La Cassazione rammenta anche che il momento di riferimento per l'individuazione del regime prescrizionale applicabile in sede disciplinare resta quello della commissione del fatto, e non quello dell'incolpazione.
- aver accusato ingiustamente un collega del reato di tentata estorsione, accusa che aveva comportato l'apertura di un procedimento disciplinare;
- aver proferito frasi gravemente...
Svolgimento del processo
1. L'Avv. (omissis) (omissis) ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza del Consiglio Nazionale Forense RD (omissis) n., e regolarmente notificata all'interessato.
Il giudizio disciplinare nei confronti del ricorrente iniziava a seguito di numerosi esposti presentati al COA di (omissis) nei quali si segnalavano diverse condotte poste in essere dal legale e che avrebbero potuto avere rilievo disciplinare.
In particolare, nei predetti esposti si rappresentava:
- che l'avv.(omissis) aveva accusato ingiustamente un collega del delitto di tentata estorsione e sulla base di tale esposto era stato instaurato un procedimento penale per calunnia nei suoi confronti (illecito rubricato al capo 1 della successiva incolpazione);
- che lo stesso avv (omissis) aveva proferito frasi volgarmente lesive dell'onore e del decoro di un collega nel corso di un'udienza e alla presenza di altre persone (illecito rubricato al capo 2 della successiva incolpazione);
- che il medesimo professionista legale aveva, infine, accettato un incarico professionale a favore di una cliente, in relazione ad una successione ereditaria di uno zio, pur essendo il professionista creditore del defunto e, di conseguenza, della sua stessa cliente (illecito rubricato al capo 3 della successiva incolpazione).
Il (omissis) di (omissis) richiedeva chiarimenti all'avv. (omissis) acquisiva gli atti del procedimento penale instaurato a suo carico e deliberava l'apertura di un procedimento disciplinare nei suoi confronti.
All'esito dello stesso, il citato (omissis) con decisione n. 17/2018, riconosceva la sussistenza della responsabilità disciplinare dell'avv. (omissis) n relazione alle incolpazioni di cui ai capi 2 e 3 della rubrica e lo assolveva con riferimento all'incolpazione riportata al capo 1, irrogando, a suo carico, la sanzione della sospensione dall'esercizio della professione per un mese.
2. L'Avv. (omissis) impugnava la menzionata decisione ponendo numerose questioni processuali, eccependo la prescrizione delle incolpazioni ascrittegli ed assumendo che la sentenza emessa non era adeguatamente motivata sotto il profilo sanzionatorio.
Il (omissis) on la sentenza qui impugnata n. 212/2019, accoglieva parzialmente il gravame, dichiarava la prescrizione dell'illecito disciplinare di cui al capo 3 ed irrogava all'avv. (omissis) la sanzione della censura, sulla base della conferma dell'impugnata decisione nella parte in cui aveva ravvisato la sussistenza dell'addebito rubricato al capo 2.
3. Avverso la citata sentenza de (omissis) l'Avv. (omissis) ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi, per violazione di legge e difetto di motivazione, eccependo l'estinzione per prescrizione dell'ipotesi disciplinare contestata al capo 2 della rubrica.
Le parti intimate non hanno svolto attività difensive in questa sede. Il P.G. ha depositato conclusioni scritte, con le quali ha chiesto l'accoglimento del quarto (rectius: secondo) motivo, assorbito l'altro (il primo) con cassazione senza rinvio della sentenza impugnata per intervenuta prescrizione dell'azione disciplinare con le conseguenze di legge.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, il ricorrente denuncia che l’impugnata sentenza è manifestamente ingiusta e motivata in violazione di legge, riproducendo, poi, il testo dell'art. 36, comma 6, della legge n. 247/2012, circa l'individuazione delle censure deducibili in materia ed evidenziando anche il diritto a far valere il vizio di cui al n. 5 dell'art. 360 c.p.c. per "omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti".
Poi, quanto al capo 2 di incolpazione, si prosegue lamentando la violazione dell'art. 360 n. 5 c.p.c., con riferimento al riconoscimento - nell'impugnata sentenza - della violazione disciplinare prevista dall'art. 52 del codice deontologico.
Quindi, il motivo si sviluppa e dilunga nella esposizione della vicenda fattuale, sostenendosi che "il libero convincimento del giudice non può mai tramutarsi in una arbitraria presunzione, ma deve fondarsi sui fatti di causa ponderatamente e criticamente valutati tra loro", per cui, di conseguenza, nel caso di specie, si era deciso in forza di una presunzione di colpevolezza su un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, ovvero la presunta conoscenza del soprannome di famiglia dell (omissis) da parte dell'incolpato.
Alla stregua di ciò, con il motivo si aggiunge che la motivazione dell'impugnata sentenza si sarebbe dovuta considerare del tutto assente, avendo, in sostanza, il(omissis) ritenuto che "il (omissis) ha ragione perché così ha deciso", ponendosi, quindi, in stridente contrasto con il dettato costituzionale di cui all'art. 111 Cost., essendosi il giudice disciplinare di appello pronunciato "in forza di argomentazione meramente presuntiva ed in contrasto con le risultanze probatorie assunte".
2. Il secondo motivo è così rubricato: quanto al capo 2 di incolpazione: prescrizione. Poi, nello svolgimento della doglianza, si richiama l'art. 56 della legge n. 274/2012, sostenendosi che, sul presupposto che la sentenza penale relativa all'esposto (omissis) risaliva al 23/11/2013, la prescrizione sarebbe maturata al massimo il 23/5/2021, prescrizione poi ritenuta - illogicamente ed incomprensibilmente - intervenuta solo con riferimento al capo 3) dell'atto di incolpazione, con lo spirare del relativo termine al 1° aprile 2021.
In sostanza, il ricorrente allega l'applicabilità della norma asseritamente violata rapportata alla fattispecie, prospettando che, in relazione al citato capo 2 dell'incolpazione, si sarebbe dovuto individuare il "dies a quo" nella data del 23 novembre 2013, ovvero in coincidenza temporale con la formazione del giudicato penale, con la conseguente maturazione del termine prescrizionale per l'illecito disciplinare alla suddetta data del 23 maggio 2021.
3. Va, innanzitutto, rilevato che il secondo motivo di ricorso relativo alla questione dell'asserita prescrizione dell'illecito disciplinare di cui al capo 2 della rubrica (l'unico sul quale ancora si controverte) deve essere esaminato con priorità sul piano logico-giuridico (poiché, ove accolto, renderebbe superfluo l'esame della prima censura).
Il motivo è infondato per le ragioni che seguono.
Occorre rilevare che il suo impianto argomentativo poggia su un presupposto giuridico errato, ovvero sul dato che - con riferimento all'illecito di cui al capo 2 (ricondotto alla violazione degli artt. 4, 9 e 52 del codice deontologico, consistita nell'aver proferito nei confronti di un suo collega frasi lesive del suo onore e decoro) - sarebbe applicabile il nuovo regime normativo riconducibile all'art. 56 della legge 31 dicembre 2012, n. 247 (in vigore dal 2 febbraio 2013), con il conseguente computo della durata del termine di prescrizione nel massimo di sette anni e mezzo, che sarebbe nelle more decorso, avendosi riguardo come "dies a quo" alla data del passaggio in giudicato (23 novembre 2013) della sentenza penale di condanna del Tribunale di Fermo relativa al reato riconducibile alla stessa condotta ascrittagli.
Si deve, invece, evidenziare, in senso opposto a tale prospettazione, che - nel caso di specie, con riferimento, per l'appunto, all'addebito disciplinare di cui al capo 2 (per il quale è stata irrogata, con l'impugnata sentenza, la sanzione della censura) ed avuto riguardo al momento della sua consumazione con condotta istantanea (in data (omissis) deve trovare applicazione il previgente regime normativo, ovvero quello di cui al R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, e, in particolare, al disposto dell'art. 51, il quale sanciva che l'azione disciplinare si prescriveva in cinque anni, senza alcuna determinazione di un termine massimo comunque non oltrepassabile per effetto di sopravvenute interruzioni (come previsto con il nuovo art. 56 della legge n. 247/2012, citata, non applicabile retroattivamente), ma con l'applicazione della disciplina generale dell'interruzione di cui all'art. 2943 c.c. e, quindi, di quella relativa ai suoi effetti e durata come prevista dal primo comma del successivo art. 2945 c.c. (in virtù del quale "per effetto dell'interruzione s'inizia un nuovo periodo di prescrizione").
Al riguardo, si evidenzia che la giurisprudenza di queste Sezioni unite ha affermato i seguenti principi:
- per un verso, che, in tema di illecito disciplinare degli avvocati, il regime più favorevole di prescrizione introdotto dall'art. 56 della L.
n. 247 del 2012, il quale prevede un termine massimo di prescrizione dell'azione disciplinare di sette anni e sei mesi, non trova applicazione con riguardo agli illeciti commessi prima della sua entrata in vigore e, ciò perché le sanzioni disciplinari contenute nel codice deontologico forense hanno natura amministrativa sicché, da un lato, con riferimento alla disciplina della prescrizione, non trova applicazione lo jus superveniens, ove più favorevole all'incolpato, restando limitata l'operatività del principio di retroattività della /ex mitior alla fattispecie incriminatrice ed alla pena, mentre, dall'altro lato, il momento di riferimento per l'individuazione del regime della prescrizione applicabile in sede disciplinare rimane quello della commissione del fatto e non quello della incolpazione (cfr., da ultimo, SU n. 20383/2021 e SU n. 12447/2022);
- per altro verso, che la pretesa punitiva esercitata dal Consiglio dell'Ordine forense in relazione agli illeciti disciplinari commessi dai propri iscritti ha natura di diritto soggettivo potestativo che, sebbene di natura pubblicistica, resta soggetto a prescrizione, dovendo escludersi che il termine di cui all'art. 51 del RDL possa intendersi come un termine di decadenza, insuscettibile di interruzione o di sospensione, specificandosi che la previsione, da parte del citato art. 51 di un termine quinquennale di prescrizione, mentre delimita nel tempo l'inizio dell'azione disciplinare, vale anche ad assicurare il rispetto dell'esigenza che il tempo dell'irrogabilità della sanzione non venga protratto in modo indefinito, perché al procedimento amministrativo di inflizione della sanzione è da ritenere applicabile non già la regola dell'effetto interruttivo permanente della prescrizione sancito dall'art. 2945, secondo comma, c.c., bensì quello dell'interruzione ad effetto istantaneo di cui al precedente art. 2943 c.c., con la conseguente idoneità interruttiva anche dei successivi atti compiuti dal titolare dell'azione disciplinare in pendenza del relativo procedimento (v. SU n. 26182/2006; n. 16402/2007 e n. 28336/2011).
Pertanto, sulla base di queste premesse, deve ritenersi del tutto corretta la motivazione adottata nell'impugnata sentenza del(omissis) con la quale è stato rilevato come non fosse revocabile in dubbio che la disciplina applicabile alla fattispecie disciplinare di cui al capo 2 addebitata al ricorrente era quella prevista dall'art. 51 del RDL n. 1578/1933, vigente al momento della contestata violazione (anno 2007), essendo la stessa riferibile ad un illecito disciplinare a consumazione istantanea e che, successivamente erano intervenuti diversi atti interruttivi della prescrizione quinquennale (apertura del procedimento, approvazione del capo di incolpazione, esame dell'incolpato) sino alla decisione di primo grado del 10 dicembre 2018, ragion per cui, da quest'ultima e sino all'emanazione della sentenza da parte dello stesso (omissis) non era decorso il (nuovo) quinquennio previsto dal più volte ricordato art. 51 del RDL n. 1578/1933, con conseguente valutabilità nel merito (in relazione, per l'appunto, all'illecito disciplinare di cui al capo 2, nel mentre - con riguardo a quello riconducibile al capo 3 - il(omissis) ha legittimamente applicato il nuovo regime normativo di cui alla legge n. 247/2012, essendo rimasto accertato che la violazione era stata commessa il 1° ottobre 2013) del gravame proposto avverso la decisione di primo grado.
4. Respinto il secondo motivo, occorre esaminare il primo.
Esso è inammissibile, poiché con lo stesso si contestano le valutazioni di merito operate - adeguatamente e logicamente - nell'impugnata sentenza, come tali incensurabili nella presente sede di legittimità, circa la ritenuta sussistenza della violazione disciplinare di cui al capo 2) dell'incolpazione, in relazione alla cui condotta, oltretutto, il ricorrente è stato dichiarato responsabile anche in sede penale.
Il (omissis)diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, non ha affatto adottato una motivazione apodittica, ma ha basato il suo giudizio circa la ritenuta sussistenza dell'addebito disciplinare di cui al capo 2) (come, del resto, aveva fatto anche il primo giudice) sull'esame complessivo delle testimonianze assunte, sulla corrispondenza dei fatti descritti dai testi a quanto emergente dai documenti acquisiti, sugli accertamenti compiuti nella sentenza penale passata in giudicato riguardanti la stessa condotta, nonché sulle inequivoche dichiarazioni rese dalla stessa persona offesa, così giungendo legittimamente a rilevare gli estremi dell'illecito disciplinare consistito nel proferire espressioni offensive (ancorché in forma dialettale) nei confronti di un suo collega, oltretutto nel corso di un'udienza e alla presenza di altre persone, con la configurazione della violazione ricondotta all'art. 52 del nuovo codice deontologico (riproduttivo, nella sostanza, di quanto già previsto e sanzionato dall'art. 20 del precedente codice deontologico).
5. In definitiva, alla stregua delle complessive argomentazioni svolte, il ricorso deve essere integralmente rigettato, senza farsi luogo ad alcuna pronuncia sulle spese, non avendo alcuna delle parti intimate svolto attività difensiva nella presente sede.
Infine, ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni unite, rigetta il ricorso.
Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.