La Cassazione precisa che, dopo la riforma Cartabia, la volontà punitiva della persona offesa può essere riconosciuta anche nell'atto con cui essa si costituisce parte civile e nella persistenza di tale costituzione nei successivi gradi di giudizio.
La Corte d'Appello di Torino riformava parzialmente la sentenza del Tribunale dichiarando l'estinzione di alcuni dei reati contestati e rideterminando la pena. La condanna era stata pronunciata per una serie di reati di truffa, millantato credito, falsi materiali in atti e certificazioni pubbliche ai danni di più persone da parte dell'attuale ricorrente, il quale si era...
Svolgimento del processo
1. Con il provvedimento in epigrafe indicato, la Corte di Appello di Torino ha riformato parzialmente la sentenza emessa il 18 febbraio 2021 dal Tribunale di Torino, dichiarando l'estinzione di alcuni dei reati contestati ed ha rideterminato la pena in anni tre, mesi nove e giorni sei di reclusione confermando le statuizioni civili in favore dell'Agenzia delle Entrate.
La condanna è stata pronunciata per una serie di reati di truffa, millantato credito, falsi materiali in atti e certificazioni pubbliche, consumati in Torino e provincia negli anni 2015-2016, ai danni di plurime persone offese da parte del ricorrente D. S., in alcuni casi attribuendosi la falsa qualifica di funzionario di Equitalia e false generalità (capi 23 e 28, in cui si contesta solo la truffa aggravata ex art. 61 n. 7 cod. pen. per avere S. agito con le false generalità di un inesistente ispettore di Equitalia a nome D. G.), in altri casi con il concorso di alcuni complici che operavano come intermediari (capo 26 relativo alla truffa di 74 mila euro aggravata ex art. 61 n. 7 cod.pen. in concorso con S.), in altri ancora, millantando la conoscenza di funzionari del menzionato Ente e con il pretesto di doverne comprare i favori (capi 8 e 31: ex art. 346, commi 1 e 2, cod. pen.), si faceva consegnare somme di denaro in contanti apparentemente destinate ad estinguere debiti tributari o ad ottenere forti riduzioni del debito, rilasciando poi false quietanze di pagamento intestate ad Equitalia, ed inducendo in errore i debitori che apprendevano, in sede di esibizione della predetta documentazione presso Equitalia, della inesistenza dei pagamenti a loro nome per i quali avevano effettuato i relativi esborsi.
2. Con atto a firma del difensore di fiducia, D. S. ha proposto ricorso, articolando due motivi.
2.1. Con il primo motivo deduce la violazione di legge con riferimento ai capi 8) e 31) sul rilievo dell'erronea qualificazione dei fatti nell'ipotesi del millantato credito, dovendosi ritenere i fatti inquadrabili unicamente nel delitto di truffa a seguito dell'abolitio criminis del reato di millantato credito di cui all'abrogato art. 346, secondo comma, cod. pen., con la conseguente improcedibilità per difetto di querela non essendo stata contestata l'aggravante dell'art. 61, n. 7, cod. pen. in riferimento ai predetti capi.
La Corte territoriale, preso atto del contrasto giurisprudenziale registratosi presso la Sesta Sezione della Corte di Cassazione, ha ritenuto di dare seguito all'orientamento che ha affermato la continuità normativa tra il nuovo 346-bis cod. pen. ed il vecchio 346 cod. pen.
Secondo la prospettazione del ricorrente, invece, l'opposto orientamento della Corte di Cassazione (sentenze nn. 12210/2019, 5221/2020, 28657/21, 16467/21 e 28657/21) che esclude la continuità normativa con riguardo al secondo comma dell'art. 346 cod.pen. è preferibile perché aderente al dato letterale, dovendosi considerare il capoverso dell'art. 346 cod.pen., pur se inserito nella rubrica del millanto credito, come una sottospecie di truffa, per il riferimento al pretesto che è una forma di raggiro, con conseguente riespansione della fattispecie generale della truffa.
In caso contrario, si invoca la rimessione della questione alle Sezioni Unite per risolvere il contrasto.
2.2. Con il secondo motivo deduce vizio di motivazione e violazione di legge con riferimento ai capi 23), 26) e 28) in relazione alla erronea applicazione della circostanza aggravante di cui all'art. 61, n. 7, cod. pen., che andava esclusa per le truffe contestate ai predetti capi, trattandosi di danni di importi tali da non potere integrare l'aggravante del danno di ingente entità, sia sotto il profilo oggettivo e sia sotto quello soggettivo, in considerazione delle condizioni economiche delle persone offese, che irragionevolmente sono state ritenute critiche per la rilevante esposizione debitoria, con la conseguente improcedibilità delle truffe ai danni di F. e D. B. (capo 23), C. (capo 26), C. (capo 28) per difetto di querela.
3. Si deve dare atto che nel giudizio di legittimità la prima udienza del 16 febbraio 2023 trattata con il rito cartolare in forza della norma transitoria di cui all'art. 94, comma 2, del d.lgs. 10 ottobre 2022, n.150, come modificato dal d.l. 31 ottobre 2022, n.162, convertito con modificazioni dalla I. 30 dicembre 2022, n. 199, è stata rinviata ad oggi per la scadenza del nuovo termine per sporgere querela per i reati divenuti procedibili a querela secondo quanto previsto dall'art. 85, comma 1, del cit. d.lgs. 10 ottobre 2022, n.150, come sopra modificato.
Inoltre, va rilevato che all'udienza odierna non risultano pervenute querele delle parti offese rilevanti ai fini dell'unico capo di imputazione (capo 23) per il quale risultava mancante la costituzione di parte civile, e che le parti non hanno fatto pervenire nuove conclusioni scritte, rispetto a quelle formulate per l'udienza del 16 febbraio 2023.
Motivi della decisione
1. In via preliminare, va osservato che per i reati di truffa aggravata di cui ai capi 26) e 28), essendovi stata regolare costituzione di parte civile delle rispettive persone offese, e precisamente di C. C. L. per il capo 26) e di M. R. C. per il capo 28), deve ritenersi che la sopravvenuta procedibilità a querela della truffa aggravata dall'art. 61, n. 71cod. pen. per effetto delle modifiche disposte dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n.150, come modificato dal d.l. 31 ottobre 2022, n.162, convertito con modificazioni dalla l. 30 dicembre 2022, n. 199, non ne abbia determinato l'improcedibilità per difetto di querela.
Si deve, infatti, dare seguito all'orientamento di legittimità, già consolidatosi in occasione di precedenti riforme legislative che hanno in passato modificato la procedibilità di ufficio rispetto a determinate fattispecie penali divenute procedibili a querela, in tema di interpretazione delle norme transitorie che hanno fissato le regole per acquisire la dichiarazione di querela rispetto ai reati interessati dalle modifiche del regime di procedibilità, commessi prima della data di entrata in vigore della riforma.
In particolare, rispetto alla informativa prevista dal secondo comma dell'art. 99 della legge del 24 novembre 1981, n. 689, che aveva modificato il regime di procedibilità di determinate fattispecie penali, è stato affermato che detta informativa non è dovuta quando il diritto di querela sia stato già formalmente esercitato, ovvero l'offeso abbia, in qualsiasi atto del procedimento, manifestato la volontà di punizione o abbia rinunciato, espressamente o tacitamente, al diritto di querelarsi o ancora nel caso di estinzione dell'anzidetto diritto e di remissione oltre che nella ipotesi di mancata identificazione o di irreperibilità dell'offeso (Sez. U, n. 5540 del 17/04/1982, Corapi, Rv. 154078).
Ne consegue che la volontà punitiva può essere riconosciuta anche nell'atto con il quale la persona offesa si costituisce parte civile, nonché nella persistenza di tale costituzione nei successivi gradi di giudizio (cfr., Sez. 2, n. 19077 del 03/05/2011, Maglia, Rv. 250318; Sez. 5, n. 15691 del 06/12/2013, dep. 2014, Anzalone, Rv. 260557; Sez. 5, n. 21359 del 16/10/2015, dep. 2016, Giammatteo, Rv. 267138; Sez. 5, n. 29205 del 16/02/2016, Rahul Jetrenda, Rv. 267619).
Lo stesso principio è stato poi ribadito nella sentenza delle Sezioni Unite n. 40150 del 21/06/2018, Salatino, Rv. 273552, con riguardo ai reati divenuti perseguibili a querela per effetto del d.lgs. 10 aprile 2018, n. 36, essendosi affermato, anche in quella occasione, che "onde evitare conseguenze aberranti derivanti da una interpretazione formalistica della norma transitoria, l'avviso alla persona offesa non debba essere dato quando risulti dagli atti che il diritto di querela sia già stato formalmente esercitato; che l'offeso abbia, in qualsiasi atto del procedimento, manifestato la volontà di instare per la punizione dell'imputato", essendosi ribadita la correttezza della interpretazione (Sez. 5, n. 43478 del 19/10/2001, Cosenza, Rv. 220259) secondo cui la sussistenza della volontà di punizione da parte della persona offesa, non richiedendo formule particolari, può essere riconosciuta dal giudice anche in atti che non contengono la sua esplicita manifestazione.
Non vi è perciò ragione di discostarsi da tale indirizzo consolidato, essendo irrilevante a tale riguardo che nella normativa transitoria che ha accompagnato la modifica del regime di procedibilità a querela a seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2022 non sia stato previsto, diversamente dalle precedenti riforme, alcun avviso alla persona offesa della facoltà di sporgere querela (essendo anzi stata modificata la normativa transitoria che nel suo testo originario prevedeva analogo meccanismo informativo).
Trattasi di una scelta del legislatore che incide, infatti, soltanto sulla diversa decorrenza del termine per querelare, che decorre in ogni caso dalla data di entrata in vigore della normativa di riforma (ex art. 85, comma 1, cit.), senza avere alcuna influenza sul tema qui in discussione della rilevanza della costituzione di parte civile quale indice da cui trarre la manifestazione della volontà punitiva della persona offesa.
2. Con riguardo al motivo di ricorso riferito ai predetti capi 23), 26) e 28), si deve ritenere che la questione della sussistenza o meno della circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità di cui all'art. 61, n. cod. pen. assume concreta rilevanza unicamente per le truffe ascritte ai capi 26) e 28), rispetto alle quali soltanto la rilevata rituale costituzione delle parti civili rende irrilevante il mutamento del regime di procedibilità sopravvenuto per effetto della modifica dell'art. 640, ultimo comma, cod. pen., introdotta dall'art. 2 del d.lgs. n.150/2022 che ha escluso l'aggravante in questione dal novero di quelle che assumono ora rilevanza per la procedibilità di ufficio del reato di truffa, ovvero le sole circostanze previste dal capoverso dell'art. 640 cod. pen.
Rispetto alla truffa ascritta al capo 23), non essendo intervenuta nel termine di cui all'art. 85, comma 1, del cit. d.lgs. n.150/2022 la querela delle persone offese (B. F. e V. D. B.), né risultando mai formalizzata dalle stesse la costituzione di parte civile nel corso del giudizio di merito, deve essere disposto l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata limitatamente al capo 23) per difetto della condizione di procedibilità.
3. La questione dedotta rispetto alle truffe ascritte ai capi 26) e 28) dell'erronea applicazione della circostanza aggravante di cui all'art. 61 n. 7 cod.pen. deve essere, invece, affrontata perché tuttora rilevante.
Va osservato, sotto il profilo dell'interesse alla decisione, che la questione ha conservato la propria rilevanza anche dopo il mutato quadro normativo, atteso che nel caso in cui dovesse negarsi la sussistenza della circostanza aggravante in parola, la truffa derubricata da aggravata a semplice andrebbe dichiarata senz'altro improcedibile per difetto di querela in applicazione della normativa previgente, non potendo trovare applicazione la normativa transitoria che ha previsto la nuova decorrenza del termine per sporgere querela soltanto per i reati che prima della riforma erano procedibili di ufficio, non avendo detta norma ovviamente la finalità di operare una rimessione nel termine per sporgere querela per i reati già procedibili a querela.
La costituzione di parte civile, anche se ritenuta equipollente alla volontà di querelare, non fa venire meno l'interesse rispetto alla questione dell'aggravante di cui all'art. 61, n.7, cod. pen. dedotta con riferimento ai predetti capi di imputazione, atteso che non trovando applicazione la normativa transitoria per le ragioni appena esposte, la costituzione di parte civile potrebbe essere considerata tardiva agli effetti dell'osservanza dell'ordinario termine di querela che decorre nei tre mesi dal giorno della notizia del fatto che costituisce reato ai sensi dell'art. 124, comma 1, cod. pen.
Al riguardo, però, va osservato che la genericità del motivo di ricorso non consente di verificare la tardività della querela, non essendo stata specificata la data in cui la persona offesa ha avuto cognizione dei fatti di causa e quindi neppure di verificare se alla data in cui è stata formalizzata la costituzione di parte civile nel processo di primo grado il termine di cui all'art. 124, comma 1, cod. pen. fosse già decorso.
Secondo l'indirizzo giurisprudenziale prevalente l'onere della prova della intempestività della querela è a carico di chi allega l'inutile decorso del termine, e la decadenza dal diritto di proporla va accertata secondo criteri rigorosi e non può ritenersi verificata in base a semplici supposizioni prive di valore probatorio sicché l'eventuale situazione di incertezza deve essere risolta a favore del querelante. (Sez. 2 n. 48027 del 18/10/2022, Spanò, Rv. 284168).
Va precisato che il ricorrente non ha richiesto una modifica del trattamento sanzionatorio, ma ha sollevato la questione dell'insussistenza della aggravante ai soli fini della procedibilità.
Sotto tale profilo, si deve rilevare che la questione è comunque infondata nel merito, atteso che per le truffe contestate in danno di C. L. C. e M. R. C., gli importi dei rispettivi danni, di 74 mila euro per C. L. e di 28.700 euro per C., anche in relazione alle considerazioni fatte sulle condizioni precarie economiche delle predette persone offese, sono stati congruamente apprezzati e valorizzati ai fini del riconoscimento della aggravante prevista dall'art.61, n.7, cod. pen.
Secondo il pacifico orientamento di legittimità per l'applicabilità della circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità, può farsi riferimento alle condizioni economico-finanziarie della persona offesa solo qualora il danno sofferto, pur non essendo di entità oggettiva notevole, può essere qualificato tale in relazione alle particolari condizioni della vittima, che sono invece irrilevanti quando l'entità oggettiva del danno è tale da integrare di per sé un danno patrimoniale di rilevante gravità (Sez. 2, n. 48734 del 06/10/2016, Puricelli, Rv. 268446).
4. Passando alla disamina delle censure articolate con il primo motivo in riferimento ai capi 8) e 31) per le ipotesi di reato di cui all'art. 346, comma 2, cod. pen. si osserva quanto segue.
Nei predetti capi si contesta a S. di avere millantato credito presso dei dipendenti non meglio individuati di Equitalia e di essersi fatto consegnare del denaro e altri beni perché necessario sia a pagare il prezzo della propria mediazione (art. 346, comma 1, cod. pen.) e sia con il pretesto di dover comprare il loro favore (art. 346, comma 2, cod. pen.).
Innanzitutto, deve rilevarsi che la questione dedotta dal ricorrente riguarda solo una parte dei fatti contestati, ovvero la sottospecie del reato di millantato credito di cui al secondo comma dell'art. 346 cod. pen., essendo stata messa in discussione la continuità normativa tra la fattispecie incriminata dal citato secondo comma dell'art. 346 cod. pen. ed il nuovo testo dell'art. 346-bis cod. pen. introdotto dalla l. 9 gennaio 2019, n. 3, che ha incorporato la previsione del previgente reato di millanto credito assimilandola nel trattamento punitivo a quella del traffico di influenze illecite, abrogando l'art. 346 cod. pen.
Sul punto esiste effettivamente un contrasto tra due opposti orientamenti che si sono formati nella giurisprudenza di legittimità di questa stessa Sesta Sezione.
Secondo un primo orientamento sussiste continuità normativa tra il reato di millantato credito di cui all'art. 346, comma secondo, cod. pen. - formalmente abrogato dall'art. 1, comma 1, lett. s), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 - ed il reato di traffico di influenze illecite di cui al novellato art. 346-bis cod. pen., atteso che, in quest'ultima fattispecie, risulta attualmente ricompresa la condotta di chi, vantando un'influenza, meramente asserita, presso un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, riceva o si faccia dare o promettere denaro o altra utilità col pretesto di dovere comprare il pubblico agente o di doverlo comunque remunerare (vedi, Sez.6, n. 32574 del 26/05/2022, Lucchese, Rv. 283724).
Antitetico è invece l'orientamento secondo cui non sussiste continuità normativa tra il reato di millantato credito di cui all'art. 346, comma secondo, cod. pen., abrogato dall'art. 1, comma 1, lett. s), legge 9 gennaio 2019, n. 3, e quello di traffico di influenze illecite di cui al novellato art. 346-bis cod. pen., in quanto, in quest'ultima fattispecie, non risulta ricompresa la condotta di chi, mediante raggiri o artifici, riceve o si fa dare o promettere danaro o altra utilità col pretesto di dovere comprare il pubblico ufficiale o impiegato o doverlo, comunque, remunerare, condotta che integra, invece, il delitto di cui all'art. 640, comma primo, cod. pen.
Si è sostenuto che la punibilità del privato si giustifica a condizione che il rapporto tra il mediatore ed il pubblico agente sia effettivamente esistente o, quanto meno, potenzialmente suscettibile di instaurarsi, posto che solo in tal caso si realizza un "vulnus" agli interessi pubblici teleologicamente tutelati dalla norma incriminatrice del traffico di influenze (Sez. 6, n. 23407 del 10/03/2022, Ferrara, Rv. 283348).
Reputa il collegio che ferma restando la pacifica continuità normativa rispetto al comma 1 dell'art. 346 cod. pen., rispetto al quale non può che essere confermata la valutazione operata nelle sentenze di merito, non essendo tale parte del fatto neppure interessata dalla questione dedotta dal ricorrente, rispetto invece alla vicenda che afferisce alla richiesta di denaro o altre utilità giustificata dal pretesto di comprare il favore del pubblico ufficiale deve ritenersi più aderente alla ricostruzione fattuale operata nel giudizio di merito la qualificazione del fatto ai sensi dell'art.640 cod. pen..
Nel caso di specie non è neppure configurabile il reato di millantato credito nella forma prevista dal secondo comma dell'art. 346 cod. pen. per l'assoluta indeterminatezza e genericità dell'indicazione dei pubblici ufficiali che presso Equitalia avrebbero dovuto interessarsi della pratica di estinzione del debito tributario.
Conseguentemente, nel caso in esame, non essendo risultato accertato che lo S. avesse promesso la corruzione di pubblici ufficiali, ne deriva che l'ipotesi configurata non pone l'esigenza di risolvere il contrasto sopra rilevato con la rimessione del tema alle Sezioni Unite.
5. Pur non essendo indispensabile per la configurabilità del reato di millantato credito di cui al comma secondo dell'art. 346 cod. pen. l'indicazione nominativa o l'identificazione del pubblico ufficiale, tuttavia quando l'indicazione sia talmente generica - come nella fattispecie in esame - da non rendere neppure certo il riferimento ad un pubblico ufficiale o ad un funzionario, né chiaro il tipo di mansioni svolte, tale indeterminatezza rileva in quanto l'incertezza cade su un elemento essenziale della fattispecie.
Esclusa, pertanto, la configurabilità del reato contestato al capoverso dell'art. 346 cod. pen., il fatto va correttamente qualificato come truffa, ricorrendone tutti gli elementi costituivi ed in particolare, la peculiarità del raggiro, caratterizzato da vanterie, esplicite o implicite, da ingerenze e pressioni esercitabili dal millantatore nei confronti di soggetti non meglio precisati che avrebbero potuto cancellare o ridurre il debito tributario, nonché la stessa falsa qualità attribuitasi dallo S. di funzionario di Equitalia e utilizzo di altri complici presentati come funzionari del predetto Ente, per rendere più credibile la propria mediazione ed ottenere l'illecito vantaggio patrimoniale conseguito con corrispondente danno subito dalla vittima.
È evidente come, in tale contesto di raggiri e simulazione di qualità non rivestite dall'agente, l'aspetto della frode e quindi della truffa deve ritenersi assolutamente prevalente rispetto a quello della mera millanteria che, invece, anche nella logica della nuova formulazione del reato di traffico di influenze illecite, assimila del tutto nel trattamento sanzionatorio la posizione del millantatore a quella della persona che ne subisce il fascino, offrendogli il denaro o altra utilità.
Una tale impostazione appare, peraltro, coerente anche con la nuova formulazione dell'art. 346-bis cod. pen., dovendosi privilegiare l'aspetto del raggiro allorché risulti nettamente assorbente su quello della millanteria, con la conseguenza che il fatto, ricondotto nella ipotesi della truffa e non anche nel reato di millanteria-traffico di influenze, evita l'effetto distonico che il soggetto che subisce il raggiro possa essere sottoposto ad incriminazione, assumendo la veste di raggirato e quindi la sola posizione di vittima del reato di truffa.
6. Con riguardo al reato ascritto al capo 8) deve essere, tuttavia, rilevata la prescrizione, avuto riguardo all'epoca di consumazione del reato in data 1° febbraio 2015, essendo decorso il relativo termine massimo di prescrizione di anni sette e mesi sei.
Infatti, tenuto conto della sospensione del termine per complessivi sessantaquattro giorni, prevista dall'art. 83, comma 4, del d.l. 17 marzo 2020 n. 18, convertito con modificazioni dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, per effetto della sospensione disposta all'udienza del 16 marzo 2020 e del rinvio all'udienza del 24 settembre 2020, il reato si è prescritto alla data del 4 ottobre 2022.
La prescrizione interessa l'intero capo 8), atteso che per la stretta correlazione tra i fatti di cui al primo e secondo comma dell'art. 346 cod. pen., indipendentemente dall'effetto devolutivo dell'impugnazione parziale non si forma in relazione al predetto capo il "giudicato parziale", poiché questo presuppone la decisione di tutti i punti che costituiscono passaggio obbligato per la completa definizione dell'imputazione, mentre la preclusione di ordine processuale al riesame dei punti della sentenza non impugnati non impedisce la rilevabilità delle cause di estinzione del reato preesistenti o sopravvenute (vedi, Sez.3, n. 47579 del 23/10/2003, Arici, Rv. 226646).
7. In conclusione, previa riqualificazione dei fatti di millantato credito di cui al capoverso dell'art. 346 cod. pen. nel reato di truffa, deve essere disposto l'annullamento della sentenza impugnata senza rinvio per il capo 8) perché estinto per intervenuta prescrizione, e l'annullamento senza rinvio per il reato di cui al capo 31) per difetto della condizione di procedibilità e con rinvio per nuova determinazione della pena relativamente al residuo reato di cui al primo comma dell'art. 346 cod. pen.
In relazione al reato di truffa aggravata ascritto capo 23), per le ragioni sopra esposte, deve essere disposto l'annullamento senza rinvio per difetto della condizione di procedibilità.
Il ricorso deve essere, infine, rigettato con riferimento alle residue truffe di cui ai capi 26) e 28) e, considerato che la causa estintiva della prescrizione di cui al capo 8) si è verificata dopo la sentenza di primo grado, devono essere confermate le statuizioni civili con conseguente condanna del ricorrente alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute in questo giudizio dalle parti civili costituite, liquidate come in dispositivo.
In considerazione della ravvisata continuazione tra le plurime imputazioni ascritte, solo in parte appellate dal ricorrente, con la determinazione di una pena unica non differenziata per singoli capi, in sede di rinvio la Corte di appello dovrà necessariamente provvedere alla rideterminazione della pena per le residue imputazioni, tenendo conto del proscioglimento disposto in questa sede per i capi 8),23), nonché per il capo 31) limitatamente alla parte della contestazione riferita al reato ascritto al secondo comma dell'art. 346 cod. pen.
P.Q.M.
Qualificati i fatti di millantato credito di cui all'art. 346, secondo comma, cod. pen. (capi 8 e 31) come truffa, annulla senza rinvio la sentenza impugnata relativamente al reato di cui al capo 8) perché estinto per intervenuta prescrizione e relativamente al reato di cui al capo 31) per difetto della condizione di procedibilità, con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Torino per la rideterminazione della pena relativamente a reato di cui all'art. 346, primo comma cod. pen. (capo 31), ferme restando le statuizioni civili. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata relativamente al reato di cui al capo 23) per difetto della condizione di procedibilità. Rigetta nel resto il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili C. L. C. e Agenzia delle Entrate-riscossione, che rispettivamente liquida in complessivi euro 3.686,00 euro ed euro 1.844,00, oltre accessori di legge.