Ai fini della determinazione del compenso, va disapplicato l'art. 5, commi 1 e 2, del D.M. n. 30/2012 laddove distingue tra attivo realizzato e inventariato a seconda di due gruppi eterogenei di tipologie di concordato, dovendosi invece fare riferimento all'attivo inventariato.
Svolgimento del processo
Il Tribunale di Crotone, con decreto del 6.3.2018, ha liquidato a G. D., commissario giudiziale nella procedura di concordato preventivo (con cessione dei beni) della C. s.r.l. - dichiarata inammissibile a seguito di revoca ex art. 173 comma 2° legge fall - la somma di € 31.031,49, a titolo di compenso finale, oltre accessori di legge.
Il giudice ha indicato quali criteri per la liquidazione del compenso l’ammontare dell’attivo e del passivo risultanti dalla proposta di concordato ed applicato una riduzione del 50%, stante l’arresto della procedura nella fase iniziale.
C. s.r.l. ha proposto ricorso ex art. 111 Cost. per la cassazione del decreto, affidandolo a due motivi.
G. D. ha resistito con controricorso.
La parte ricorrente ha depositato memoria ex art. 380 bis. cod. proc. civ..
Motivi della decisione
1. Con entrambi i motivi, che denunciano la violazione degli artt. 161,163, 172 legge fall, nonché degli artt. 39 e 165 legge fall. e 1 e 5 D.M. n. 30/2012, la ricorrente lamenta l’eccessività del compenso liquidato in favore del Commissario Giudiziale.
Assume, in sintesi, che il tribunale ha erroneamente applicato il DM n. 30/2012 e in particolare il suo art. 5, che distingue tra procedure di concordato preventivo con liquidazione dei beni (contemplate nel primo comma), in relazione alle quali il compenso si determina sull’attivo “realizzato” e sul passivo inventariato, e “procedure diverse da quelle di cui al comma 1”, solo nelle quali il compenso è commisurato (oltre che al passivo) all’attivo inventariato: a suo dire, pertanto, nel caso di specie, in cui si trattava di un concordato con cessione dei beni revocato quando ancora non era stato realizzato alcun attivo, il giudice non avrebbe potuto tener conto dell’attivo indicato nella proposta, ma avrebbe dovuto far riferimento per la determinazione del compenso al solo parametro del passivo risultante dall’inventario.
2. I motivi, da esaminare congiuntamente, vanno respinti.
Il Tribunale di Crotone ha liquidato il compenso del Commissario Giudiziale nominato nella procedura di concordato preventivo con cessione dei beni di C. s.r.l. sulla base dei valori dell’attivo e del passivo risultanti dalla proposta concordataria, calcolandolo in un importo inferiore alla media fra quello minimo (€ 59.107,61) e quello massimo (€95.227.18), poi ridotto percentualmente nella misura del 50% (comprensivo di un 20% riconducibile all’attività espletata dal C.G. nella fase cd. di pre-concordato) in ragione dell’arresto anticipato della procedura.
Il giudice, liquidando il compenso anche sulla base dell’attivo e non del solo passivo inventariato, ha in sostanza disapplicato l’art. 5 comma 1° DM 30/2012 che, come rilevato dalla ricorrente, contempla fra i parametri per la determinazione di detto compenso in un concordato in cui sia prevista la liquidazione dei beni, il solo attivo “realizzato”.
La soluzione adottata dal giudice, benché non sorretta da specifiche argomentazioni, è, ad avviso di questo Collegio, conforme a diritto; in questa sede si provvederà dunque unicamente a integrare la motivazione del decreto, così come consentito dall’art. 384 c.p.c..
In proposito, va preliminarmente osservato che sin dall’emanazione del d.m. n. 30 del 2012, la dottrina sollevò numerose critiche sui nuovi criteri elaborati per la determinazione del compenso spettante agli organi nominati nelle procedure concorsuali, evidenziandone plurime criticità, specie con riguardo alle procedure concordatarie, non senza salutare con favore sia l’eliminazione del cd. doppio compenso al commissario giudiziale, per le fasi ante e post omologa, introdotto dal precedente d.m. n. 570 del 1992 (ma ampiamente disapplicato in giurisprudenza) sia, ma in minor misura, la lacuna colmata con l’introduzione della disciplina del compenso al liquidatore giudiziale nominato ai sensi del novellato art. 182 legge fall., però con integrale assimilazione al compenso del curatore, nonostante la prevalente giurisprudenza dell’epoca gli riconoscesse la sola percentuale sull’attivo effettivamente realizzato, con esclusione di ogni incidenza del passivo, alla cui formazione era ritenuto estraneo (Cass. n. 9178 del 2008, Cass. n. 9864 del 2006, Cass. n. 16989 del 2004, Cass. n. 6924 del 1997).
Sennonché, a distanza di ormai oltre dieci anni, delle segnalate criticità il legislatore di rango secondario non si è ancora fatto carico, né si è peritato di adeguare i criteri dettati dal d.m. n. 30 del 2012 alle sopravvenute innovazioni della legge fallimentare, tra le quali va menzionata l’enucleazione della figura del concordato con continuità aziendale ex art. 186-bis legge fall., introdotto dall’art. 33 del d.l. 22 giugno 2012 n. 83 (convertito con modificazioni dalla l. 7 agosto 2012, n. 134) e successivamente integrato da ulteriori interventi legislativi.
La criticità più eclatante riguarda la liquidazione del compenso del commissario giudiziale nelle ipotesi in cui la procedura si arresti anticipatamente (per revoca, esito negativo della votazione dei creditori, diniego di omologa, o anche risoluzione o annullamento
del concordato) prima della realizzazione dell’attivo – e magari proprio grazie ad una solerte attività di verifica e controllo svolta scrupolosamente dallo stesso commissario giudiziale – dal momento che, per alcune forme di concordato, l’art. 5, d.m. n. 30 del 2012 assume il parametro dell’attivo realizzato in luogo di quello dell’attivo inventariato.
In particolare, l’art. 5 d.m. cit., nel richiamare le percentuali dettate dall’art. 1 per il compenso al curatore, fissa un unico parametro per quanto attiene al passivo (e cioè «l’ammontare del passivo risultante dall’inventario»), mentre opera una distinzione per quello relativo all’attivo: il primo comma fa riferimento all’attivo realizzato per ogni concordato preventivo «in cui siano previste forme di liquidazione dei beni», e perciò non solo il concordato con cessione dei beni, ma anche quello che contempli una continuità aziendale accompagnata da anche marginali forme di liquidazione di beni (cd. concordato “misto”) e finanche il concordato cd. in continuità indiretta, dove la cessione dell’azienda ha indubbiamente connotati liquidatori.
Il secondo comma, invece, prevede che «nelle procedure di concordato preventivo diverse da quelle di cui al comma 1» – costituite non solo dal concordato in continuità aziendale, ma anche da un concordato “con garanzia” o “con assuntore” – si faccia riferimento all’attivo inventariato.
Ritiene questo collegio che esista un aspetto di irragionevolezza nell’art. 5 del d.m. 30/2012, laddove esso fissa, ai commi 1 e 2, due diversi criteri per la liquidazione del compenso del commissario giudiziale, peraltro accomunando alcune tipologie di concordato preventivo anche assai diverse tra loro.
Quella differenziazione poteva forse avere un senso quando, nel precedente d.m. n. 570 del 1992, si distingueva tra fase ante e post omologa, prevedendosi che per l’opera prestata prima dell’omologazione il compenso del commissario giudiziale fosse calcolato in maniera identica, a prescindere dal tipo di concordato, mentre per l’attività prestata dopo l’omologazione si dovesse distinguere fra concordato liquidatorio e concordato in continuità.
Come è noto, la disapplicazione di quel criterio da parte della giurisprudenza di merito è stata avallata da questa Corte in ragione dell’irragionevolezza, ai sensi dell’art. 3 Cost., del conseguente raddoppio del compenso del commissario giudiziale rispetto a quello del curatore fallimentare (v. Cass. Sez. U, n. 4670 e n. 5887 del 1997; Cass. sez. 1, n. 7147 del 1997, n. 10745 del 1998, n. 13886 del 1999, n. 13922 del 1999, n. 3691 del 2000, n. 693 del 2001; cfr., da ultimo, Cass. sez. 1, n. 26897 del 2020).
Dopo oltre tre lustri, quella soluzione di “diritto vivente” è stata recepita dal legislatore nel d.m. n. 30 del 2012, il cui art. 5 prevede ora un unico compenso spettante al commissario giudiziale «anche per l'opera prestata successivamente all'omologazione».
Di fatto, quel giusto accorpamento ha finito però per “sbilanciare” il precedente assetto dei parametri (ove poteva avere un senso distinguere tra attivo inventariato e attivo realizzato, tenuto conto della tipologia dei compiti espletati nelle fasi ante e post omologa delle diverse procedure), dando la stura ad un’ulteriore e opposta irragionevolezza per disparità di trattamento, particolarmente accentuata in riferimento all’attività svolta nella fase ante omologa.
Difatti, basta che il concordato preventivo contempli una qualsiasi forma di liquidazione (come avviene nel concordato cd. misto) per far scattare il riferimento all’attivo realizzato, che potrebbe però essere poco o nulla per ragioni oggettive, non riconducibili all’impegno profuso dal commissario giudiziale.
Per contro, basta che non vi sia attività di liquidazione (ad esempio nel concordato con assuntore, che per il commissario giudiziale può ben essere meno oneroso di quello liquidatorio) per far scattare il riferimento all’attivo inventariato, di regola più alto.
In realtà, l’attività del commissario giudiziale è per larghi tratti identica nelle varie tipologie di procedure, specie nella fase ante omologa, essendo questi parimenti tenuto a svolgere funzioni di controllo e consulenza, anche nella fase di preconcordato (art. 161, commi 7 e 8 legge fall.), in particolare laddove, senza pretesa di esaustività, vigila sull'amministrazione del patrimonio e sull'esercizio dell'impresa (art. 167 legge fall.), procede alla verifica dell'elenco dei debitori e dei creditori e comunica a questi ultimi le proposte del debitore (art. 171 legge fall.), redige l'inventario del patrimonio e relaziona in ordine alle cause del dissesto, alla condotta del debitore ed al contenuto della proposta di concordato (art. 172 legge fall.), riferisce al tribunale circa l’esistenza di cause di revoca del concordato (art. 173 legge fall.), partecipa attivamente all’adunanza dei creditori (art. 175 legge fall.), intercetta l’eventuale mutamento delle condizioni di fattibilità del piano concordatario (art. 179 legge fall.), esprime parere motivato sull'omologazione del concordato (art. 180 legge fall.), ne sorveglia l'esecuzione (art. 185 legge fall.) e propone eventuale istanza di annullamento (art. 186 legge fall.).
Può inoltre essere sentito dal tribunale in merito al compimento di atti di straordinaria amministrazione (art. 167 legge fall.), alle “offerte concorrenti” (art. 163-bis legge fall.), alla sospensione o allo scioglimento dei contratti pendenti (art. 169-bis legge fall.) e alle autorizzazioni di finanziamenti interinali o urgenti (art. 182- quinquies, commi 1-4 legge fall.).
E’ pur vero che il concordato con continuità aziendale (similmente, ma in minor misura, al concordato “con riserva”) richiede costanti e impegnative analisi di tipo economico- aziendalistico, anche prospettiche (ad esempio sulla capacità dell’impresa in going concern di realizzare un margine operativo lordo, cd. MOL o EBTIDA), per verificare che la prosecuzione dell’attività sia funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori e comunque non risulti mai manifestamente dannosa per gli stessi.
E del pari è vero che, dopo la tipizzazione dell’istituto (ora ancora più marcata nel nuovo CCII), sono state enucleate nuove ipotesi di pareri di competenza del commissario giudiziale, in vista della partecipazione dell’impresa in concordato a procedure di affidamento di contratti pubblici (art. 186-bis, comma 4, legge fall.), o del pagamento dei creditori anteriori cd. strategici (art. 182-quinquies, comma 5, legge fall.).
E’ infine un dato di fatto che, a distanza di un decennio, di tali peculiarità (così come delle criticità evidenziate in dottrina e giurisprudenza) il Ministro della giustizia non ha inteso farsi carico.
In ogni caso, occorre tener conto: che la complessità della procedura concordataria varia piuttosto in relazione al caso concreto che non alla forma prescelta; che molti dei suddetti pareri sono solo eventuali; che vi è una corposa base imprescindibile di attività comune a tutte le tipologie di concordato; che il valore dell’attivo inventariato, preso come base di calcolo del compenso spettante al commissario giudiziale, è sicuramente superiore nel concordato in continuità aziendale rispetto al concordato liquidatorio, sicché, anche applicando la medesima percentuale, il risultato sarebbe comunque (e giustamente) diverso; ma soprattutto che il discrimine tra primo e secondo comma dell’art. 5, d.m. 30/2012 non risiede affatto nella distinzione tra concordato in continuità aziendale ed altre forme di concordato (bensì, come visto, sul discrimine della presenza o meno di una qualsivoglia forma di liquidazione di beni).
Ebbene, tutto ciò considerato, deve ritenersi che, specie dopo l’unificazione delle due fasi ante e post omologa ai fini della determinazione del compenso, le eventuali attività ulteriori del commissario giudiziale del concordato in continuità ben possano essere apprezzate nell’ambito della forbice tra la percentuale minima e massima prevista dall’art. 1 d.m. cit., cui l’art. 5 rinvia – nel rispetto del criterio «dell'opera prestata» ex art. 2, comma 1, d.m. cit., richiamato dal successivo art. 5, comma 5, che come detto consente di scendere anche al di sotto del cd. “minimo assoluto” – e che sia più giusto e ragionevole applicare detta percentuale, per tutti i concordati, sul valore dell’attivo inventariato, senza attingere ad un criterio del tutto diverso e certamente esorbitante dalle funzioni del commissario giudiziale, quale è quello dell’attivo realizzato, che rientra invece nell’orbita delle funzioni del liquidatore giudiziale, poiché anche nella fase post omologa i compiti del commissario giudiziale sono pur sempre di sorveglianza, e non già di liquidazione.
Il che porta ad evidenziare, per completezza d’indagine, come il disposto dell’art. 5 d.m. 30/2012 abbia creato un’ulteriore irragionevolezza là dove, ai commi 1 e 3, equipara clamorosamente i criteri di determinazione del compenso tra il commissario giudiziale di un concordato preventivo liquidatorio e il liquidatore del medesimo concordato, nonostante le loro attività siano oggettivamente diverse (v. Cass. n. 7973 del 2016, per cui «è ragionevole che il tribunale riconosca al commissario giudiziale somme maggiori rispetto a quelle attribuite al liquidatore, posto che l'attività espletata dal primo prende avvio già dal decreto di ammissione alla procedura ex art. 163 l.fall. e si protrae anche dopo l'omologa del concordato, dovendo egli sorvegliarne l'adempimento ex art. 185 l.fall., mentre il ruolo del liquidatore è necessariamente ristretto alla sola fase esecutiva del concordato, successiva rispetto all'omologa della proposta»; cfr. Cass. n. 6806 del 2021, per cui commissario giudiziale e liquidatore giudiziale sono organi che «svolgono attività di differente natura e consistenza nell'ambito della procedura per un lasso di tempo non coincidente»).
A ben vedere, infatti, solo per il liquidatore ha senso fare riferimento all’attivo realizzato, rientrando tale attività nei suoi compiti, mentre il commissario giudiziale non ha il compito di realizzare l’attivo, bensì solo di sorvegliare la fase esecutiva del concordato.
Da ultimo, e sempre per completezza, si evidenzia che il richiamo dell’art. 5, comma 3, d.m. cit. ai criteri stabiliti dall’art. 1 per il compenso del curatore fallimentare, avuto riguardo non solo al comma 1 (che fa riferimento all’ammontare dell’attivo realizzato dalla liquidazione), ma anche al comma 2 (che riguarda l’ammontare del passivo risultante dall’inventario), integra un’ulteriore irragionevolezza del d.m. 30/2012, come detto segnalato in dottrina già all’indomani della sua emanazione, poiché, a differenza del curatore, il liquidatore non procede affatto alla verifica dei crediti, che rientrano nella sua sfera di attività ai più limitati fini, di stampo prettamente operativo, della ripartizione dell’attivo.
Alla luce di quanto precede, ritiene questo collegio che, per porre rimedio agli aspetti di irragionevolezza e disparità di trattamento rinvenuti nell’art. 5 del d.m. 30/2012, nella parte in cui fissa, nei primi due commi, due diversi criteri per la liquidazione del compenso del commissario giudiziale, a seconda della tipologia di concordato preventivo, sia necessario disapplicare le disposizioni in questione – perché´ inficiate da eccesso di potere e violazione di legge per contrasto col principio di ragionevolezza e di uguaglianza – seguendo, in loro vece, il criterio unitario sopra indicato, con i correttivi evidenziati.
Si tratta, per vero, di un’operazione ermeneutica che risulta essere stata già seguita, nell’ultimo decennio, da vari giudici di merito, ma sulla quale questa Corte non ha ancora avuto modo di pronunciarsi.
Invero la Corte costituzionale, con ordinanza n. 484 del 1993, ha già chiarito che l'art. 39 legge fall., prevedendo che il compenso al curatore fallimentare e (per il tramite dell’art. 165 legge fall.) al commissario giudiziale preposto al concordato preventivo sia liquidato secondo le norme stabilite con decreto ministeriale, opera un rinvio formale (e non già materiale) alla fonte regolamentare, e quindi non modifica la natura di quest'ultima, né conferisce forza di legge alle sue disposizioni.
Perciò, la disciplina di tali compensi – in quanto contenuta in un atto sprovvisto di forza di legge – è insuscettibile di formare oggetto di questione di costituzionalità innanzi alla Consulta, mentre l'eventuale contrasto di detta disciplina con l'art. 3 Cost. può essere accertato incidentalmente dal giudice ordinario, al fine della disapplicazione della norma regolamentare.
Proprio con riguardo all’analoga disapplicazione del precedente d.m. n. 570 del 1992 sulla liquidazione del compenso al commissario giudiziale per violazione dell'art. 3 Cost., di cui sopra si è dato conto, le sezioni unite di questa Corte hanno osservato che «il sindacato del giudice ordinario sull'atto amministrativo, ai soli fini della sua disapplicazione al caso concreto, non è limitato alla mera violazione di legge, ma si estende anche all'accertamento del vizio di eccesso di potere, non comportando tale controllo l'esame delle ragioni di opportunità e di merito (rientranti nei poteri della P.A., incensurabili da parte dell'A.G.O.), bensì l'accertamento circa il rispetto di quei criteri generali ed astratti che debbono presiedere all'esercizio dei poteri peculiari della P.A.
Pertanto, l'atto amministrativo può essere legittimamente disapplicato dal giudice ordinario per dedotta violazione dell'art. 3 Cost., che, costituendo un principio generale di diritto condizionante l'intero ordinamento nella sua obiettiva struttura ed esprimendo un generale canone di coerenza dell'ordinamento normativo, individua proprio l'eccesso di potere dell'organo amministrativo, il quale, se non si uniforma a tale principio, finisce per eccedere i limiti della propria competenza (Cass., Sez. U, n. 4670 del 1997; conf. Cass., n. 26897 del 2020).
La presumibile maggiore onerosità di un concordato in continuità (“puro” o “misto”), dovuta al lavoro aggiuntivo che il commissario giudiziale di una simile procedura deve svolgere per controllare le modalità di esercizio dell’attività di impresa ed evitare il rischio che la stessa diventi dannosa per i creditori, potrà essere apprezzata all’interno del range esistente fra i minimi e i massimi di tariffa, tenendo conto della natura dell’attività svolta nel concreto e della possibilità di scendere anche al di sotto di detti minimi, così come del minimo assoluto, in caso di cessazione anticipata della procedura.
Ne resta corroborata la necessità di ancorare la liquidazione del compenso del commissario giudiziale nel concordato preventivo all’apprezzamento circa la concreta ed effettiva natura, qualità e quantità dell’opera prestata, e con essa anche l’orientamento consolidato di questa Corte per cui il tribunale investito della relativa richiesta è tenuto a strutturare il provvedimento di liquidazione in termini specifici e puntuali (cfr. ex multis, Cass. n. 3871 del 2020, Cass. n. 26894 del 2020, Cass. n. 6806 del 2021) onde dar conto, con la dovuta precisione, anche delle ragioni che hanno condotto all’individuazione del compenso all’interno dei margini previsti dalla legge, ovvero di scendere al di sotto sia dei minimi relativi, che del minimo assoluto.
La divisata disapplicazione dell’atto regolamentare in questione esclude la necessità di confrontarsi con i precedenti di questa Corte, evocati dal P.G., nei quali si è deciso sulla scorta dell’inequivocabile tenore letterale dell’art. 5 del d.m. 30/2012 (v. Cass. n. 4711 del 2021, Cass. n. 21221 del 2021 e Cass. n. 33364 del 2021).
In conclusione, deve essere enunciato il seguente principio di diritto:
“Ai fini della determinazione del compenso unico spettante al commissario giudiziale per l’attività svolta nelle due fasi ante e post omologa, così come nella eventuale fase preconcordataria, va disapplicato, per irragionevolezza e disparità di trattamento, l’art. 5, commi 1 e 2, del d.m. n. 30 del 2012, là dove distingue tra attivo realizzato e inventariato a seconda di due gruppi eterogenei di tipologie di concordato, dovendosi invece fare riferimento, in tutti i casi, all’attivo inventariato”.
Deve quindi ritenersi giuridicamente corretta – seppur non illustrata minimamente in diritto - la soluzione adottata dal Tribunale di Crotone di liquidare il compenso del Commissario Giudiziale in base all’attivo inventariato.
Va, inoltre, osservato che, correttamente, lo stesso Tribunale, nell’adottare il predetto parametro valutativo di liquidazione del compenso del Commissario Giudiziale, ha applicato una riduzione del 50%, stante l’arresto della procedura nella fase iniziale.
Non vi è dubbio che il Tribunale di Crotone, nell’operare la predetta riduzione, abbia fatto buon governo dell’art. 5, comma 5°, d.m.
D.M. n. 30 del 2012, secondo cui, qualora il commissario o il liquidatore giudiziale cessino dalle funzioni prima della chiusura delle operazioni, il compenso è liquidato – sulla base dei parametri fissati nei primi tre commi – «conformemente ai criteri previsti dall’art. 2, comma 1», norma che, a sua volta, impone di provvedere alla determinazione del compenso «tenuto conto dell’opera prestata».
Il giudice di primo grado ha quindi applicato il criterio di proporzionalità del compenso, considerando la natura e la quantità dell’attività concretamente prestata dal Commissario Giudiziale nella procedura di cui è causa.
In ragione della novità della questione, sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese di lite.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del DPR 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, se dovuto, a norma del comma 1° bis dello stesso articolo 13