Nel caso di specie, all'imputato è stato contestato di aver simulato di essere il difensore di fiducia di una donna e di aver indotto un assistente giudiziario ad accedere al sistema informatico della Procura della Repubblica presso il Tribunale, al fine di verificare le iscrizioni di procedimenti penali.
Svolgimento del processo
1. Con la sentenza impugnata la Corte d'appello di Genova ha confermato la condanna di C. E. per il reato di cui agli artt. 48 e 615-ter comma 2 n. 1) c.p., il quale, simulando di essere il difensore di fiducia di E. R. G., induceva l'assistente giudiziario E. T. ad accedere al sistema informatico della Procura della Repubblica presso il Tribunale di La Spezia al fine di verificare le iscrizioni di procedimenti penali a carico della suddetta G..
2. Avverso la sentenza ricorre l'imputato articolando quattro motivi.
Con il primo deduce erronea applicazione della legge penale e vizi di motivazione in merito alla integrazione della clausola di illiceità speciale prevista dall'art. 615-ter c.p. Osserva il ricorrente come tale disposizione punisca l'accesso ad un sistema informatico esclusivamente qualora lo stesso sia avvenuto abusivamente, il che sarebbe da escludere nel caso di specie, posto che la funzionaria che lo ha eseguito era abilitata ad accedere al SICP e specificamente incaricata compiere le ricerche all'interno del medesimo. Analoghi vizi vengono dedotti con il secondo motivo in merito alla valutazione dell'attendibilità delle dichiarazioni della T., condotta dalla Corte territoriale in violazione delle regole poste dall'art. 192 comma 3 c.p.p., avendo la stessa omesso il necessario vaglio critico del suo narrato e senza considerare l'interesse della dichiarante ad accusare l'imputato, essendo stata inizialmente indagata per i fatti per cui si procede. Non di meno la sentenza avrebbe confutato con argomentazioni inconferenti le obiezioni relative alle numerose contraddizioni rilevate con il gravame di merito nel racconto della dichiarante. Infine illogica sarebbe la motivazione articolata dai giudici del merito per screditare la versione dei fatti offerta dall'imputato, il quale ha sostenuto di aver richiesto l'accertamento nei registri informatici nella sua qualità di patrono degli autori di un esposto nei confronti della G., spendendo il nome di quest'ultima all'esclusivo fine di agevolare la ricerca commissionata. Ancora erronea applicazione della legge penale e vizi di motivazione vengono dedotti con il terzo motivo in merito alla ritenuta operatività dell'art. 48 c.p. Osserva in proposito il ricorrente che, anche qualora effettivamente il C. si fosse presentato alla T. dichiarando di essere il difensore della G., ciò non sarebbe stato sufficiente a sorprendere la buona fede della funzionaria, comunque tenuta a verificare l'effettiva qualifica del richiedente prima di dare seguito alla sua richiesta. Del resto la stessa Corte territoriale avrebbe riconosciuto come la T. abbia agito con negligenza, salvo poi illogicamente ritenere irrilevante la circostanza perché l'abdicazione dai propri doveri da parte della stessa sarebbe stata successiva alla condotta dell'imputato. E gli stessi vizi vengono denunziati anche nel quarto ed ultimo motivo di ricorso alla mancata revisione del giudizio di equivalenza tra l'aggravante contestata e le riconosciute attenuanti generiche, nonché della dosimetria della pena.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è nel suo complesso infondato e deve essere rigettato.
2. Il primo motivo è manifestamente infondato. Come chiarito da Sez. U, Sentenza n. 4694 del 27/10/2011, dep. 2012, Casani, Rv. 251270, successivamente confermata sul punto da Sez. U, Sentenza n. 41210 del 18/05/2017, Savarese, Rv. 271061, l'accesso abusivo ad un sistema informatico non è soltanto quello compiuto, aggirando le sue protezioni, dal soggetto in alcun modo legittimato ad introdursi nello stesso, ma anche l'accesso eseguito da colui che, sebbene autorizzato ad operare nel sistema, lo faccia per finalità diverse da quelle per cui l'autorizzazione gli è stata concessa. Ciò che rileva, perciò, è il profilo oggettivo dell'accesso e del trattenimento nel sistema informatico da parte di un soggetto che sostanzialmente non può ritenersi autorizzato ad accedervi ed a permanervi sia allorquando violi i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema, sia allorquando ponga in essere operazioni di natura ontologicamente diversa da quelle di cui egli è incaricato ed in relazione alle quali l'accesso era a lui consentito. In questi casi, infatti, è proprio il titolo legittimante l'accesso e la permanenza nel sistema che risulta violato, poichè il soggetto agente opera illegittimamente, in quanto il titolare del sistema medesimo lo ha ammesso solo a ben determinate condizioni, in assenza o attraverso la violazione delle quali le operazioni compiute non possono ritenersi assentite dall'autorizzazione ricevuta.
Ai fini dell'integrazione della clausola speciale di illiceità prevista dall'art. 615-ter c.p. è dunque irrilevante che la T. fosse autorizzata ad interrogare il SICP ed anzi specificamente assegnata a svolgere tale compito nelle relazioni con l'utenza, giacchè, nel caso di specie, il suo accesso è stato certamente abusivo - ancorchè inconsapevolmente abusivo, avendo agito perché ingannata dall'imputato in merito alla sua qualifica - in quanto eseguito in difetto delle condizioni che la legittimavano ad operare nel sistema per le finalità di cui all'art. 335 comma 3 c.p.p..
3. Inammissibile è anche il secondo motivo, posto che generiche erano le censure proposte con riguardo all'attendibilità della T. con il gravame di merito e che in ogni caso la Corte ha indicato i riscontri ritenuti idonei a confermare le dichiarazioni della medesima. E' poi irrilevante in tal senso che la sentenza non faccia esplicito riferimento all'art. 192 comma 3 c.p.p., posto che comunque i giudici di merito hanno fatto applicazione della regola di valutazione della prova posta dalla disposizione citata.
Quanto alle dichiarazioni dell'imputato, quelle proposte sono mere censure in fatto indeducibili in sede di legittimità.
4. Il terzo motivo è infondato. E' pacifico - n$ il ricorrente lo contesta - che anche del reato di cui all'art. 615-ter c.p., nella forma aggravata di cui si tratta, debba rispondere ex art. 48 c.p. l'autore mediato il quale abbia indotto in errore colui che ricopre la qualifica soggettiva tipica e che materialmente lo ha commesso (Sez. 5, Sentenza n. 1957 del 17/11/2020, dep. 2021, Giardini, Rv. 280413). E' invece irrilevante che quest'ultimo sia caduto in errore anche a causa della propria eventuale negligenza, non avendo ottemperato, in ipotesi, al dovere di verificare che il C. possedesse effettivamente la qualifica di difensore della G. dallo stesso dichiarata. Ciò che rileva è infatti l'idoneità, nelle circostanze date, della condotta dell'autore mediato a trarre in inganno quello immediato non punibile. Ed in tal senso la Corte territoriale, al di là dell'inconferente riferimento al momento in cui si sarebbe verificata l'omissione, ha logicamente argomentato le ragioni per le quali, in forza della consuetudine professionale, la T. non aveva dubitato di quanto riferito dall'imputato, venendo dunque effettivamente indotta in errore sulla sua qualifica.
5. Generiche e versate in fatto sono invece le censure proposte con l'ultimo motivo. La sentenza ha infatti specificamente confutato i rilievi proposti con il gravame di merito al fine di ottenere la revisione del trattamento sanzionatorio, ma con tale apparato giustificativo il ricorso non si è sostanzialmente confrontato, limitandosi a rieditare i medesimi rilievi sollecitando questa Corte ad una rivalutazione del merito della decisione impugnata sul punto. E' poi manifestamente infondato che il giudice dell'appello non si sia espresso in merito alla richiesta di riduzione della pena, avendo invece esplicitamente illustrato le ragioni per le quali ha ritenuto la congruità di quella comminata in primo grado.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna l'imputato al pagamento delle spese processuali.