Non sono, invece, di ostacolo al via libera alla proposta di concordato la modifica di una parte dell'attività produttiva o la diminuzione del numero dei dipendenti.
Il Tribunale di Lucca pronunciava sentenza di fallimento della srl ricorrente, dichiarando contestualmente inammissibile la proposta di concordato preventivo.
La Corte d'Appello confermava la decisione di prime cure rilevando l'insussistenza delle circostanze utili ai fini di potersi qualificare un concordato in...
Svolgimento del processo
1. Il Tribunale di Lucca pronunciò sentenza di fallimento n. 48/2019 nei confronti di E.M. S.R.L., dichiarando contestualmente inammissibile la proposta di concordato preventivo.
2. Proposto reclamo ex art. 18 e 162, 3 comma, l. fall. da parte di E.M. S.R.L., nei confronti del Fallimento della E.M. S.R.L., avverso la predetta sentenza del Tribunale di Lucca, la Corte di appello di Firenze, con la sentenza qui ricorsa per cassazione, ha respinto l’impugnazione, confermando pertanto la sentenza di prime cure.
La corte del merito ha ritenuto, per quanto qui ancora di interesse, che il concordato era stato definito in continuità e la percentuale garantita era stata indicata in percentuale inferiore al 20%; che, secondo il disposto normativo di cui all’art. 186 bis l. fall., è necessario, per potersi qualificare un concordato in continuità aziendale, che l’attività sia in esercizio al momento dell’ammissione al concordato e al momento del trasferimento della stessa, circostanze invece insussistenti nel caso in esame laddove l’attività era ormai cessata da tempo (a causa della crisi e dell’incendio che aveva distrutto il capannone nel dicembre 2017), né era mai ricominciata, il capannone era stato riconsegnato e tutti i dipendenti avevano cessato l’attività; che, per contro, la nuova presunta attività avrebbe avuto un oggetto diverso: essa infatti sarebbe stata svolta da un solo dipendente contro i 16 dipendenti originari, con ciò evidenziandosi la totale differenziazione dell’attività, neanche comprendendosi, perché non indicato, ove sarebbe stata collocata la sede della nuova impresa; che la curatela fallimentare aveva depositato documentazione attestante anche l’assenza di contratti in corso con fornitori strategici e con clienti strategici, a conferma dell’assenza di alcuna continuità, e ciò con particolare riferimento ai clienti che erano stati definiti nella proposta di concordato come top clients; che pertanto era emersa l’assenza di contrattazione in corso con riguardo a E., C. srl, M. srl U. F. e C., in relazione ai quali la documentazione versata in atti dalla curatela era pienamente utilizzabile, stante il carattere devolutivo del reclamo; che pertanto l’attività era da tempo cessata, la sede era dismessa, non si aveva una nuova sede, da 16 dipendenti si presumeva passare ad un solo dipendente, non vi erano altri contratti in corso con fornitori e clienti strategici, l’attività ipotizzata era completamente diversa, trattandosi di un segmento minimale dell’attività originaria, con la conseguenza che la continuità non era in alcun modo ipotizzabile; che, non potendosi qualificare il concordato proposto come in continuità aziendale, la mancata previsione del pagamento dei creditori chirografari al 20% rendeva inammissibile la proposta di concordato, a mente dell’art. 160, 4 comma, l. fall..
2. La sentenza, pubblicata il 22 novembre 2019, è stata impugnata da E.M. S.R.L. con ricorso per cassazione, affidato a due motivi, cui il Fallimento della E.M. S.R.L. ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo la società ricorrente lamenta, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., vizio di “omesso esame di fatti controversi e decisivi per il giudizio”, nella parte in cui il provvedimento impugnato avrebbe erroneamente escluso la presenza del presupposto della continuità aziendale del concordato E. Market, senza condurre l’esame di fatti e relativi documenti che avrebbero dovuto portare ad ammetterne la sussistenza. Osserva la ricorrente che la Corte di appello non avrebbe in alcun modo esaminato: a) la perdurante pendenza di contratti con suoi clienti strategici durante la procedura concorsuale e fino alla dichiarazione di fallimento intervenuta il 22 maggio 2019, come comprovato dai documenti prodotti sub. nn. 12,13,14 e 16 dal fallimento, con la memoria di costituzione in giudizio; b) il contenuto del piano industriale per il triennio 2019-2022, dell’integrazione della relazione ex art. 161, 3 comma, e 186 bis, l. fall. (prodotti rispettivamente sub. docc. nn. 1 e 8 della memoria della E.M. dell’11 aprile 2019), e dell’impegno irrevocabilmente assunto dall’Azienda P.A. s.p.a. a fornirle i servizi di logistica esterna in outsourcing. Osserva la società ricorrente che il contenuto dell’impegno alla stipulazione del predetto contratto di autsourcing, ove esaminato dalla Corte fiorentina, avrebbe reso evidente che la reale prosecuzione della sua caratteristica attività sarebbe stata condotta mediante l’affidamento a terzi della gestione degli ordini e della logicistica.
2. Con il secondo mezzo si deduce, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 160, ultimo comma e 186 bis, l. fall., in relazione all’errata interpretazione delle norme sulla continuità aziendale nel concordato preventivo, nella parte in cui la Corte di appello aveva qualificato il concordato E.M. come liquidatorio, ed all’errato concetto di “continuità aziendale” di cui all’art. 186 bis, l. fall. Osserva la ricorrente che l’assunto secondo cui l’interruzione, le differenti modalità organizzative e la ripresa della stessa attività aziendale in un momento successivo dovrebbero essere elementi comprovanti l’assenza di continuità aziendale non troverebbe alcun riscontro nella lettera della legge né peraltro nei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità. Al contrario costituirebbe ius receptum – aggiunge la ricorrente – il principio secondo cui non verrebbe meno la “continuità aziendale” e dunque la “prosecuzione dell’attività” se la stessa venga svolta secondo diverse modalità organizzative né se l’attività, momentaneamente interrotta, venga “ripresa” in un momento successivo. Si evidenzia sempre da parte della ricorrente che la formulazione dell’art. 186 bis l. fall. presuppone che la continuità riveste una valenza oggettiva, posto che sarebbe la prospettazione dell’azienda in esercizio che riempie di contenuto il concetto di “prosecuzione dell’attività”, indipendentemente dalla circostanza che sia condotta dal debitore ovvero da soggetti diversi (cessionari o conferitari) ovvero dalle modalità in cui essa si esplica e si declina. Secondo la ricorrente, l’elemento qualificante del concordato in continuità sarebbe il fatto “oggettivo” della previsione, nella proposta concordataria, della prosecuzione dell’attività di impresa, quali che siano le modalità attuative. Con la conseguenza che la proposta concordataria offerta ai creditori avrebbe dovuto essere qualificata dai giudici del merito come concordato in continuità aziendale, intesa in senso oggettivo, essendo stata prospettata ai creditori, nel piano, non già la dismissione dell’attivo, ma la generazione di ricavi a fronte dell’assunzione di costi nello svolgimento di un’attività organizzata ed idonea a conseguire i risultati prudenzialmente indicati nel piano industriale.
3. I motivi – che possono essere trattati congiuntamente, stante la stretta connessione delle questioni trattate – sono infondati.
3.1 In realtà, il provvedimento dichiarativo di inammissibilità della proposta concordataria sopra descritta, per la rilevata mancanza del requisito di ammissibilità di cui all’art. 160, quarto comma, l. fall., e cioè la prevista soddisfazione del 20% dei creditori chirografari, dopo la qualificazione del concordato come liquidatorio, si fonda su una ratio decidendi non adeguatamente censurata, né in fatto né in diritto, da parte dell’odierno ricorrente, e cioè che non fosse possibile ricondurre la proposta concordataria qui in esame nell’alveo applicativo della disciplina di cui all’art. 186bis l. fall. per la rilevata mancanza della prosecuzione dell’attività aziendale, ormai interrotta per cause contingenti (crisi aziendale; incendio dello stabilimento) e giammai ripresa.
3.2 Va premesso che questo Collegio condivide, invero, le osservazioni svolte dalla società ricorrente in ordine al profilo di irrilevanza della modificazione dell’attività imprenditoriale per rintracciare il requisito della continuità aziendale necessario, ai sensi dell’art. 186bis l. fall., per l’ammissione alla relativa procedura concorsuale negoziale, posto che, per le stesse affermazioni rinvenibili nella giurisprudenza di questa Corte (v. Sez. 1, Ordinanza n. 734 del 15/01/2020), occorre qualificare il concordato come in continuità anche allorquando “alla liquidazione atomistica di una parte dei beni dell'impresa si accompagni una componente di qualsiasi consistenza di prosecuzione dell'attività aziendale”, determinando tale pur minima prosecuzione dell’attività di impresa l’applicazione dalla disciplina speciale prevista dall'art. 186-bis l.fall., salvi i casi di abuso dello strumento, con la conseguenza che il rilievo di “non continuità”, rinvenuta dalla Corte fiorentina, nella modificazione di una parte dell’attività produttiva (con la previsione della “esternalizzazione” dell’attività di logistica esterna ad altra società) e nella diminuzione dei dipendenti non rappresenta di per sé circostanza ostativa alla corretta qualificazione del concordato come in continuità, secondo il paradigma applicativo declinato dall’art. 186bis l. fall. (di talchè la motivazione impugnata dovrà essere necessariamente corretta in parte qua, ai sensi dell’art. 384, 4 comma, c.p.c.); tuttavia tale condivisione di inquadramento giuridico della fattispecie non riesce a superare il profilo decisivo, anch’esso valorizzato nella sentenza impugnata, secondo cui per aversi continuità aziendale occorre che l’azienda, in relazione alla quale si propone ai creditore la “prosecuzione” dell’attività per ricavarne reddittività, sia comunque “in esercizio”, al momento della proposta di concordato.
3.3 Sul punto anche la recente giurisprudenza espressa da questa Corte di legittimità è nel senso di ritenere che, per aversi continuità, occorre pur sempre esservi un’”azienda in esercizio” (cfr. Cass. 19 novembre 2018 n. 29742, ove si afferma espressamente che «la continuità aziendale, giusta l’art. 186-bis l. fall., è configurabile allorquando vi sia un’azienda in esercizio ed il debitore preveda di continuare a gestirla e/o di cederla a terzi o conferirla in società». Anche più recentemente, è stato affermato, sempre dalla giurisprudenza di questa Corte (v. Cass. 1 marzo 2022 n. 6772), anche se in un’ipotesi di continuità cd. indiretta, che la possibilità di accedere ad un concordato in continuità (nel caso in cui l’azienda sia stata già affittata) richiede la necessità che l’azienda sia in esercizio al momento dell’accesso alla procedura, individuando, proprio nel contratto di affitto stipulato prima della proposizione della domanda di concordato (cd. affitto-ponte), uno strumento per garantire la prosecuzione dell’attività per evitare «il rischio di irreversibile dispersione che l'arresto anche temporaneo dell'attività comporterebbe».
3.4 Ne consegue che ciò che conta è che l’azienda sia in esercizio (non importa se ad opera dell’imprenditore stesso o di un terzo), tanto al momento dell’ammissione al concordato, quanto all’atto del suo successivo trasferimento cui essa dev’essere dichiaratamente destinata.
3.5 Orbene, risulta circostanza accertata in fatto, qui non più discutibile e peraltro neanche contestata dalla società ricorrente, che l’attività d’impresa fosse ormai cessata e non “più proseguita”, al momento della presentazione della domanda di accesso alla procedura concordataria ex art. 186bis l. fall., e ciò a causa di contingenti ragioni incidenti sulla convenienza di tale prosecuzione (crisi aziendale e incendio dello stabilimento).
3.6 La ricorrente tenta, ora, con la proposizione del primo motivo (peraltro articolato in fatto e volto ad un’inammissibile rilettura degli atti istruttori, e ciò con particolare riferimento al regime dei contratti con la clientela più accreditata: v. Cass. Sez. Un. 8053/2014), di rimettere in discussione il predetto accertamento fattuale, e cioè la cessazione dell’attività aziendale e la sua mancata riattivazione, ma tenta di farlo attraverso l’allegazione di fatti (e cioè la continuazione dell’attività di vendita con i cd. top clients) che risultano, in realtà, attingere profili irrilevanti ai fini del decidere e che non scalfiscono neanche la ratio decidendi sopra richiamata (e cioè la già intervenuta cessazione dell’attività aziendale, al momento della presentazione della domanda di concordato), posto che dimostrare, in proiezione futura, la potenziale riattivabilità dell’attività produttiva non vale certo a superare il sopra ricordato profilo ostativo costituito dalla necessaria presenza del requisito della prosecuzione dell’attività aziendale al momento della presenza della domanda ex art. 186bis l. fall.
Occorre pertanto affermare il seguente principio di diritto:
“Anche in tema di concordato con continuità aziendale cd. diretta, il requisito della continuità aziendale, richiesto dall’art. 186bis l. fall. per l’ammissione delle proposta alla relativa procedura concorsuale di soluzione della crisi di impresa, richiede che l’azienda, in relazione alla quale si propone ai creditore la “prosecuzione” dell’attività per ricavarne reddittività, sia comunque “in esercizio”, al momento della proposta di concordato, non rilevando invece come cause ostative all’ammissione della proposta al predetto concordato la modificazione di una parte dell’attività produttiva ovvero la diminuzione del numero dei dipendenti”.
Ne consegue il complessivo rigetto del ricorso.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13 (Cass. Sez. Un. 23535 del 2019).
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore del Fallimento controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 10.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.