La Cassazione precisa anche che non incorre nel divieto di mutatio libelli la curatela che, una volta indicate alcune specifiche rimesse di cui chiede la revoca, invoca, nello stesso atto introduttivo, la declaratoria di inefficacia delle ulteriori accertabili attraverso accertamenti tecnici.
Svolgimento del processo
Con sentenza n. 1955/2017, depositata il 5.5.2017, la Corte d’Appello di Napoli, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi n. 209/2013, e in accoglimento dell’appello proposto dalla curatela del Fallimento B.s.p.a., ha dichiarato inefficaci ex art 67 comma 2° legge fall. le rimesse effettuate dalla società poi fallita in favore della Banca Popolare di Bari per un importo complessivo di € 653.033,80, con conseguente condanna della Banca alla corresponsione in favore della curatela del Fallimento M. s.n.c. di M. A. della stessa somma, oltre accessori di legge.
Il giudice di secondo grado non ha condiviso l’impostazione del giudice di primo grado, il quale, dopo aver evidenziato che la curatela aveva nell’atto di citazione specificamente individuato solo dieci rimesse effettuate dalla società poi fallita in favore dell’istituto di credito, per un importo complessivo di € 334.412,41, aveva ritenuto che la declaratoria di inefficacia non potesse estesa a tutte le altre rimesse, non individuate dettagliatamente, compiute nell’atto anteriore alla dichiarazione di fallimento sul conto n. 150203, di cui la curatela aveva richiesto ulteriormente la revoca nelle conclusioni dello stesso atto di citazione “ per il diverso, maggiore o minore importo che il giudice vorrà stabilire, se del caso anche previa c.t.u.”.
Secondo la Corte d’Appello, la curatela, nel richiedere la declaratoria d’inefficacia alle ulteriori rimesse da accertarsi con il ricorso ad una consulenza contabile, non aveva inteso circoscrivere la domanda di inefficacia alle sole rimesse specificamente individuate, avendola voluta estendere a tutte le altre rimesse aventi natura solutoria risultanti dagli estratti contro.
Il giudice d’appello ha, inoltre, ritenuto tutte le rimesse in questione affluite su un conto scoperto, attesa l’inidoneità delle risultanze della Centrale Rischi a conferire data certa ai contratti di apertura di credito.
Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione la Banca Popolare di Bari S.c.p.a. affidandolo a sei motivi.
Il Fallimento B.s.p.a. ha resistito in giudizio con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato le memorie ex art. 380 bis.1 cod. proc. civ..
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo del ricorso è stata dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 cod. proc. civ., 2697 cod. civ. nonché omesso esame, ex art. 360 comma 1° n. 5 cod. proc. civ., di fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti: l’omessa corrispondenza tra chiesto e pronunciato, l’individuazione specifica d. 10 rimesse quantificate in € 334.412,41 ed il richiamo del CTU.
Deduce l’istituto di credito che la Corte d’Appello ha errato nel non ritenere la novità delle domande attoree allorché è stata invocata la revocabilità anche delle ulteriori rimesse individuate dal C.T.U.
In particolare, secondo la Banca, la Corte d’Appello avrebbe dovuto dichiarare inammissibili le ulteriori rimesse rispetto a quelle specificamente individuate nell’atto di citazione: così facendo, la Corte di merito ha avrebbe erroneamente consentito la proposizione, nel giudizio d’appello, di nuove domande che presentavano una variazione negli elementi identificativi rispetto all’azione proposta in primo grado ed è quindi stato introdotto un petitum diverso e più ampio.
Inoltre, con la formula “o altro diverso importo che il giudice vorrà stabilire, se del caso previa CTU”, vi era stato un inammissibile ampliamento della materia del contendere per rimesse non contemplate in citazione.
La banca ricorrente deduce, inoltre, che la curatela, nel richiedere l’individuazione delle rimesse tramite ctu, ha violato il principio processualcivilistico dell’onere della prova.
Infine, lamenta la Banca che la CTU non è mai pervenuta nei suoi conteggi all’importo di € 653.033,80, avendo individuato rimesse revocabili, nell’ipotesi in cui il conto fosse stato ritenuto affidato, in € 446.184,44. Dunque, la Corte aveva utilizzato un “numero” inesistente.
2. Il motivo è infondato.
Emerge dalla chiara ricostruzione della Corte d’Appello che la curatela, nel proprio atto di citazione, ha provveduto a individuare specificamente dieci rimesse revocabili per un importo complessivo di € 334.412,41 e, nelle conclusioni dello stesso atto di citazione, ha chiesto la revoca di “tutte” le rimesse, e quindi, non solo di quelle specificamente individuate nella citazione, ma anche di quelle aventi “ diverso, maggiore o minore importo che il giudice vorrà stabilire, del caso previa CTU”.
La precisa ricostruzione della Corte d’Appello consente di ritenere che la curatela non ha affatto ampliato, nel giudizio d’appello, il tema d’indagine oggetto del giudizio di primo grado, essendosi la procedura limitata a proporre impugnazione per ottenere – a differenza di quanto ritenuto dal giudice di primo grado - la declaratoria di inefficacia di quelle ulteriori rimesse solutorie, pur non specificamente individuate, di cui aveva già richiesto la revoca nell’atto di citazione.
Né, d’altra, parte, può ritenersi che incorra nel divieto di mutatio libelli la curatela che, dopo aver indicato in modo esemplificativo alcune specifiche rimesse oggetto di domanda revocatoria, invochi, sia pure con formula tralaticia o d’uso, la declaratoria di inefficacia di quelle ulteriori emergenti solo per mezzo di complessi accertamenti tecnici. In tale caso restano, infatti, comunque invariati la causa petendi e il petitum, ove la richiesta di revoca sia stata espressamente formulata con salvezza di eventuali modifiche anche in aumento, all’esito di una consulenza contabile.
Né, peraltro, può sostenersi che la Corte d’Appello, nel consentire la richiesta di revoca di rimesse pur non specificamente indicate dalla curatela, ma comunque da individuarsi a mezzo CTU da svolgersi con riferimento ad un arco temporale e ad uno specifico conto corrente (n. 150203), sia incorsa nella dedotta violazione del principio dell’onere di allegazione e prova, di cui all’art. 2697 cod. civ..
E’, infatti, principio consolidato di questa Corte che quando i fatti da accertare necessitano di specifiche conoscenze tecniche – ciò avviene per le ctu contabili anche in tema di rapporti bancari e finanziari – il Giudice può affidare al consulente non solo l’incarico di valutare i fatti accertati (consulenza cd. deducente), ma anche quello di accertare i fatti stessi (consulenza cd. percipiente). In tali casi, la consulenza costituisce essa stessa fonte oggettiva di prova ed è necessario e sufficiente che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il giudice ritenga che l’accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche (tra le tante, Cass. n. 4792/2013 e n. 3717/2019).
Deve, pertanto, enunciarsi il seguente principio di diritto:
“In tema di domanda giudiziale, non incorre nel divieto di mutatio libelli la curatela che, dopo aver indicato in modo esemplificativo alcune specifiche rimesse di cui abbia chiesto la revoca, invochi, nello stesso atto introduttivo del giudizio, sia pure con formula tralaticia o d’uso, la declaratoria di inefficacia delle ulteriori accertabili attraverso complessi accertamenti tecnici, restando, infatti, comunque invariati la causa petendi ed il petitum della domanda. In particolare, la richiesta di revoca di una somma determinata (con riferimento alle rimesse già individuate dalla curatela) non ha l’effetto di limitare il quantum domandabile, ove tale indicazione sia espressamente formulata con salvezza di eventuali modifiche, anche in aumento, all’esito di una consulenza contabile”.
Deve, inoltre, osservarsi che è inconferente il richiamo effettuato dalla parte ricorrente all’arresto di questa Corte n. 8579 del 28.4.2015.
In particolare, in tale pronuncia, questa Corte aveva affermato, al punto 3.1., che “l'indicazione delle ulteriori diverse rimesse nella memoria ex art. 183 c.p.c., comma 5, non poteva che essere intesa come una mutatio e non già semplice emendatio, perché la domanda era stata già dalla parte specificamente perimetrata “ in atto di citazione.
Il caso di specie è, invece, diverso, atteso che la curatela aveva già nell’atto introduttivo del giudizio richiesto la revoca delle rimesse ulteriori “per il diverso, maggiore o minore importo che il giudice vorrà stabilire, del caso previa CTU”, pur non individuandole specificamente, come avvenuto per le altre dieci.
Infine, le censure della banca sono inammissibili nella parte in cui contestano l’ammontare delle rimesse revocabili accertate dalla Corte d’Appello nell’importo di € 653.033,80, anziché nel minor importo indicato dal CTU.
Sul punto, la Corte d’Appello ha evidenziato che, posto che era incontroverso tra le parti che sul conto corrente di cui è causa erano state effettuate due diverse rimesse dello stesso importo di € 259.418,01, una del 31.12.2002 e l’altra del 10.6.2003, quest’ultima rimessa non avrebbe dovuto essere revocata nei limiti della somma di € 52.568,65 (come ritenuto dal giudice di primo grado sulla scorta della CTU), atteso che il fido non era risultato opponibile alla curatela e che dovevano ritenersi impugnate tutte le rimesse infrannuali ( e ciò alla luce della ritenuta inidoneità delle risultanze della Centrale Rischi ad attestare la data certa dei contratti di affidamento).
Con tali precise ed articolate argomentazioni la banca ricorrente non si è minimamente confrontata, limitandosi a dedurre genericamente che l’ammontare delle rimesse revocabili accertate dalla Corte d’Appello era diverso rispetto a quanto risultante dalla CTU.
Infine, è, altresì, inammissibile, il dedotto omesso esame di fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, non considerando la banca che quello che qualifica come “fatto decisivo” – omessa corrispondenza tra chiesto e pronunciato, individuazione specifica di 10 rimesse, etc. (vedi rubrica del primo motivo di ricorso, pag. 6 ricorso per cassazione), non è affatto riconducibile alla nozione di “fatto storico” (vedi Cass. S.U. n. 8053/2014), essendo solo il frutto di una propria valutazione.
3. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ. nonché l’omesso esame di fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti: la mancanza di prova della natura solutoria delle rimesse impugnate dal fallimento.
Deduce la banca che la curatela non ha assolto l’onere della prova nella individuazione delle rimesse solutorie e ciò sul rilievo che, ad avviso dello stesso istituto di credito, non tutte le rimesse affluite sul conto corrente di cui è causa erano pagamenti.
4. Il motivo è palesemente inammissibile, atteso che la banca, con l’apparente doglianza della violazione di legge, in realtà svolge una censura di merito, in quanto finalizzata a sollecitare una diversa ricostruzione dei fatti e differente valutazione del materiale probatorio rispetto a quella operata dalla Corte d’Appello. Inoltre, anche nel secondo motivo, quello che la Banca qualifica come “fatto decisivo” non è affatto riconducibile alla nozione di “fatto storico” (vedi Cass. S.U. n. 8053/2014), essendo solo il frutto di una propria valutazione.
5. Con il terzo motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ. nonché l’omesso esame di fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti: la mancanza di prova della cronologia dei singoli versamenti da parte del fallimento, il saldo disponibile e l’erronea applicazione del saldo infragiornaliero.
Lamenta la Banca che la Corte d’Appello ha riconosciuto l’esistenza di rimesse revocabili senza tener conto del fatto decisivo che il C.T.U. ha commesso errori metodologici che hanno gravemente inficiato i conteggi.
6. Anche il terzo motivo è palesemente inammissibile, in quanto con la Banca, con all’apparente doglianza della violazione di legge, contesta le risultanze della CTU e, quindi, la ricostruzione dei fatti operata dalla Corte di Appello che, con l’eccezione della rimessa del 31.12.2003 sopra esaminata, ne ha recepito integralmente le conclusioni.
In proposito, questa Corte ( vedi Cass. n. 11482/2016; conf. n. 19427/2017) ha più volte enunciato il principio di diritto secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, per infirmare, sotto il profilo della insufficienza argomentativa, la motivazione della sentenza
che recepisca le conclusioni di una relazione di consulenza tecnica d'ufficio di cui il giudice dichiari di condividere il merito, è necessario che la parte alleghi di avere rivolto critiche alla consulenza stessa già dinanzi al giudice a quo, e ne trascriva, poi, per autosufficienza, almeno i punti salienti, onde consentirne la valutazione in termini di decisività e di rilevanza, atteso che, diversamente, una mera disamina dei vari passaggi dell'elaborato peritale, corredata da notazioni critiche, si risolverebbe nella prospettazione di un sindacato di merito inammissibile in sede di legittimità.
Infine, anche relativamente al terzo motivo, quello che la Banca qualifica come “fatto decisivo” non è affatto riconducibile alla nozione di “fatto storico” (vedi Cass. S.U. n. 8053/2014), essendo solo il frutto di una propria valutazione.
7. Con il quarto motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 2704 cod. civ. con riguardo all’idoneità delle risultanze della Centrale Rischi a conferire data certa ai contratti di apertura di credito.
8. Il motivo presenta profili di infondatezza e inammissibilità.
Le risultanze della Centrale Rischi sono inidonee a conferire data certa ai contratti di apertura di credito, in considerazione della natura unilaterale di tali comunicazioni che le singole banche fanno alla Centrale Rischi della Banca d’Italia, la quale non è tenuta a svolgere alcun controllo sulla verità delle informazioni inviate (ossia sul fatto che siano o meno state concesse o revocate determinate linee di credito).
Ciò emerge incontestabilmente dalla circolare n. 139 dell’11.2.1991 della Banca d’Italia, la quale, alla sezione seconda, capitolo primo, denominato “Responsabilità e adempimenti generali degli intermediari partecipanti” (alla Centrale Rischi), stabilisce che “Oltre che sul puntuale rispetto degli obblighi stabiliti dalla normativa di riferimento, il corretto funzionamento della Centrale dei rischi si fonda sulla piena collaborazione e sul senso di responsabilità degli intermediari partecipanti. Essi, per le relazioni dirette che intrattengono con la clientela e per la connessa disponibilità di elementi documentali, sono i soli in grado di assicurare l’esattezza dei dati segnalati e di dirimere eventuali dubbi che possano sorgere sulla corretta rappresentazione della posizione della clientela”.
Deve quindi enunciarsi il seguente principio di diritto:
“Nel giudizio di revocatoria fallimentare ex art. 67 comma 2° legge fall., le risultanze della Centrale Rischi sono inidonee a conferire data certa ai contratti di apertura di credito, in considerazione della natura unilaterale di tali comunicazioni che le singole banche fanno alla Centrale Rischi della Banca d’Italia, la quale non è tenuta a svolgere alcun controllo sulla verità delle informazioni inviate”.
Va, inoltre, osservato che l'accertamento della data di una scrittura privata e, in più generale, della sussistenza e idoneità di fatti diversi da quelli specificamente indicati nell'art 2704 c.c. a stabilire in modo egualmente certo l'anteriorità della formazione del documento, è compito esclusivo del giudice del merito, la cui valutazione non è sindacabile in sede di legittimità, se correttamente motivata (vedi Cass. n. 4104/2017). E nel caso di specie, la Banca ricorrente non ha neppure invocato il vizio di motivazione, comunque ora deducibile nei ristretti limiti della nuova formulazione dell’art. 360 comma 1° n. 5 cod. proc. civ., come interpretato dalle S.U. n. 8053/2014.
9. Con il quinto motivo è stato dedotto l’omesso esame di fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti: l’errore di calcolo della rimessa di € 259.418,01.
Ritiene la Banca che il CTU, nei suoi calcoli ha erroneamente considerato due volte la rimessa dell’importo di € 259.418,01, ritenendo erroneamente esistente la rimessa del 31.12.2003 e revocabile la rimessa del 7.2-10.6.2003 oggetto di storno.
10. Il motivo è inammissibile, atteso che la Banca sollecita ancora una volta una diversa ricostruzione dei fatti rispetto a quella operata dalla Corte d’Appello, sulla scorta delle risultanze della CTU, senza neppur avere dedotto di aver sollevato tale questione innanzi ai giudici di merito.
11. Con il sesto motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 91, 92 e 329 cod. proc. civ. nonché del D.M.- n. 55/2014 con riguardo alle spese di lite.
Lamenta la Banca che la Corte d’Appello, nell’accogliere il gravame, ha rideterminato a suo carico le spese di lite del giudizio di primo grado, nonostante che il giudizio di primo grado le avesse liquidate in misura assai più ridotta e che su tale statuizione la curatela non avesse specificamente proposto impugnazione.
12. Il motivo è infondato.
Questa Corte (vedi Cass. n. 1775/2017; Cass. n. 27606/2019; vedi anche Cass. n. 58/04) ha più volte enunciato il principio di diritto – cui questo Collegio intende dare continuità – secondo cui, in materia di liquidazione delle spese giudiziali, il giudice d'appello, mentre nel caso di rigetto del gravame non può, in mancanza di uno specifico motivo di impugnazione, modificare la statuizione sulle spese processuali di primo grado, allorché riformi in tutto o in parte la sentenza impugnata, è tenuto a provvedere, anche d'ufficio, ad un nuovo regolamento di dette spese alla stregua dell'esito complessivo della lite, atteso che, in base al principio di cui all'art. 336 c.p.c,, la riforma della sentenza del primo giudice determina la caducazione del capo della pronuncia che ha statuito sulle spese.
Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in € 10.200, di cui € 200,00 per esborsi, oltre spese
forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art.13, comma 1-quater del d.p.r. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma del comma 1-bis dello stesso art.13