b) quella custodiendae rei, la quale rimane un criterio soggettivo di responsabilità; c) quella più recente che individua il concetto di custodia nella responsabilità oggettiva. A quest’ultima, che “si concretizza in un criterio oggettivo di responsabilità, intendendo per tale quello che addossa a colui che ha la custodia della cosa la responsabilità per determinati eventi, indipendentemente dalla ricerca di un nesso causale fra il comportamento del custode e l’evento”, ha ricondotto quella rilevante ai sensi dell’art. 2051 cod. civ.
- Non può mettersi in dubbio che, per individuare il responsabile, non debba farsi riferimento alla custodia di fonte contrattuale (Cass. 18/02/2000, n. 1859; Cass. 20/10/2005, n. 20317), siccome l’articolo 2051 cod. civ. attiene ai rapporti con i terzi danneggiati dalla cosa oggetto di custodia, né possono nutrirsi riserve circa il fatto che, trattandosi di una relazione meramente fattuale, non sia giustificato un mero rinvio ad altri istituti come la proprietà, i diritti reali minori, il possesso, la semplice detenzione; la relazione giuridica con la cosa non è elemento costitutivo della responsabilità, a differenza di quanto previsto dagli artt. 2052, 2053, 2054 cod. civ., sicché responsabile ex art. 2051 cod. civ. può ben essere un soggetto diverso da quello che abbia un titolo giuridico sulla res (Cass. 6/07/2006, n. 153684), atteso che rileva esclusivamente la relazione di fatto di natura custodiale, a prescindere finanche dal se essa sia titolata. L’applicazione dell’art. 2051 cod. civ. si arresta soltanto dinanzi alle cose insuscettibili di custodia in termini oggettivi (acqua, aria): Cass. 20/02/2006, n. 3651.
- L’indeterminatezza della nozione di caso fortuito, talvolta declinato in termini di polivalenza, consente (è bensì vero) di considerare il fortuito tanto come limite della responsabilità per colpa quanto come limite della causa di imputazione della responsabilità. Nondimeno, quando il caso fortuito è evocato espressamente da una norma, come in questo caso, la sua nozione deve essere riempita di contenuto in correlazione con il contesto e con la ratio legis. Per quanto non decisivo, in orienta tal senso anche il tenore letterale dell’art. 2051 cod.civ (“Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”) se confrontato con quello dell’art. 2050 cod. civ. (“Chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di un’attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento, se non prova di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno”), dell’art. 2053 cod. civ. (“Il proprietario di un edificio o di altra costruzione è responsabile dei danni cagionati dalla loro rovina, salvo che provi che questa non è dovuta a difetto di manutenzione o a vizio di costruzione”), dell’art. 2054 cod. civ. (“Il conducente di un veicolo senza guida di rotaie è obbligato a risarcire il danno prodotto a persone o a cose dalla circolazione del veicolo, se non prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno”).
- Il contenuto della prova liberatoria non solo è stato tipizzato dal legislatore, ma è stato differenziato secondo la regola di fattispecie di volta in volta presa in considerazione; quando la prova liberatoria è costituita dalla ricorrenza del caso fortuito (cfr. anche l’art. 2052 cod. civ. “Il proprietario di un animale o chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso, è responsabile dei danni cagionati dall’animale, sia che fosse sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito, salvo che provi il caso fortuito”) è segno che il legislatore non ha voluto che il custode (o il responsabile di cui all’art. 2052 cod. civ.) possa liberarsi provando di avere tenuto un comportamento diligente volto ad evitare il danno né la dimostrazione che il danno si sarebbe verificato nonostante la diligenza da lui esigibile, data l’imprevedibilità e l’inevitabilità dell’evento dannoso, tantomeno che l’intervento del caso fortuito abbia reso oggettivamente impossibile la custodia (utili indicazioni a supporto, ma con carattere di minore prossimità, possono trarsi anche dalle ipotesi in cui il legislatore non ha previsto la prova liberatoria, come nelle ipotesi di cui all’art. 2049 cod. civ. e all’art. 114 cod. consumo).
2.3.– Ciò premesso, la Corte territoriale ha fatto buon governo dei ricordati principi, avendo accertato (cfr. sintesi al § 2 del “Fatti di causa”, cui si rinvia integralmente; pp. 5-7 della sentenza di appello) l’esistenza della prova liberatoria ex art. 2051 c.c., in grado di elidere la responsabilità del custode, nella condotta della danneggiata, particolarmente incauta e priva di alcuna attenzione, normalmente attesa e prevedibile, in rapporto alle circostanze, che si è rivelata fattore (“atto giuridico”) connotato dall’esclusiva efficienza causale nella produzione dell’evento di danno, giacché idoneo a relegare la relazione con la res – la quale si presentava in uno stato che ne consentiva l’esatta percezione delle relative condizioni, rispettose della normativa in materia di sicurezza - al rango di mera occasione.
Lo stabilire se il danno sia stato cagionato dalla cosa o dal comportamento ragionevolmente incauto della stessa vittima o se vi sia concorso causale tra i due fattori costituisce valutazione propria del giudice di merito da compiere proprio sul piano del nesso eziologico, sottendendo un bilanciamento con i doveri di precauzione e cautela (tra le molte: Cass. n. 2480/2018; Cass., S.U., n. 20943/2022). E tale valutazione, come detto, la Corte territoriale ha compiuto sulla scorta delle risultanze istruttorie raccolte, ossia deposizioni testimoniali e interrogatorio formale dell’attrice.
E’, dunque, inammissibile la doglianza di violazione dell’art. 115 c.p.c., giacché la stessa può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre (tra le altre, Cass. n. 11892/2016 E tale è la critica – come detto, inammissibile - che muove la ricorrente alla Corte territoriale, adducendo che avrebbe mal interpretato le deposizioni testimoniali e l’interpello di essa attrice.
Ricorso incidentale
3.– Con l’unico motivo di ricorso incidentale il Comitato V. P. ha denunciato, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione dell’art. 91 c.p.c., per aver la Corte territoriale, nonostante l’accoglimento del gravame, compensato le spese di secondo grado del Comune di J., chiamato in causa da esso Comitato, senza, peraltro, addurre alcuna motivazione.
3.1.– Il motivo è fondato per quanto di ragione.
Occorre premettere, in linea di principio, che, in ragione della lata accezione con cui il termine “soccombenza” è assunto nell’art. 91 c.p.c., il rimborso delle spese processuali sostenute dal terzo chiamato in garanzia dal convenuto deve essere posto a carico dell’attore, ove la chiamata in causa si sia resa necessaria in relazione alle tesi sostenute dall’attore stesso e queste siano risultate infondate, a nulla rilevando che l’attore non abbia proposto nei confronti del terzo alcuna domanda, mentre il rimborso rimane a carico della parte che abbia chiamato o abbia fatto chiamare in causa il terzo qualora l’iniziativa del chiamante si riveli palesemente arbitraria (Cass. n. 23948/2019).
Tuttavia, tenuto conto della disposizione applicabile ratione temporis alla controversia - ossia, l’art. 92, secondo comma, c.p.c. nella formulazione introdotta dalla l. n. 69 del 2009 -, il giudice del merito ben può addivenire alla compensazione, totale o parziale, delle anzidette spese processuali, dovendo però indicare nella motivazione le “gravi ed eccezionali ragioni” che legittimano tale statuizione, le quali devono riguardare specifiche circostanze o aspetti della controversia decisa e non possono essere espresse con una formula generica inidonea a consentire il necessario controllo (tra le altre, Cass. n. 22310/2017; Cass. n. 9977/2010).
Ha, dunque, errato la Corte territoriale nel disporre la compensazione delle spese di lite del grado di appello nei confronti del Comune di J. senza adottare alcuna motivazione al riguardo.
4.– Va, dunque, rigettato il ricorso principale ed accolto quello incidentale, con conseguente cassazione della sentenza impugnata in relazione al ricorso accolto e rinvio della causa alla Corte di appello di Venezia, in diversa composizione, anche per la regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
rigetta il ricorso principale e accoglie il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso accolto e rinvia la causa alla Corte di appello di Venezia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.