Nei confronti dell'amministratore apparente, non trova automatica applicazione il principio secondo il quale, una volta accertata la presenza di determinati beni nella disponibilità dell'imprenditore fallito, il loro mancato reperimento legittima la presunzione della dolosa sottrazione.
Svolgimento del processo
1. Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di L'Aquila, in riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Pescara in data 28/02/2017 - con cui O. R., per quanto di rilevanza nella presente sede processuale, era stato condannato a pena di giustizia per fatti di bancarotta fraudolenta per distrazione e documentale, ai sensi degli artt. 110 cod. pen., 216, comma primo, n. 1 e 2, 219, comma secondo, 223, comma primo, legge fallimentare, quale legale rappresentante, dal 25/01/2010 alla data del fallimento, della (omissis) s.r.l., dichiarata fallita in data 03/06/2020 -, h: assolto l'imputato dalla distrazione crediti, perché il fatto non sussiste, ha dichiarato non doversi procedere, in relazione alla bancarotta documentale semplice, così riqualificata la condotta di bancarotta fraudolenta documentale, per essere il reato estinto per prescrizione, rideterminando, pertanto, la pena nei confronti del R. in riferimento alla residua condotta di distrazione delle immobilizzazioni materiali, previa concessione della circostanza attenuante di cui all'art. 219, ultimo comma, legge fallimentare.
2. In data 07/09/2022 O. R. ricorre, a mezzo del difensore di fiducia, avv.to A.C., deducendo un unico motivo, di seguito enunciato nei limiti di cui all'art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.:
2.1 vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 606, lett. e) cod. proc. pen., in quanto la sentenza impugnata ha ritenuto la penale responsabilità del R. unicamente in quanto, al momento dell'assunzione della carica, i beni materiali risultavano dal libro dei cespiti ammortizzabili, come emerge dalla dichiarazione del 13/05/2010 sottoscritta dall'imputato e diretta a B. P., amministratore dal 30/10/2009 al 13/12/2009, in tal modo avendo applicato erroneamente i principi della giurisprudenza di legittimità, posto che l'accertata coamministrazione di fatto da parte del P. - come affermato dalla sentenza emessa dal Tribunale di Teramo nell'ambito del proc. n. 1061/2013 - avrebbe dovuto determinare la condanna anche di quest'ultimo, essendo stato accertato che l'imputato fosse solo una testa di legno e fosse stato estraneo all'attività gestoria; anche la giurisprudenza di legittimità, in applicazione dell'art. 40, comma secondo, cod. pen., infatti, impone l'accertamento del coefficiente psicologico del reato; nel caso in esame l'esame dei testi ha evidenziato come il R. non si occupasse della gestione della società, anche per il breve tempo in cui aveva svolto il suo ruolo, come dimostrato, inoltre, dall'atto di transazione a firma di B. P., vero gestore della società, in data 17/02/2010, quando il R. era già amministratore di diritto, non potendosi, in ogni caso, onerare l'imputato di una prova negativa.
Motivi della decisione
Il ricorso di O. R. è fondato e merita accoglimento, per le ragioni di seguito illustrate.
Va osservato che la sentenza impugnata ha fondato il proprio ragionamento sulla circostanza che il breve periodo in cui il R. aveva ricoperto la carica non rendeva affatto significativa la circostanza che i testi escussi non avessero a lui fatto alcun riferimento; la sentenza del Tribunale di Teramo, inoltre, riguardava un'altra e diversa vicenda, ossia l'amministrazione di fatto da parte del P.; entrambi gli elementi, in ogni caso, risultavano irrilevanti a fronte dell'accertata presenza dei beni al momento dell'assunzione della carica da parte del R..
Tale motivazione appare carente ed ai limiti dell'apparenza.
Con molteplici arresti, questa Corte regolatrice ha affermato il principio secondo cui, con riferimento alla bancarotta fraudolenta, non può, nei confronti dell'amministratore apparente, trovare automatica applicazione il principio secondo il quale, una volta accertata la presenza di determinati beni nella disponibilità dell'imprenditore fallito, il loro mancato reperimento, in assenza di adeguata giustificazione della destinazione ad essi data, legittima la presunzione della dolosa sottrazione, dal momento che la pur consapevole accettazione del ruolo di amministratore apparente non necessariamente implica la consapevolezza di disegni criminosi nutriti dall'amministratore di fatto; al contrario, con riguardo alla bancarotta fraudolenta documentale, ben può ritenersi la responsabilità del soggetto investito solo formalmente dell'amministrazione dell'impresa fallita, atteso il diretto e personale obbligo dell'amministratore di diritto di tenere e conservare le suddette scritture.
Ciò significa che non può, nel caso in esame, trovare automatica applicazione il principio secondo il quale, una volta accertata la presenza di determinati beni nella disponibilità dell'imprenditore fallito, il loro mancato reperimento, in assenza di adeguata giustificazione della destinazione ad essi data, legittima la presunzione della dolosa sottrazione, dal momento che la pur consapevole accettazione del ruolo di amministratore formale non necessariamente implica la consapevolezza di condotte distrattive realizzate dall'amministratore di fatto, in assenza di prove che fondino un ruolo di consapevole ed attiva amministrazione da parte di un soggetto qualificato come "testa di legno".
(Sez. 5, n. 54490 del 26/09/2018, C., Rv. 274166; Sez. 5, n. 19049 del 19/02/2010, Succi e altri, Rv. 247251; Sez. 5, n. 28007 del 04/06/2004, Squillante, Rv. 228713).
Peraltro, anche più di recente (Sez. 5, n. 37453 del 07/09/2021, dep. 14/10/2021, n.m.) è stato rilevato che, benché la responsabilità dell'amministratore di diritto vada inquadrata nell'alveo di cui all'art. 40, comma secondo, cod. pen. - qualora egli non sia intervenuto per impedire la realizzazione del reato da parte dell'amministratore di fatto, nonostante l'art. 2392, comma secondo, cod. civ. gli imponga di vigilare e di attivarsi in presenza di atti pregiudizievoli -, l'affermazione di penale responsabilità non possa prescindere dalla valutazione della circostanza relativa all'essersi o meno il prestanome mantenuto del tutto estraneo all'amministrazione della società.
"In caso contrario, infatti, si finirebbe per ricadere in un rigido automatismo tra la carica ricoperta e la responsabilità penale, come se quella di amministratore di diritto fosse una 'responsabilità di posizione che, come visto, la stessa giurisprudenza di questa Corte ha più volte escluso. La semplice individuazione e, quindi, il richiamo alle disposizioni di natura civilistica che fondano responsabilità contrattuale dell'amministratore non può affatto essere ritenuto risolutivo, posto che il testo delle disposizioni civilistiche va comunque ricondotto nell'alveo dei principi di tassatività e di determinatezza, che devono connotare necessariamente la condotta penalmente rilevante; senza considerare, inoltre, come proprio l'art. 40, comma secondo, cod, pen., rende necessario valutare la sussistenza di un puntuale collegamento causale tra il compimento dell'azione doverosa e l'evento lesivo, con la conseguenza che una carente o inadeguata indagine su tale aspetto rende impossibile addebitare la responsabilità de/l'evento in capo al soggetto titolare di una posizione di garanzia per la pura e semplice omissione. Non vi è dubbio, inoltre, che, una volta accertato il nesso di causalità tra una determinata omissione e l'evento, si debba comunque dimostrare la sussistenza, in capo all'amministratore di diritto, dell'elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice. Proprie per le anzidette considerazioni, quindi, deve affermarsi come vada fornita, in maniera adeguata e coerente con il principio di personalità della responsabilità penale di cui all'art. 27 Costituzione, la prova dell'elemento soggettivo in riferimento all'amministratore che è rimasto del tutto inerte, non potendosi adottare scorciatoie motivazionali o surrettizi riferimenti ad obblighi di garanzia avulsi dall'analisi specifica del caso concreto e delle sue connotazioni."
Nel caso in esame, quindi, appare evidente come la Corte di merito si sia
sottratta a tale specifico onere motivazionale, avendo, peraltro, affermato, del tutto contraddittoriamente, come mancasse la prova della mancata assunzione dei poteri dell'amministratore in capo a R., senza, tuttavia, chiarire quali fossero Ie prove di mostrati ve del fatto che l'imputato avesse assunto effettivamente tali poteri di gestione ed avesse consapevolmente contribuito, anche attraverso condotte omissive, alla distrazione delle immobilizzazioni materiali.
La sentenza impugnata va, quindi, annullata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di Appello di Perugia che, all'esito della valutazione del compendio probatorio, valuterà la sussistenza del reato in applicazione dei principi di diritto sin qui enunciati.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di Appello di Perugia.