Con riferimento alla nozione di handicap, il suo fattore soggettivo non è ricavabile dal diritto interno ma unicamente dal diritto dell'Unione europea.
Svolgimento del processo
1. La Corte d’appello di Bologna ha accolto il reclamo proposto dalla Soc. coop. A. Work cooperativa sociale e, in riforma della sentenza di primo grado, ha respinto la domanda di A. B. volta alla declaratoria di nullità o illegittimità del licenziamento intimatogli il 24.8.2015 per superamento del periodo di comporto.
2. La Corte territoriale, per quanto ancora rileva, ha escluso che, all’epoca del licenziamento, il sig. B. versasse in una condizione di handicap o disabilità definita, secondo la nozione eurounitaria, come “una limitazione di capacità, risultante in particolare da durature menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su un piano di uguaglianza con gli altri lavoratori”. In particolare, ha accertato, tramite anche la consulenza medico legale, che il predetto era “affetto da malattie comuni, di assoluta frequenza nella popolazione normale e di non rilevante entità” e che si trovava in una “condizione di disagio sociale associata a elementi psicopatologici non riferibile ad una patologia psichiatrica”; che solo il 26.10.2017 (alcuni anni dopo il licenziamento) era stato riconosciuto invalido civile nella misura del 46% e in condizione di handicap, ai sensi della legge n. 104 del 1992 e sempre nel 2017 gli era stato diagnosticato un peggioramento nella capacità di deambulazione.
3. La Corte di merito ha appurato che le assenze dal lavoro, computate ai fini del superamento del periodo di comporto, erano dovute alle malattie comuni da cui il dipendente era risultato affetto e che, quindi, tali assenze non erano ascrivibili ad una condizione di disabilità. Ha perciò escluso qualsiasi forma di discriminazione indiretta, invece riconosciuta dal tribunale. Ha, comunque, ritenuto che, ove anche fosse stata configurabile una discriminazione indiretta, tuttavia non avrebbe potuto rappresentare un accomodamento ragionevole la comunicazione preventiva al dipendente della conclusione del periodo di comporto. Ciò sia perché le “soluzioni ragionevoli” previste dalla direttiva 2000/78 non riguarderebbero la fase di cessazione del rapporto di lavoro e sia perché il lavoratore, nel caso di specie, avrebbe potuto richiedere unicamente l’aspettativa non retribuita (la cui concessione è discrezionale da parte della datrice di lavoro), con perdita di qualunque trattamento economico, cosa che avrebbe reso impossibile per il medesimo il già difficoltoso sostentamento.
4. Avverso tale sentenza A. B. ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi. La Soc. coop. A. Work cooperativa sociale ha resistito con controricorso, illustrato da memoria, ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c.
Motivi della decisione
5. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione degli artt. 1 e 5 della Direttiva 78/2000, dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea ex art. 234 del TCE, dell’art. 12 delle preleggi e della Convenzione Onu sulla disabilità, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. Si censura la sentenza d’appello per aver adottato una nozione di disabilità in contrasto con gli artt. 1 e 5 della direttiva, come interpretata dalla Corte di Giustizia, e per aver escluso, in ragione di tale erronea nozione, che il B., all’epoca del licenziamento, si trovasse in una condizione di disabilità. Si rileva che, secondo le decisioni della Corte di Giustizia richiamate, non è la natura delle malattie che concretizza lo stato di handicap bensì il carattere duraturo delle stesse, tale da costituire un ostacolo all'inserimento lavorativo in condizioni di parità; che le malattie rilevanti ai fini della tutela di cui alla direttiva in esame sono quelle che non presentano una prospettiva di superamento nel breve periodo e le menomazioni che possono protrarsi in modo rilevante prima della guarigione; che per poter beneficiare della tutela di cui alla direttiva non occorre che il lavoratore sia stato dichiarato disabile o portatore di handicap ai sensi della legislazione nazionale ma che sia affetto da malattie, di natura fisica, mentale o psichica, durature, che in interazione con barriere di diversa natura determinino un ostacolo alla effettiva partecipazione alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori; che le barriere che rendono impossibile o particolarmente gravosa l’effettiva partecipazione alla vita professionale su una base di uguaglianza con gli altri lavoratori sono rappresentate, nel caso di specie, dalla condizione di disagio mentale e sociale in cui versava il B. al momento del licenziamento, comprovata dall'assunzione come lavoratore svantaggiato e da innumerevoli certificati del Centro di Salute Mentale e si censura come discriminatoria l'applicazione di un periodo di comporto, fissato formalmente dall'art. 71 del CCNL Cooperative sociali in 365 giorni nel triennio precedente, senza alcun aggiustamento in relazione alla salute psicofisica e alla condizione sociale del lavoratore; che i certificati medici degli specialisti (elencati a pag. 133 e ss. del ricorso) comprovano la presenza di patologie croniche, coincidenti con quelle risultanti dai certificati di malattia emessi dal medico di medicina generale.
6. Con il secondo motivo di ricorso si deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ., la violazione della direttiva 78/2000, per avere la Corte d’appello omesso di valutare i certificati medici prodotti e relativi al periodo anteriore al licenziamento, idonei a dimostrare come il B. fosse affetto da un disturbo di personalità associato a disagio sociale, oltre che da malattie croniche. Si osserva che l’interpretazione della nozione di handicap/disabilità ai sensi dell’art. 1 della direttiva è operazione giuridica e non medico legale e che la Corte d’appello ha errato nell’adagiarsi sulle valutazioni del c.t.u., irrilevanti ai fini della citata nozione, atteso che il quesito al medesimo sottoposto non era finalizzato ad accertare la qualifica del lavoratore come disabile secondo la normativa eurounitaria.
7. Con il terzo motivo di ricorso si imputa alla sentenza, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., la violazione dell’art. 5, dell’art. 2, comma 2 lett. b) e dell’art. 3 della direttiva 2000/78 nonché la violazione dell’art. 2, comma 1 lett. b) del d.lgs. 216 del 2003 e degli artt. 1175 e 1375 c.c. La parte ricorrente critica l’interpretazione della Corte di merito là dove ha escluso che le soluzioni ragionevoli possano rilevare nella fase di cessazione del rapporto di lavoro. Osserva che la direttiva 2000/78, all’art. 3, include nel focus di tutela anche “le condizioni di licenziamento” e richiama (pagg. 156 e ss.) la giurisprudenza eurounitaria sul punto.
8. Con il quarto motivo si addebita alla sentenza, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 71 del c.c.n.l., dell’art. 4 della legge 381 del 1991, degli artt. 2, comma 2 lett. b), 3 e 5 della direttiva 2000/78 e dell’art. 2, d.lgs. 216 del 2003, per avere errato nell’interpretare il contratto collettivo nella parte in cui individua il periodo di comporto, senza rispettare i canoni ermeneutici di cui agli artt. 1362 e ss. c.c. Si sostiene che la Corte di merito non abbia adeguatamente tenuto conto dell'art. 42, ultimo comma, del c.c.n.l. (secondo cui “Nel caso di persone svantaggiate le norme e i provvedimenti disciplinari dovranno essere individualmente armonizzati con i programmi personalizzati di risocializzazione”), dell’art. 4 della legge 381 del 1991 (in base al quale i rapporti di lavoro all’interno delle cooperative sociali e di inserimento lavorativo “hanno come scopo il recupero, la riabilitazione professionale e l'inserimento o reinserimento sociale e lavorativo attraverso la concreta partecipazione ad attività lavorative di persone svantaggiate o in condizioni di emarginazione e tendono ad elevare la capacità lavorativa e la professionalità di tali soggetti al fine di un loro successivo inserimento o reinserimento in ambiti lavorativi ordinari”), dell’art. 2, comma 3, del c.c.n.l. (“Il rapporto tra la cooperativa e le persone di svantaggiate ha come finalità la loro positiva integrazione nella vita sociale e lavorativa”) e comma 4 (“Tale rapporto deve svilupparsi sulla base di un progetto personalizzato che preveda la durata e le modalità di inserimento”), nonché dell’art. 2 cit. lett. d) (che fa carico alla cooperativa, per il caso di esito negativo del progetto individualizzato, di prospettare ai Comitati misti paritetici -ove costituiti- “la possibilità di adottare gli strumenti atti a prevedere la prosecuzione del rapporto di lavoro a condizioni specifiche e personalizzate”). Si sostiene che la cooperativa abbia illegittimamente licenziato il B. per superamento del periodo di comporto, senza alcun adattamento al caso concreto e soprattutto senza avere prima intrapreso alcun dialogo con i servizi pubblici che avevano assegnato il predetto come lavoratore svantaggiato.
9. La società controricorrente ha eccepito l’inammissibilità del ricorso per mancata impugnazione di due capi autonomi della sentenza d’appello (pag. 14 e 15 del controricorso). Il primo capo di decisione non impugnato attiene alla statuizione dei giudici di appello secondo cui (pag. 11 della sentenza) “le assenze che hanno poi condotto al superamento del periodo di comporto sono dovute alle più varie malattie […] e dunque non ascrivibili ad un’unica e/o almeno preponderante patologia che ne possa denunciare in qualche modo lo stato di handicap o di menomazione”. Il secondo capo di decisione che si assume non impugnato attiene alla mancanza di prova, di cui era onerato il lavoratore, sul fatto “che il preavviso della scadenza del comporto potesse essere una soluzione ragionevole per evitare la discriminazione…” (pag. 12 della sentenza d’appello).
10. L’eccezione non merita accoglimento. Nella giurisprudenza di questa Corte è costante l’affermazione per cui “il giudicato interno non si determina sul fatto ma su una statuizione minima della sentenza, costituita dalla sequenza rappresentata da fatto, norma ed effetto, suscettibile di acquisire autonoma efficacia decisoria nell'ambito della controversia” (Cass. n. 30728 del 2022; Cass. n. 10760 del 2019; Cass. n. 2217 del 2016), requisiti assenti nelle statuizioni oggetto dell’eccezione in esame.
11. I primi due motivi di ricorso possono essere esaminati congiuntamente per ragioni di connessione logica e non possono trovare accoglimento, dovendosi, tuttavia, correggere la motivazione, ai sensi dell’art. 384, u.c., cod. proc. civ.
12. Questa Corte (sentenza n. 9095 del 2023) ha recentemente affrontato la questione giuridica della discriminazione basata sulla disabilità in relazione alla durata del periodo di comporto ed ha ricostruito la base normativa di tale forma di tutela. Ha affermato che “La tutela contro la discriminazione sulla base della disabilità si fonda, oltre che sulla direttiva 2000/78/CE, attuata nell’ordinamento italiano, sulla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, che include il motivo della disabilità nell’ambito dell’art. 21 (che sancisce il divieto generale di discriminazioni) e contiene anche una disposizione specifica (art. 26) che riconosce il diritto dei disabili di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità (azioni positive). È inoltre fondata sulla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall'Italia con legge n. 18/2009 […] Detta Convenzione (CDPD) è stata altresì approvata dall’UE, nell’ambito delle proprie competenze, con “Decisione del Consiglio del 26 novembre 2009 relativa alla conclusione, da parte della Comunità europea, della convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità” (2010/48/CE), con la conseguenza che per la Corte di giustizia UE le stesse direttive normative antidiscriminatorie vanno interpretate alla luce della Convenzione”.
13. Con particolare riferimento alla nozione di handicap, questa Corte ha più volte affermato che il fattore soggettivo dell'handicap non è ricavabile dal diritto interno ma unicamente dal diritto dell'Unione Europea (Cass. n. 6798 del 2018; Cass. n. 13649 del 2019; Cass. n. 29289 del 2019; Cass. n. n. 6497 del 2021), secondo il quale si tratta di "una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione dell'interessato alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori" (CGUE sentenze 11 aprile 2013, HK Dannnark, C-335/11 e ,C337/11, punti 38- 42; 18 marzo 2014, Z., C-363/12, punto 76; 18 dicembre ,2014, FOA, C-354/13, punto 53; 1 dicembre 2016, Mo. Da. C-395/15, punti 41-42). Grava sul lavoratore che ne abbia interesse allegare e dimostrare di trovarsi nelle condizioni descritte (Cass. n. 27502 del 2019).
14. La sentenza n. 9095 del 2023, in continuità con i citati precedenti di legittimità, ha ribadito, richiamando la sentenza 11 aprile 2013 in cause riunite C-335/11 e C-337/11, HK Danmark, che la nozione di «handicap» di cui alla direttiva 2000/78/CE deve essere interpretata nel senso che essa include una condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata, e che la natura delle misure che il datore di lavoro deve adottare non è determinante al fine di ritenere che lo stato di salute di una persona sia riconducibile a tale nozione. Ha dato atto che, in tale pronuncia, la CGUE ha sottolineato che la direttiva 2000/78 deve essere oggetto, per quanto possibile, di un’interpretazione conforme alla CDPD (§§ 28-32); infatti, la nozione di «handicap» non è definita dalla direttiva 2000/78 stessa (cfr. sentenza 11 luglio 2006 in causa C-13/05, Chacón Navas). Peraltro, la Convenzione dell’ONU, ratificata dall’Unione europea con decisione del 26 novembre 2009, alla sua lettera e) riconosce che «la disabilità è un concetto in evoluzione e che la disabilità è il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri». In tal modo, l’articolo 1, secondo comma, di tale Convenzione dispone che sono persone con disabilità «coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di uguaglianza con gli altri». Inoltre, dall’articolo 1, secondo comma, della Convenzione dell’ONU risulta che le menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali debbano essere «durature». Né risulta che la direttiva 2000/78 miri a coprire unicamente gli handicap congeniti o derivanti da incidenti, escludendo quelli cagionati da una malattia; sarebbe, infatti, in contrasto con la finalità stessa della direttiva in parola, che è quella di realizzare la parità di trattamento, ammettere che essa possa applicarsi in funzione della causa dell’handicap (§§ 36 -41).
15. La Corte d’appello ha escluso che il lavoratore si trovasse in una condizione di handicap/disabilità fondando tale convincimento, tra l’altro, sull’esito della c.t.u., che ha definito le patologie, da cui il B. era affetto e che avevano causato le sue assenze dal lavoro, come “malattie comuni”.
16. Richiamata la nozione eurounitaria di disabilità, deve rilevarsi come non sia conforme ad essa il sillogismo adoperato dai giudici di appello, là dove hanno escluso la condizione di disabilità per il carattere “comune” (inteso come “di assoluta frequenza nella popolazione normale”) delle patologie sofferte dal lavoratore, potendo qualsiasi patologia, ove comporti menomazioni di carattere duraturo, ostacolare la partecipazione del lavoratore alla vita professionale in condizioni di parità. L’accertamento compiuto dai giudici di appello resta fondato, in modo decisivo, sulla molteplicità e diversità delle patologie che hanno di volta in volta giustificato le assenze dal lavoro, patologie “afferenti a vari organi e apparati” e non tali da determinare menomazioni durature.
17. Su tale aspetto, i motivi di ricorso in esame si rivelano inammissibili in quanto invocano un diverso accertamento fattuale (sollecitando il riesame di tutta la documentazione medica), precluso in questa sede di legittimità, e fondano il vizio di violazione di legge sulla base della prospettata differente ricostruzione fattuale.
18. Questa Corte ha più volte definito i confini in cui si articola il giudizio di diritto che l’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. descrive attraverso le espressioni di violazione o falsa applicazione di legge, sottolineando come l'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all'esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta perciò al sindacato di legittimità; difatti, il discrimine tra la violazione o falsa applicazione di norme e l’erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta è segnato dal fatto che solo quest'ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa; (v. Cass. n. 3340 del 2019; n. 640 del 2019; n. 10320 del 2018; n. 24155 del 2017; n. 195 del 2016).
19. Non solo, i motivi in oggetto neppure contengono deduzioni specifiche in ordine ai requisiti necessari ai fini della nozione eurounitaria di handicap (e neppure trascrivono specificamente le deduzioni svolte nei gradi merito sul punto); a pag. 133 e ss. si fa riferimento alle “patologie croniche” del B., che si assumono documentate dai certificati dei medici specialistici, senza tuttavia che sia dimostrata ed accertata la riferibilità delle assenze a tali patologie e senza che sia illustrato come tali patologie croniche possano aver interferito con la vita professionale del predetto. Inoltre, a pag. 132 del ricorso si individuano “le barriere” che rendono particolarmente gravosa la partecipazione alla vita professionale su base di uguaglianza, nelle “condizioni di disagio mentale e sociale” che, secondo quanto accertato in appello, non costituivano causa delle assenze rilevanti ai fini del comporto.
20. Il terzo motivo di ricorso è assorbito dal rigetto dei primi due motivi, cioè dalla mancanza di prova della condizione di disabile del sig. B., dovendosi, tuttavia, anche in questo caso correggere l’errore di diritto in cui è incorsa la sentenza d’appello nella parte in cui ha ritenuto estranea alla tutela antidiscriminatoria di cui alla direttiva 2000/78 la fase di cessazione del rapporto di lavoro.
21. Il d. lgs. n. 216 del 2003, nel dare "Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro", ha stabilito, tra l'altro, che il principio di parità di trattamento senza distinzione ... di handicap ... si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed è suscettibile di tutela giurisdizionale" con specifico riferimento anche alla seguente area: "occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento" (art. 3, comma 1, lett. b). In seguito a condanna dell'Italia da parte della Corte di Giustizia dell'Unione Europea per inadempimento alla citata direttiva (sentenza 4 luglio 2013, C-312/2011, Commissione europea/Repubblica Italiana), il d.l. 28 giugno 2013, n. 76 (art. 9, comma 4-ter), conv. con modif. dalla l. 9 agosto 2013, n. 99, ha inserito nel testo dell'art. 3 del d. lgs. n. 216 del 2003, un comma 3 bis del seguente tenore: "Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. Quanto all'ambito di applicazione della direttiva 78/2000/CE e dell'art. 3, comma bis, del d. lgs. n. 216 del 2003, che ne costituisce attuazione, questa Corte ha riconosciuto che il licenziamento rientra tra le condizioni di lavoro protette dalla direttiva (v. Cass. n. 6497 del 2021 e precedenti ivi citati).
22. Le ulteriori statuizioni della sentenza d’appello relative al contenuto degli accomodamenti ragionevoli non sono state oggetto di impugnativa e sulla definizione in diritto sul punto si rinvia alla giurisprudenza sopra citata (v. in particolare, Cass. n. 9095 del 2023).
23. Il quarto motivo di ricorso è inammissibile perché la sentenza d’appello non contiene alcuna statuizione sulla interpretazione dell’art. 71 del c.c.n.l. applicato e il motivo in esame non deduce in quali atti processuali (che aveva l’obbligo di trascrivere) e in che termini la questione fosse stata posta nei gradi di merito.
24. Per le ragioni esposte il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
25. Ritiene questa Corte che ricorrano gravi ed eccezionali ragioni atte a giustificare la compensazione delle spese di lite, ai sensi dell’art. 92 c.p.c. e della sentenza della Corte Cost. n. 77 del 2018, per gli errori di diritto nella interpretazione di norme di legge, rinvenibili nella motivazione della sentenza d’appello, che hanno reso necessaria in più punti la correzione della stessa, ai sensi dell’art. 384, ultimo comma, c.p.c., in coerenza con la funzione di nomofilachia di questa Suprema Corte.
26. Occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, l. n. 228 del 2012 (Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Compensa le spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.