
La disciplina derogatoria riconosce al professionista il diritto agli onorari relativi all'attività svolta fino al momento del recesso.
L'attuale ricorrente proponeva appello avverso il decreto ingiuntivo intimatole dal Tribunale di Firenze avente ad oggetto il pagamento del compenso a favore di un avvocato che aveva svolto l'attività professionale in una causa sulla successione.
Tra i motivi di gravame, l'appellante sosteneva che il recesso...
Svolgimento del processo
1. Con decreto ingiuntivo n.644/2006 il Tribunale di Firenze ingiunse a V.B. il pagamento di Euro 454.650,00 oltre spese generali e accessori a favore del prof. avv. F.R. per l’attività professionale svolta in quattro procedimenti giudiziari relativi alla divisione di compendio ereditario e lesione di quota di legittima.
A seguito di opposizione di V.B. il Tribunale di Firenze con sentenza n. 1900/2011 revocò il decreto ingiuntivo e condannò l’opponente B. al pagamento a favore dell’opposto Romano del minore importo di Euro 226.275,56, oltre alla rifusione delle spese di lite per la quota della metà, con compensazione della residua metà.
V.B. propose appello nei confronti degli eredi dell’avv. F.R., nel frattempo deceduto, e si costituì soltanto la moglie L.B., quale erede in forza del testamento nel quale il marito le aveva lasciato i crediti derivanti dalla sua attività professionale, proponendo appello incidentale.
2. Con sentenza n. 74 pubblicata il 12-1-2018 la Corte d’Appello di Firenze rigettò sia l’appello principale che l’appello incidentale, compensando le spese del grado.
Per quanto ancora interessa, la sentenza ha rigettato il primo motivo di appello, con il quale l’appellante aveva sostenuto che il recesso senza giusta causa del professionista pregiudicasse il suo diritto al compenso; ha dichiarato che la rinuncia al mandato del difensore era disciplinata dall’art. 85 cod. proc. civ., che riconosceva al difensore il diritto di recedere ad nutum.
Ha dichiarato inammissibile per genericità il secondo motivo di appello, con il quale l’appellante aveva sostenuto che erroneamente era stato determinato in Euro 35.000.000 il valore della causa R.G. 842/1997; ciò in quanto l’appellante non si era confrontata con la motivazione della sentenza impugnata, laddove aveva ritenuto congruo il valore di Euro 35.000.000 se rapportato al valore dell’intero asse ereditario, applicabile siccome “elemento essenziale” del processo e quindi “valore effettivo della controversia” rilevante ex art. 6 co. 2 T.P.; ha aggiunto che difettava una censura secondo cui il valore dell’intero asse ereditario fosse inferiore all’importo di Euro 35.000.000 ritenuto dal Tribunale valore congruo della quota rivalutata di legittima.
Ha dichiarato inammissibile il terzo motivo di appello con il quale l’appellante aveva sostenuto che erroneamente fossero stati riconosciuti all’avv. Romano compensi spettanti al collega al quale era stato affidato l’incarico professionale; ciò in quanto il motivo non si confrontava con la ratio decidendi della sentenza di primo grado, incentrata sul contributo causale dell’intervento del legale al quale non era stato rilasciato il formale mandato alle liti.
Ha dichiarato inammissibile il quarto motivo di appello, con quale l’appellante aveva lamentato che le udienze non di mero rinvio erano state undici anziché dieci, per difetto di specificità circa l’indicazione dell’udienza di mero rinvio oltre a quelle individuate dal primo giudice in riferimento alle voci della notula A sub 1.
Ha dichiarato inammissibile per genericità il quinto motivo, con il quale l’appellante aveva lamentato che la memoria del 9-11-2000 era stata compensata con Euro 12.500,00, trattandosi di memoria di una sola pagina, relativa alla costituzione di nuovo co-difensore; ciò in quanto il Tribunale non aveva riconosciuto per quella memoria il compenso di Euro 12.500,00, ma aveva compensato quattro memorie per l’importo complessivo di Euro 50.000,00.
Ha dichiarato inammissibile il sesto motivo, con il quale l’appellante aveva lamentato che la memoria del 30-11-2002 fosse stata compensata con Euro 8.520,00 in quanto la causa era di valore indeterminabile; ciò perché il motivo non si confrontava con la specifica motivazione di pag. 4, righe 5-11, della sentenza di primo grado circa i criteri di determinazione del valore.
Ha dichiarato inammissibile per genericità il settimo motivo, con il quale l’appellante aveva lamentato la maggiorazione del 20% degli onorari prevista dall’art. 5 co.4 tariffa forense nonostante la prestazione fosse stata svolta solo a favore di V.B.; ciò in quanto il motivo non si confrontava con la motivazione della sentenza impugnata a pag. 8 riga 7, laddove aveva riconosciuto l’aumento del 20% “per la riunione di cause (art. 5 comma 4 tariffa)”. Ha rigettato l’ottavo motivo con il quale l’appellante aveva censurato il rigetto della sua domanda di risarcimento dei danni per inadempimento contrattuale, dichiarando che nulla di specifico, neppure ai fini di una liquidazione equitativa, era stato dedotto
sull’asserito danno.
3. V.B. ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi, al quale ha resistito L.B. con controricorso.
Il ricorso è stato avviato alla trattazione camerale ex art. 380bis.1 cod. proc. civ. e in prossimità dell’adunanza in camera di consiglio entrambe le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo la ricorrente deduce “quanto alla declaratoria di inammissibilità dei motivi di appello da 2 a 8, contenuti nell’atto di citazione introduttivo del relativo giudizio, per motivazione inesistente e/o insufficiente, ai sensi dell’art. 340, n. 4 c.p.c., causa di nullità della sentenza, in quanto i motivi che hanno indotto la Corte di appello a ritenere inammissibile l’appello medesimo non sono intellegibili nella sentenza o comunque dalla stessa non è possibile trarre la ratio decidendi dell’inammissibilità, con violazione degli artt. 111 Cost., 132, 2° comma e 156, 2° comma c.p.c.”. La ricorrente lamenta che la sentenza si sia limitata a dichiarare i motivi di appello inammissibili senza rendere comprensibili le ragioni dell’inammissibilità riferita a ciascun motivo, così da essere la motivazione inesistente o insufficiente.
1.1. E’ principio acquisito che l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità come violazione di legge costituzionalmente rilevante attiene all’esistenza della motivazione in sé e si esaurisce nella “mancanza assoluta dei motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili” e “nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Cass. sez. un. 16-5- 1992 n.5888 Rv. 477253-01, Cass. sez. un. 7-4-2014 n. 8053 Rv. 629830-01). Inoltre, con riguardo all’insufficienza della motivazione pure lamentata dalla ricorrente, nella fattispecie si applica ratione temporis l’art. 360 co. 1 n. 5 cod. proc. civ. come modificato dall’art. 2 d.lgs. 2 febbraio 2006 n.40, che consentiva la denuncia dell’omessa o insufficiente motivazione con la specifica indicazione del “fatto” controverso o decisivo in relazione al quale la motivazione si assume carente, dovendosi intendere per “fatto” non una questione o un punto, ma un fatto vero e proprio, quindi un fatto principale ex art. 2697 cod. civ. o anche un fatto secondario purché controverso e decisivo (Cass. sez. 1 8-9-2016 n. 17761 Rv. 641174-01, Cass. sez. 5 5-2-2011 n. 2805 Rv. 616733-01).
Nella fattispecie si esclude che la motivazione della Corte territoriale sia totalmente assente o espressa con argomentazioni inidonea a individuare le rationes decidendi, così come si esclude che la motivazione sia insufficiente in relazione ai fatti principali e secondari.
Come sopra già analiticamente esposto al punto 2, la sentenza impugnata ha preso in esame separatamente i motivi di appello dal primo all’ottavo e, con motivazione sintetica ma pienamente intellegibile, ha esposto le ragioni per le quali ha ritenuto inammissibili i motivi dal primo al settimo e ha rigettato l’ottavo motivo.
2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce “quanto alla declaratoria di inammissibilità dei motivi di appello da 2 a 8, contenuti nell’atto di citazione introduttivo del relativo giudizio, per motivazione inesistente e/o insufficiente, ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c., per nullità della sentenza, per aver la Corte d’Appello, ai sensi dell’art. 342 c.p.c., ritenuto inammissibile perché generico il II° motivo di appello con il quale l’appellante principale (qui ricorrente) aveva denunciato la violazione, nella sentenza di I grado, del combinato disposto all’art. 3 e all’art. 6 della Tariffa Forense (D.M. n. 127/2004, applicabile ratione temporis) in base al quale, nel giudizio di “liquidazione degli onorari…” dovuti dal cliente all’avvocato per l’attività professionale svolta in suo favore “anche nei giudizi iniziati ma non compiuti per l’opera svolta fino alla cessazione del rapporto professionale” (art. 3), si stabilisce che “il valore della causa è determinato, a norma del c.p.c. (…) avuto riguardo (…) nei giudizi di divisione al valore della quota o ai supplementi di quota in contestazione (art.6)”.
La ricorrente lamenta che il secondo motivo di appello sia stato ritenuto apoditticamente generico, perché l’appellante nella formulazione del motivo aveva puntualmente rilevato che, per la determinazione del valore della controversia al fine del calcolo degli onorari dovuti dal cliente al suo legale, doveva farsi riferimento, come prescritto dall’art. 6 D.M. 585/1994, al valore della quota in contestazione e perciò alla quota di legittima rivendicata in importo pari a Euro 14.720.000, e non al valore dell’asse ereditario, e ciò anche nel caso previsto dall’art. 3 D.M. 585/1994 in cui il mandato si fosse risolto prima della fine del processo.
2.1. Il motivo è infondato.
L’art. 6 co.2 D.M. 585/1994 prevedeva che “nella liquidazione degli onorari a carico del cliente può aversi riguardo al valore effettivo della controversia, quando esso risulti manifestamente diverso da quello presunto a norma del codice di procedura civile”; è principio acquisito che nei rapporti tra avvocato e cliente l’art. 6 co.2 prevedeva la possibilità di concreto adeguamento degli onorari al valore effettivo e sostanziale della controversia, ove fosse ravvisabile sproporzione rispetto al valore derivante dall’applicazione delle norme del codice di rito (Cass. sez. 2 12-7-2018 n. 18507 Rv. 649591-01), attribuendo la disposizione potere discrezionale al giudice di adeguare l’onorario all’effettiva importanza della prestazione (Cass. sez. 2 8-2-2012 n. 1805 Rv. 621663 – 01). Nella fattispecie il giudice di primo grado aveva rilevato che l’elemento essenziale della controversia fosse costituito dalla ricostruzione dell’effettiva consistenza dell’asse ereditario e del valore all’attualità della quota di legittima spettante alle attrici e che per questo il riferimento eseguito dall’avvocato alla quota di legittima rivalutata della cliente fosse congruo per la determinazione del valore della controversia. Con il secondo motivo di appello (il contenuto dell’atto d’appello è direttamente esaminato dalla Corte in quanto è denunciata la violazione dell’art. 342 cod. proc. civ., cfr. Cass. sez. 6- L 19-8-2020 n. 17268 Rv. 658936-01, Cass. sez. un. 22-5-2012 n. 8077 Rv. 622361-01) V.B. aveva dedotto che il valore della controversia doveva essere riferito al valore della quota di legittima di cui era stata chiesta la reintegrazione, che il valore di Euro 35.000.000 era il valore indicato nel secondo ricorso per sequestro giudiziario che era stato rigettato e che anche il valore effettivo della controversia andava determinato al momento della domanda, per cui era erroneo il riferimento alla quota di legittima rivalutata; in questo modo l’appellante non aveva censurato la pronuncia di primo grado né laddove aveva dichiarato che si dovesse applicare l’art. 6 co.2 D.M. 585/1994 considerando il valore effettivo della controversia, né laddove aveva dichiarato che l’elemento essenziale della controversia era la ricostruzione dell’asse ereditario, né laddove aveva ritenuto che il valore dell’asse ereditario fosse superiore alla quota di legittima rivalutata e che pertanto il riferimento al valore della quota di legittima rivalutata fosse congruo per individuare il valore effettivo della causa.
E’ esatto quanto deduce la sentenza impugnata in ordine al fatto che l’appellante nel formulare il motivo di appello non si era confrontato con la statuizione impugnata, in quanto non era stata svolta una specifica censura riferita al fatto che il valore dell’intero asse ereditario, che individuava il valore effettivo della controversia, fosse inferiore all’importo di Euro 35.000.000 ritenuto dal Tribunale valore congruo. Infatti, secondo i principi posti da Cass. sez. un. 16-11-2017 n. 27199 Rv. 645991-01, richiamata dalla stessa ricorrente, nell’appello alla parte volitiva con la quale si chiede la riforma della pronuncia di primo grado deve affiancarsi la parte argomentativa, che confuti e contrasti le ragioni addotte dal giudice di primo grado; nella fattispecie la parte argomentativa mancante era quella finalizzata a dimostrare l’erroneità dell’applicazione della previsione dell’art. 6 co. 2 D.M. 585/1994.
Quindi, non è pertinente il richiamo eseguito dalla ricorrente al principio in materia di liquidazione delle spese di lite da parte del giudice di appello, secondo il quale in presenza di contestazione sul valore della causa il giudice di appello non può limitarsi alla generica conferma della liquidazione eseguita dalla sentenza impugnata: in questo caso per il giudice di appello non si poneva questione sulla liquidazione delle spese di lite, ma di determinazione dei compensi spettanti all’avvocato a carico del cliente, che era stata oggetto di statuizione da parte del giudice di primo grado e perciò poteva essere devoluta alla cognizione del giudizio di appello solo in forza di motivo di impugnazione formulato in modo ammissibile.
Non sono pertinenti neppure i rilievi svolti dalla ricorrente all’erroneità del riferimento alla quota di legittima rivalutata, perché il Tribunale aveva ritenuto di fare riferimento ex art. 6 co.2 D.M. 585/1994 al valore dell’intero asse ereditario e nessuno degli argomenti svolti con il motivo di appello era finalizzato neppure a sostenere che l’intero asse ereditario avesse valore inferiore alla quota di legittimità rivalutata.
3. Con il terzo motivo la ricorrente deduce “quanto al primo motivo di gravame, esaminato nel merito dalla Corte di appello, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., per violazione o falsa applicazione di norma di diritto laddove la sentenza viola o applica falsamente l’art. 2237. 2° comma c.c.” e lamenta che la sentenza impugnata abbia rigettato il suo primo motivo di appello, con il quale aveva censurato la sentenza impugnata per avere ritenuto il diritto del professionista al compenso nonostante il suo recesso senza giusta causa. Sostiene che erroneamente la sentenza abbia fatto riferimento all’art. 85 cod. proc. civ., la cui previsione era finalizzata esclusivamente a consentire la prosecuzione del processo nonostante la revoca o la rinuncia del difensore; aggiunge che né le norme della legge professionale né quelle della tariffa forense derogano al principio generale posto dall’art. 2237 co.2 cod. civ., secondo il quale solo in caso di recesso per giusta causa è possibile pretendere il compenso per l’attività svolta, da determinarsi con riguardo al risultato utile che ne sia derivato al cliente.
3.1. Il motivo è infondato, dovendosi dare continuità all’indirizzo espresso da Cass. sez. 2 25-7-2022 n. 23077 Rv. 665381-01, in ordine alla spettanza all’avvocato degli onorari relativi all’attività svolta fino al momento del suo recesso, stante la specificità della disciplina per l’attività dell’avvocato, volta a derogare alla previsione di carattere generale dettata dall’art. 2237 cod. civ.. Come testualmente esposto in motivazione da Cass. 23077/2022:
«A tal fine rileva in primo luogo l’art. 85 c.p.c. che dispone, ancorchè al fine di limitare i disagi provocati dalla rinuncia alla controparte, che “la procura può essere sempre revocata e il difensore può sempre rinunciarvi, ma la revoca e la rinuncia non hanno effetto nei confronti dell’altra parte finché non sia avvenuta la sostituzione del difensore”, ma sottendendo con tale formulazione la soluzione per cui il recesso dell’avvocato dal mandato è sempre ammessa, e non quindi necessariamente ancorata alla ricorrenza della giusta causa (in termini analoghi si veda anche quanto previsto per il processo penale dagli artt. 107 e 108 c.p.p.).
Sempre in relazione alle fonti normative, è stato valorizzato il dettato dell’art. 7 della legge 13 giugno 1942 n. 794 che, con riguardo proprio alla disciplina del corrispettivo per le cause non giunte a compimento stabilisce che “per le cause iniziate ma non compiute ovvero nel caso di revoca della procura o di rinuncia alla stessa il cliente deve all’avvocato gli onorari corrispondenti all’opera prestata”, previsione anche questa che riferisce in maniera ampia di un diritto di recesso dell’avvocato, senza alcun richiamo alla necessità della giusta causa, e senza quindi in alcun modo vincolare il diritto al corrispettivo per l’attività prestata sino al momento del recesso alla circostanza che la scelta del professionista sia stata dettata da una giusta causa.
In linea con tale scelta del legislatore si pone anche la specifica disciplina dell’art. 32 del codice deontologico forense vigente la quale prevede che:
‘Rinuncia al mandato. 1.L’avvocato ha la facoltà di recedere dal mandato, con le cautele necessarie per evitare pregiudizi alla parte assistita.
2. In caso di rinuncia al mandato l’avvocato deve dare alla parte assistita un congruo preavviso e deve informarla di quanto necessario per non pregiudicarne la difesa.
3. In ipotesi di irreperibilità della parte assistita, l’avvocato deve comunicare alla stessa la rinuncia al mandato con lettera all’indirizzo anagrafico o all’ultimo domicilio conosciuto o a mezzo p.e.c.; con l’adempimento di tale formalità, fermi restando gli obblighi di legge, l’avvocato è esonerato da ogni altra attività, indipendentemente dall’effettiva ricezione della rinuncia.
4. L’avvocato, dopo la rinuncia al mandato, nel rispetto degli obblighi di legge, non è responsabile per la successiva assistenza, qualora non sia nominato in tempi ragionevoli altro difensore.
5. L’avvocato deve comunque informare la parte assistita delle comunicazioni e notificazioni che dovessero pervenirgli.
6. La violazione dei doveri di cui ai precedenti commi comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura”.
Risulta quindi confermata la soluzione circa la libera recedibilità dal mandato anche ad opera dell’avvocato, il quale è tenuto sempre a preservare il cliente da pregiudizi derivanti dalla propria decisione di recedere dal rapporto d’opera.
Anche la dottrina occupatasi del tema non ha mancato di sottolineare la peculiarità della disciplina dettata dalle norme indicate chiaramente derogatorie del dettato di cui al secondo comma dell’art. 2237 c.c., prevalendo in tal caso, oltre al criterio di specialità, anche quello cronologico, essendo la legge n. 794/1942, sia pur di qualche mese, successiva all’emanazione del codice civile.
Alla conclusione fatta propria dai giudici di merito è peraltro pervenuta anche la giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 1380/1959), secondo cui l’assenza di giusti motivi non può costituire in colpa il patrono che dismetta il mandato, stante la norma dell’art. 85 codice di proc. civile, la quale, - in armonia con la particolare natura del rapporto che si instaura tra cliente e patrono – attribuisce a entrambi il potere di recedervi, l’uno mediante la revoca della procura, l’altro mediante la rinuncia.
Ancorché il principio non sia stato riaffermato in tempi recenti in maniera così netta, sottendono l’adesione allo stesso, ad esempio l’affermazione secondo cui il diritto di recesso deve essere esercitato in modo da non arrecare pregiudizio al cliente e che, nel caso in cui sussista una giusta causa, il difensore è tenuto al risarcimento del danno di cui il cliente abbia provato l’esistenza (Cass. 16 marzo 2011 n. 6170), che appunto correla all’assenza di giusta causa, non già l’inammissibilità del recesso ovvero il venir meno del diritto al compenso, ma solo la potenziale responsabilità risarcitoria nei limiti in cui il cliente provi il danno subito.
In tal senso rileva anche l’affermazione, supportata dal richiamo alla previsione di cui all’art. 7 del RD n. 794/1942, secondo cui nei giudizi iniziati ma non conclusi il cliente deve al proprio avvocato gli onorari ed i diritti per l’opera svolta fino alla cessazione del rapporto, sia nell’ipotesi di giudizi non compiuti per ragioni processuali sia nei casi di giudizi giunti regolarmente a termine ma non compiuti dal professionista per revoca o rinuncia al mandato (Cass. 6 ottobre 2000 n. 13329; Cass. 09 novembre 1966 n. 2742).
In definitiva deve ribadirsi che l’art. 85 c.p.c. e l’art. 7 l. 794/42 sono espressione di una disciplina derogatoria, per i professionisti intellettuali che svolgono la professione di avvocato, rispetto a quella generale dell’art. 2237 c.c., per effetto della quale è permesso all’avvocato di recedere dal mandato professionale anche in assenza di una giusta causa -salvo, in tal caso, il risarcimento del danno di cui il cliente provi l’esistenza, di cui però non si controverte nel caso di specie, in assenza di allegazione da parte della cliente -riconoscendo al difensore il diritto agli onorari relativi all’attività svolta fino al momento del recesso».
4. Con il quarto motivo la ricorrente deduce “quanto al primo motivo di gravame, esaminato nel merito dalla Corte di appello, ai sensi dell’art. 360 n. 4 o n. 3 c.p.c., per violazione dell’art. 2697 c.c., laddove la sentenza ha ritenuto provata la giusta causa in difetto dell’esaurimento del relativo onere da parte del professionista sulla sussistenza di una giusta causa di recesso”. La ricorrente dichiara che la sentenza di primo grado con motivazione generica aveva fatto riferimento a una giusta causa di recesso del professionista e la sentenza di secondo grado aveva mantenuto intatto l’aspetto, seppure sembrando fare riferimento solo alle prestazioni stragiudiziali; dichiara che l’avvocato non aveva dato alcuna prova della giusta causa e perciò sostiene che la sentenza sia viziata anche sotto questo aspetto.
4.1. Il motivo è evidentemente inammissibile nella parte in cui lamenta la violazione dell’art. 2697 cod. civ. da parte della sentenza di primo grado, in quanto il ricorso per cassazione ha a oggetto la sentenza di appello.
La sentenza impugnata ha dichiarato che era assistito da giusta causa il recesso per le attività ulteriori rispetto alle prestazioni giudiziali, non caratterizzate da rilascio di procura, in quanto lo svolgimento di tali attività era motivata esclusivamente in riferimento ai mandati con la procura alle liti. In questo modo la sentenza ha eseguito una valutazione in fatto sull’esistenza della giusta causa del recesso con riguardo alle prestazioni stragiudiziali, sulla base degli elementi acquisiti in causa, che non è in sé censurabile in sede di legittimità e non può integrare violazione dell’art. 2697 cod. civ.; infatti la violazione del precetto di cui all’art. 2697 cod. civ. può essere lamentata al fine di sostenere che il giudice abbia attribuito l’onere della prova a una parte diversa da quella che ne è gravata in applicazione di detta norma e non anche per lamentare che il giudice abbia erroneamente ritenuto che la parte abbia assolto all’onere probatorio, perché in questo caso è prospettato un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360 co. 1 n. 5 cod. proc. civ. (Cass. sez. L. 19-8-2020 n. 17313 Rv. 658541-01, Cass. sez. 3 29-5-2018 n. 13395 Rv. 649038-01, Cass. sez. 3 5-9-2006 n. 19064 Rv. 592634-01).
5. In conclusione il ricorso è integralmente rigettato e, in applicazione del principio della soccombenza, la ricorrente è condannata alla rifusione a favore della controricorrente delle spese di lite del grado, in dispositivo liquidate.
In considerazione dell’esito del ricorso, ai sensi dell’art. 13 co. 1- quater d.P.R. 115/2002 si deve dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso ai sensi del co. 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso;
condanna la ricorrente alla rifusione a favore della controricorrente delle spese del grado, liquidate in Euro 10.000,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre 15% dei compensi a titolo di rimborso forfettario delle spese, iva e cpa ex lege.
Sussistono ex art.13 co.1-quater d.P.R. 30 maggio 2002 n.115 i presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente di ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso ai sensi del co.1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.