
L'immobile di proprietà di un ente pubblico, anche se non iscritto nell'elenco di cui all'art. 4, comma 1, L. n. 1098/1939, che sia riconosciuto di interesse storico, archeologico o artistico, è soggetto al regime del demanio pubblico, con la conseguenza che non può essere sottratto alla rispettiva destinazione, né essere oggetto di usucapione.
Il Tribunale di Imperia respingeva la domanda proposta dall'attuale ricorrente volta a sentire dichiarare l'intervenuto acquisto per usucapione di un immobile intestato al Demanio dello Stato, accogliendo la domanda riconvenzionale dell'Agenzia del Demanio e condannando l'attrice al rilascio dell'immobile in suo favore poiché ritenuto appartenente al demanio...
Svolgimento del processo
1. Con la sentenza n. 62/2015, l’adito Tribunale di Imperia respingeva la domanda proposta da D. M. T. diretta a sentir dichiarare, nei confronti della terza chiamata in causa Agenzia del Demanio, l’intervenuto acquisto per usucapione di un immobile sito in località “B.”, nel Comune di S., e catastalmente censito quale “fabbricato diruto” al foglio 4, mapp. 671, intestato al Demanio dello Stato, previamente rigettando la domanda stessa come originariamente formulata nei riguardi dell’Agenzia del Territorio, siccome soggetto estraneo al rapporto dedotto in giudizio e, quindi, difettante di legittimazione passiva.
Accoglieva, di contro, la domanda riconvenzionale dell’Agenzia del Demanio, condannando l’attrice al rilascio del citato immobile in suo favore, in quanto da ritenersi appartenente al demanio pubblico di cui all’art. 822, comma 2, c.c., essendo bene “riconosciuto di interesse storico, archeologico ed artistico ai sensi delle leggi in materia”, così come dichiarato con decreto del Ministero per i Beni e le Attività culturali in data 11 dicembre 2000, ragion per cui lo stesso non era usucapibile (non sortendo alcun rilievo la prospettata circostanza che la durata del supposto possesso potenzialmente idoneo all’usucapione fosse già maturata prima che intervenisse il suddetto provvedimento ministeriale dichiarativo dell’indicato regime giuridico a cui doveva intendersi sottoposto il bene per cui era controversia).
2. Decidendo sul gravame interposto dalla soccombente attrice, al quale resistevano le appellate Agenzie del Demanio e del Territorio, la Corte di appello di Genova, con sentenza n. 145/2018 (pubblicata il 31 gennaio 2018), rigettava l’appello e condannava l’appellante alla rifusione delle spese del grado in favore di ciascuna delle parti appellate.
A sostegno dell’adottata decisione, la Corte ligure ravvisava l’inopponibilità del giudicato esterno ricondotto alla sentenza di questa Corte di legittimità n. 13625/2009, poiché la sua efficacia – dipendente dal disposto annullamento dell’impugnata pronuncia – riguardava soltanto la questione generale sugli eventi interruttivi della prescrizione ai fini del decorso del termine per l’usucapione, senza che a detta sentenza fosse ricollegabile la definitività di apposito accertamento sulla possibile usucapibilità del bene ai sensi di legge.
Inoltre, il giudice di appello confermava la ricostruzione giuridica del primo giudice in ordine alla rilevata demanialità dell’immobile controverso ritenuto rientrante tra quelli indicati dal citato art. 822, comma 2, c.c., confermando che lo stesso – ancor prima dell’adozione del suddetto provvedimento ministeriale del 2000 dichiarativo del suo riconoscimento quale bene di interesse storico, archeologico ed artistico in virtù delle leggi in materia – non avrebbe potuto considerarsi suscettibile di possesso utile all’usucapione, in quanto assoggettato al tipico regime della demanialità pubblica di cui agli artt. 823 e 1145 c.c., anche in assenza di formali specifici provvedimenti amministrativi.
3. Avverso la citata sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, l’appellante D. M. T..
Ha resistito con controricorso la sola Agenzia del Demanio.
La difesa della ricorrente ha anche depositato memoria illustrativa.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, la ricorrente ha denunciato – ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. – la nullità dell’impugnata sentenza per violazione o falsa applicazione dell’art. 132, comma 2, n. 4), c.p.c. e dell’art. 118 disp. att. c.p.c., avuto riguardo all’omessa valutazione del giudicato esterno implicito, costituito dalla sentenza della Corte di cassazione n. 13625/2009, da considerarsi intervenuta fra le stesse parti, unitamente alla violazione degli artt. 2909 c.c. e 324 c.p.c., oltre che degli artt. 345, 384 e 394 c.p.c., sul presupposto che, in virtù della menzionata sentenza di legittimità, era rimasto accertato che, quantomeno sino all’emissione del decreto ministeriale del 2000 o alla data di emissione nel 2009 della suddetta sentenza, i beni immobili facenti parte del Borgo definito “B. V.” fossero usucapibili.
2. Con la seconda censura, la ricorrente ha dedotto – con riferimento all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. – la violazione e falsa applicazione dell’art. 132, comma 2, n. 4), c.p.c. e dell’art. 118 disp. att. c.p.c., nonché dell’art. 822, comma 2, c.c. e dell’art. 1 della legge n. 1089/1939, congiuntamente alla violazione e falsa applicazione degli artt. 827 e 586 c.c., prospettando l’erroneità dell’impugnata sentenza nella parte si era rilevato che gli atti compiuti dall’Amministrazione dello Stato erano idonei a dimostrare la sussistenza di quelle attività intrinseche ed estrinseche tali da giustificare l’assoggettamento dell’immobile al vincolo storico e culturale, ancor prima che detto vincolo venisse dichiarato con apposito decreto del competente Ministero del 2000, ragion per cui si sarebbe dovuto ritenere che, già antecedentemente all’emissione di detto decreto ed essendo trascorso il termine ventennale del possesso utile “ad usucapionem”, in favore di essa ricorrente era già intervenuto l’acquisto, a tale titolo, della proprietà dell’immobile dedotto in causa (e ciò anche sul presupposto che le Amministrazioni statali non avevano mai eccepito l’esistenza di un vincolo storico ed artistico, ma si erano limitate ad allegare che vi erano stati atti interruttivi del possesso).
3. Con la terza doglianza, la ricorrente ha lamentato la violazione o falsa applicazione degli artt. 1158 e 2697 c.c., sostenendo che la Corte territoriale abbia erroneamente ritenuto che il principio della c.d. “retroattività reale” dell’usucapione implica che chi usucapisce debba essere considerato titolare del diritto di proprietà dalla notificazione della domanda introduttiva del relativo giudizio e non, invece, da quando ha cominciato a possedere il bene, senza che, oltretutto, l’Agenzia del Demanio avesse idoneamente assolto all’onere probatorio - che le incombeva - circa il riscontro della natura giuridica del bene e della sua non assoggettabilità all’acquisto per usucapione.
4. Con il quarto ed ultimo motivo, la ricorrente ha prospettato la violazione dell’art. 91 c.p.c., adducendo l’illegittimità della pronuncia della condanna emessa a suo carico con riguardo al pagamento delle spese in favore dell’Agenzia delle Entrate e del Territorio, rispetto alla cui posizione la stessa non si era opposta all’estromissione dal giudizio, avendo dovuta citarla in appello al solo fine dell’integrazione del contraddittorio, ma senza formulare alcuna domanda né precisare alcuna conclusione contro detta appellata.
5. Rileva il collegio che il primo motivo va rigettato per le ragioni che seguono.
Deve osservarsi che, per come emergente dalla complessiva vicenda processuale (in cui si sono succedute tutte le sentenze di seguito riportate), la controversia (oltretutto intentata da quattro cittadini stranieri, in cui l’attuale ricorrente asserisce di essersi costituita “quale residente/abitante del Comune di Sanremo”) originaria era stata, in un primo tempo, definita con la sentenza di questa Corte n. 13625/2009, la quale – come rilevato nella pronuncia di appello oggetto del ricorso qui in esame – si era limitata, in effetti, decidendo su un solo motivo avente carattere preliminare, a statuire sulla tipologia degli atti interruttivi della prescrizione, a fronte di una domanda di usucapione contrapposta da una domanda riconvenzionale di accertamento dell’appartenenza dell’immobile alla P.A., senza, tuttavia, che fosse stata adottata alcuna statuizione su quest’ultima questione, da ritenersi, perciò, non coperta da alcun giudicato implicito (esterno con riferimento alla causa cui si riferisce l’odierno ricorso).
Ciò, oltretutto, senza trascurare che la citata sentenza n. 13625/2009 era intercorsa tra quattro individuati cittadini stranieri e l’Amministrazione del Demanio, con la partecipazione di residenti/abitanti del Comune di S. (al tempo dell’instaurazione della controversia), della cui collettività la ricorrente assume che ne facesse parte, senza, tuttavia, comprovarlo ai fini dell’emergenza univoca dell’identità soggettiva rilevante ai fini della possibile operatività del giudicato.
Inoltre, la suddetta sentenza di questa Corte del 2009 (di cassazione con rinvio) aveva – come già posto in risalto - pronunciato soltanto sulla generale questione di diritto circa l’idoneità dei citati atti interruttivi al fine dell’incidenza sul precorso periodo ventennale in relazione al quale sarebbe stato, in ipotesi, possibile accertare l’intervenuto acquisto per usucapione ma non sulla disponibilità e sull’usucapibilità in concreto del bene immobile.
Peraltro, nella successiva sentenza di questa Corte n. 27631/2018, con la quale è stato definito il ricorso avverso la sentenza adottata – in sede di rinvio - dalla Corte di appello di Genova (e che può essere esaminata, trattandosi della denuncia di un vizio processuale attinente all’eccezione della supposta esistenza di un giudicato esterno), proprio la questione sul mancato acquisto per usucapione (per difetto di prova) è passata in giudicato in dipendenza del rigetto del relativo motivo avverso la sentenza di rinvio.
Pertanto, si è venuto a formare un giudicato esterno espresso sul rigetto della domanda di usucapione (come tale non involta direttamente, né sul piano della pregiudizialità logico-giuridica, dalla precedente sentenza di questa Corte n. 13625 del 2009), ma limitato all’effettivo oggetto del giudizio, in cui non era venuto propriamente in rilievo, in virtù della proposta domanda riconvenzionale del Demanio statale, l’accertamento della proprietà demaniale del bene controverso ai sensi dell’art. 822, comma 2, c.c. (siccome riconosciuto di interesse storico e culturale), aspetto quindi rimasto impregiudicato ed invece investito direttamente dalla sentenza di appello oggetto del presente ricorso per cassazione (in cui la relativa questione costituisce oggetto del successivo secondo motivo).
6. Anche la seconda censura è infondata e deve, perciò, essere respinta.
Secondo la condivisibile ed anche recente giurisprudenza (cfr. Cass. n. 6522/2003 e Cass. n. 25690/2018) di questa Corte (alla quale si è uniformata l’impugnata sentenza), nel vigore della legge 1° giugno 1939, n. 1089, l'interesse storico-artistico di un immobile di proprietà dello Stato, la cui presenza ne determina, ai sensi degli artt. 822, secondo comma, ed 823, primo comma, c.c., l'inclusione nel demanio pubblico e l'assoluta inalienabilità, non postula necessariamente l’adozione di formali e specifici provvedimenti valutativi della Pubblica Amministrazione, ed è riscontrabile, pure in assenza di tali provvedimenti, sulla scorta delle intrinseche qualità e caratteristiche del bene, evincibili anche dagli atti e comportamenti posti in essere dall'autorità amministrativa nella gestione dello stesso.
Alla luce di tale principio, la Corte genovese ha accertato che, anche con riferimento al periodo precedente all’emissione del decreto formale di riconoscimento da parte del competente Ministero del 2000, era rimasto comprovato – per il bene in questione – l’interesse culturale e storico, che ne aveva rivelato la sua intrinseca condizione demaniale, come evincibile dagli specifici atti, amministrativi e giudiziali, indicati ed adeguatamente valutati nella sentenza di appello a pag. 10, dai quali è stato possibile evincere che – sulla base della stessa allegazione della ricorrente, secondo cui il suo possesso asseritamente idoneo all’usucapione sarebbe iniziato nel 1969 – per effetto dell’intestazione del bene al Demanio dello Stato a decorrere dal 31 maggio 1984, il ventennio previsto dall’art. 1158 c.c. non si era comunque compiuto, costituendo tale atto, unitamente agli altri richiamati, manifestazione oggettiva e soggettiva di contestazione della sussistenza di un altrui possesso, legittimo od anche illegittimo.
Al riguardo, correttamente, la Corte ligure ha evidenziato che i suddetti atti, pur non potendo ad essi essere riconosciuta l’efficacia di atti interruttivi della prescrizione (come stabilito nella citata precedente sentenza di questa Corte n. 13625/2009), certamente costituivano atti idonei a contestare qualsiasi eventuale possesso di terzi, facendone venir meno i caratteri della pubblicità, della pacificità e della continuità.
Vanno, pertanto, ribaditi, in materia, i seguenti principi:
- l’immobile di proprietà di un ente pubblico, sebbene non iscritto nell’elenco di cui all’art. 4, comma 1, della legge n. 1098/1939, sia riconosciuto di interesse storico, archeologico o artistico, è soggetto – ai sensi del combinato disposto degli artt. 822, comma 2, 823 e 824 c.c. – al regime del demanio pubblico, con la conseguenza che non può essere sottratto alla rispettiva destinazione, né essere oggetto di usucapione;
- i beni muniti di interesse storico, artistico o archeologico appartenenti allo Stato o ad altri enti pubblici devono considerarsi inalienabili e non assoggettabili a diritti di terzi (se non nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge che li riguardano): attraverso l’apposizione formale di uno di tali vincoli (mediante specifici provvedimenti amministrativi o l’emanazione di disposizioni normative), dunque, non si costituisce su di essi una nuova qualità, ma semplicemente si attesta l’esistenza di una prerogativa che il bene già possiede per le sue caratteristiche.
7. Anche la terza doglianza è priva di fondamento, ancorché con la specificazione di seguito subito esternata.
Infatti, pur avendo la Corte di appello erroneamente affermato che, in materia di usucapione, vige il principio della retroattività degli effetti della sentenza che la dichiara alla data di notificazione dell’atto introduttivo del giudizio, anziché da quando è stato giudizialmente accertato l’inizio del possesso (cfr. Cass. n. 25964/2015), tale errore giuridico non inficia decisivamente la motivazione e non determina la modifica della soluzione adottata con la sentenza e cristallizzata in dispositivo (donde la correggibilità sul punto della motivazione stessa ai sensi dell’art. 384, ultimo comma, c.p.c.), poiché questo aspetto rimane superato per effetto dell’accertamento compiuto e richiamato con riferimento alla risposta al precedente motivo (ovvero in virtù del fatto che, in ogni caso, pur volendosi far decorrere l’inizio del possesso vantato dalla ricorrente dal 1969, al momento in cui, nel 1984, l’Amministrazione del Demanio aveva cominciato a rivendicare la titolarità demaniale del bene, con la correlata intestazione nel relativo registro, contestando ogni avversa pretesa e, quindi, ogni situazione possessoria di terzi, non era decorso ancora il termine ventennale).
8. Pure il quarto ed ultimo motivo non coglie nel segno e va rigettato.
Occorre, invero, evidenziare che, nel caso di specie, risulta essere stato legittimamente applicato – in relazione all’individuato rapporto processuale - il principio della soccombenza, poiché era stata la stessa ricorrente ad evocare in giudizio, “ab origine”, come convenuta, l’Agenzia del Territorio, malgrado il suo difetto di legittimazione passiva, chiedendo poi di chiamare in causa l’Agenzia del Demanio, quale P.A. effettivamente munita di detta legittimazione, e la circostanza che la D. abbia appellato la sentenza di primo grado, convenendo nel giudizio di appello anche l’Agenzia del Territorio, pur se a titolo di mera litisconsorte processuale (senza averne, potendo, chiesto l’estromissione dal giudizio già in primo grado), non ha alcuna incidenza ai fini della conseguente regolazione delle spese, con la legittima sua condanna al pagamento delle spese di appello anche in favore della citata Agenzia del Territorio, siccome costituitasi pure in secondo grado.
9. In definitiva, alla stregua delle complessive argomentazioni svolte, il ricorso deve essere integralmente respinto, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente Agenzia del Demanio, dei compensi del presente giudizio (oltre eventuali spese prenotate a debito), liquidati nei sensi di cui in dispositivo.
Non va adottato, invece, alcun provvedimento sulla regolazione delle spese in ordine al rapporto processuale instauratosi tra la ricorrente e l’Agenzia delle Entrate e del Territorio, essendo quest’ultima rimasta intimata in questa sede.
Infine, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della stessa ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, dei compensi del presente giudizio, liquidati in complessivi euro 3.000,00, oltre eventuali spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.