
Svolgimento del processo
1. In parziale riforma del provvedimento con cui il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto aveva dichiarato G.C. responsabile dei reati di cui agli artt. 81, 595, primo e terzo comma, 660 cod. pen., per aver offeso la reputazione di A.C. (capo a), e dei reati di cui agli artt. 81, 595, primo comma, 660 cod. pen., per aver offeso la reputazione di M.I.B.(capo b), la Corte d'appello di Messina, con la sentenza indicata in epigrafe, ha dichiarato non doversi procedere per il reato di cui all'art. 660 cod. pen. perché estinto per prescrizione, rideterminando la pena in mesi sette di reclusione, confermando nel resto la decisione di primo grado anche con riguardo alla condanna al risarcimento a favore delle parti civili A.C. e M.I.B..
2. Avverso la sentenza, ha presentato ricorso l'imputato, per il tramite del suo difensore di fiducia, Avv. S.C., articolando le proprie censure nei motivi di seguito enunciati nei limiti richiesti dall'art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1 Con il primo motivo, si deduce errata applicazione della legge penale, per avere la Corte territoriale ritenuto integrato il reato di diffamazione, anziché quello di ingiuria, trascurando come, nel caso di specie, visto il mezzo di propalazione (socia/ network WhatsApp, utilizzato con riferimento al gruppo denominato 'quelli del Cisl') dell'offesa, si fosse instaurato quel rapporto diretto tra offensore e offeso, che avrebbe consentito a quest'ultimo di interloquire in via immediata con l'offensore, a scopo difensivo. Pertanto, posto che il contestato reato di diffamazione doveva essere riqualificato ai sensi dell'art. 594 cod. pen., e posto anche che il reato di ingiuria è ormai depenalizzato, il ricorrente invoca
l'assoluzione perché il fatto non è più previsto come reato.
2.2 Col secondo motivo, si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'art. 192 del codice di rito, per avere la Corte territoriale fondato il giudizio di responsabilità penale dell'imputato sull'assunto, non provato, che i messaggi fossero stati inviati dal G.C.. Nonostante la difesa avesse fatto presente al Giudice d'appello la necessità di disporre il sequestro dello smartphone dell'imputato, al fine di verificare con certezza la provenienza effettiva dei messaggi offensivi da quel telefono cellulare, i Giudici d'appello hanno sorvolato su tale profilo, ritenendo provata la riconducibilità dei messaggi all'imputato, dal momento che quest'ultimo mai ha negato di aver inviato i messaggi in questione.
2.3 Col terzo motivo, si eccepiscono le medesime censure in relazione al reato di cui al capo b) dell'imputazione. Più in particolare, si deduce violazione dell'art. 120 cod. pen. per nullità della querela sporta da M.I.B.. Data la grave infermità mentale da cui è affetta quest'ultima, la querela avrebbe dovuto essere presentata dal genitore ovvero da un curatore speciale. Il Giudice del merito avrebbe errato nel ritenere applicabile l'art. 122 cod. pen., poiché il concorso formale di reato in danno di più persone, che connota il caso di specie, avrebbe reso la procedibilità di ciascun reato condizionata alla querela di ognuna delle persone offese.
2.4 Col quarto motivo, si deduce violazione dell'art. 124 cod. pen. per tardività della querela di M.I.B., presentata oltre un anno e due mesi dalla condotta contestata. Dalle deposizioni, in sede d'udienza, delle due p.o. è impossibile individuare con precisione il momento a partire dal quale M.I.B. abbia avuto contezza del fatto. La difesa ritiene che la p.o. querelente non possa essere del tutto esonerata dall'onere di fissare, quantomeno con ragionevole precisione, il momento in cui si è avuto cognizione del fatto.
3. Sono state trasmesse, ai sensi dell'art. 23, comma 8, d.l. 28/10/2020, n. 137, conv. con I. 18/12/2020, n. 176, le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore generale, Dott. L.G., il quale ha chiesto pronunciarsi il rigetto del ricorso; si dà atto che la difesa delle parti civili, Avv. B., ha depositato conclusioni scritte e nota spese e che anche la difesa dell'imputato, Avv. C., ha depositato conclusioni scritte.
Motivi della decisione
1. Il primo motivo è manifestamente infondato, perché in palese contrasto con l'elaborazione giurisprudenziale di questa Corte relativa all'elemento distintivo tra il delitto d'ingiuria, depenalizzato ai sensi dell'art. 1, comma 1, lett. c), d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, e quello di diffamazione. Si è chiarito, a tal proposito, che soltanto il requisito della contestualità tra comunicazione dell'offesa e recepimento della stessa da parte dell'offeso vale a configurare l'ipotesi dell'ingiuria. In difetto di tale immediatezza, l'offeso resta estraneo alla comunicazione intercorsa con più persone e non è posto in condizione di interloquire con l'offensore (Sez. 5, n. 10905 del 25/02/2020, Sala, Rv. 278742 - 01); nel qual caso, si profila la diversa ipotesi della diffamazione. In base al medesimo requisito dell'immediatezza con cui l'offeso recepisca il messaggio - necessario affinché possa profilarsi l'ipotesi dell'ingiuria anziché quella della diffamazione - si è ritenuto integrato «il delitto di diffamazione, e non la fattispecie depenalizzata di ingiuria aggravata dalla presenza di più persone, nel caso di invio di messaggi contenenti espressioni offensive nei confronti della persona offesa su una "chat" condivisa anche da altri soggetti, nel caso in cui la prima non li abbia percepiti nell'immediatezza, in quanto non collegata al momento del loro recapito» (Sez. 5, n. 28675 del 10/06/2022, Ciancio, Rv. 283541-01).
La giurisprudenza di questa Corte indicata dal ricorrente (Sez. 5, n. 10905 del 25/02/2020, Sala, cit.: «integra il delitto di ingiuria aggravata dalla presenza di più persone, e non il delitto di diffamazione la condotta di chi pronunzi espressioni offensive mediante comunicazioni telematiche dirette alla persona offesa attraverso una video "chat", alla presenza di altre persone invitate nella "chat", in quanto l'elemento distintivo tra i due delitti è costituito dal fatto che nell'ingiuria la comunicazione, con qualsiasi mezzo realizzata, è diretta all'offeso, mentre nella diffamazione l'offeso resta estraneo alla comunicazione intercorsa con più persone e non è posto in condizione di interloquire con l'offensore»: fattispecie in tema di "chat" vocale sulla piattaforma "Google Hangouts"») è stata evocata in maniera del tutto inconferente, posto che, nel caso oggetto del presente ricorso, non già di comunicazione per mezzo di chat vocale si è trattato, bensì di comunicazione attraverso messaggi rivolti a un gruppo WhatsApp. In tale caso, viene a mancare il requisito dell'immediatezza della comunicazione, erroneamente invocato dal ricorrente. Per contro, la Corte territoriale ha operato buon governo dei suddetti orientamenti giurisprudenziali, evidenziando la modalità temporalmente asincrona con cui i diversi componenti di un gruppo WhatsApp possono accedere alla lettura dei messaggi, a dispetto della definizione di tale forma di comunicazione come 'messaggistica istantanea': tale aggettivo attiene, infatti, all'ordinaria trasmissione immediata del messaggio ma non implica affatto la contestuale ricezione, che dipende da numerosi, variabili fattori (il telefono potrebbe essere spento, potrebbe non essere collegato alla rete etc.).
2. Il secondo motivo è manifestamente infondato, in quanto integralmente reiterativo della medesima censura dedotta in appello e già disattesa, in vista della genericità della stessa, dalla Corte territoriale con argomenti dotati di ferrea logica e coerenti col disposto di cui all'art. 192 del codice di rito, perché basati su inequivoche evidenze documentali, testimonianze dei partecipanti al gruppo WhatsApp e s.i.t. acquisite col consenso delle parti. Gioverà dunque ribadire che, secondo la ferma giurisprudenza di questa Corte, è inammissibile il ricorso per cassazione che riproduce e reitera gli stessi motivi prospettati con l'atto di appello e motivatamente respinti in secondo grado, senza confrontarsi criticamente con gli argomenti utilizzati nel provvedimento impugnato ma limitandosi, in maniera generica, a lamentare una presunta carenza o illogicità della motivazione (così, tra le altre, Sez. 2, n. 27816 del 22/03/2019, Rovinelli, Rv. 276970-01; Sez. 3, n. 44882 del 18/07/2014, Carialo, Rv. 260608-01; Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Amone, Rv. 243838- 01).
3. Il terzo motivo è infondato, avendo la difesa eluso l'effettivo e critico confronto con la motivazione resa, sul punto, dai Giudici d'appello, i quali hanno illustrato come, dalla querela presentata dalla madre di M.I.B. e acquisita al fascicolo, era chiaramente desumibile l'istanza di punizione nei confronti dell'imputato anche per le gravissime offese rivolte direttamente a M.I.B.. Invero, dalla querela sporta da A.C., risulta quanto segue:
«la esponente è madre di una figlia con handicap mentale .... le frasi offensive profferite nei suoi confronti e per la sua disabilità integrano gli estremi della discriminazione in quanto, ai sensi dell'art. 2, n.4, I. 67/2006, il comportamento di G.C. è stato posto in essere anche per motivi connessi alla disabilità e trattasi di un comportamento che viola la dignità e la libertà della persona disabile creando a suo carico un clima di umiliazione nella consapevolezza dell'incapacità di quest'ultima di difendersi. Dichiara di sporgere formale denuncia, chiedendo la punizione ai sensi cli legge nei confronti di G.C. ».
Dati tali presupposti, ritiene il Collegio che correttamente la Corte d'appello abbia ritenuto applicabile, al caso di specie, l'art. 122 cod. pen., secondo cui il reato commesso in danno di più persone è punibile anche se la querela è proposta da una soltanto di esse. Peraltro, con valutazione che si sottrae a censure di illegittimità o illogicità, la Corte territoriale ha ritenuto plausibile -sulla base sia della querela presentata da M.I.B. sia da quanto ribadito in dibattimento che la ragazza abbia avuto contezza dei fatti dalla madre, sebbene non in tempo reale rispetto alla propalazione dei messaggi, non risultando infatti iscritta al gruppo WhatsApp attraverso cui sono state esternate le offese nei suoi confronti.
4. In disparte quanto rilevato a proposito del terzo motivo, si osserva che la infondatezza del quarto motivo, con il quale si denuncia l'intempestività della querela proposta da M.I.B., ha carattere assorbente. Ed invero, va ribadito che, alla stregua della consolidata giurisprudenza di questa Corte, in tema di querela, è oner della parte che ne deduca l'intempestività fornire la prova di tale circostanza, sicché l'eventuale situazione di incertezza deve essere risolta a favore del querelante (Sez. 2, n. 48027 del 18/10/2022, Spanò, Rv. 284168 - 01). Orbene, il ricorrente sostiene che non sarebbe stata raggiunta la prova del momento in cui la M.I.B. ha avuto contezza dei messaggi diffamatori, in tal modo riconoscendo in termini espliciti di non avere assolto all'onere sopra indicato.
In aggiunta a tali rilievi, si osserva che la valutazione di credibilità delle dichiarazioni della A.C., quanto al fatto di non avere informato la figlia per diverso tempo ("quasi un anno"), non è intaccata in alcun modo dal ricorso.
5. Il Collegio, pertanto, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili che liquida in complessivi euro 4.000,00, oltre accessori di legge. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 d.lgs.196/03 in quanto imposto dalla legge.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili che liquida in complessivi euro 4.000,00, oltre accessori di legge. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 d.lgs.196/03 in quanto imposto dalla legge.