Svolgimento del processo
1.- T. B. era stato dipendente di F. Italy spa, con inquadramento nel livello professionale III fascia CCSL F. e mansioni di operaio addetto alla linea del reparto di lastroferratura UTE-4, dal 1988 fino al 30/10/2017, quando era stato licenziato per giusta causa in seguito alla contestazione disciplinare, mossagli in conseguenza sia della denunzia per asseriti maltrattamenti, ingiurie e lesioni personali sporta dalla sua convivente M. L. in data 19/10/2017, sia della misura cautelare degli arresti domiciliari alla quale era stato sottoposto (poi convertita in data 13/11/2017 nell’obbligo di firma), sia del contenuto dell’originaria ordinanza cautelare del GIP, dalla quale erano emersi plurimi ed abituali atteggiamenti oltraggiosi, prevaricatori e violenti nei confronti della predetta convivente e ancor prima della sua ex moglie, nella maggior parte dei casi dovuti a futili motivi.
2.- Impugnato il licenziamento perché ritenuto illegittimo, il Tribunale di Cassino, all’esito sia della fase sommaria del c.d. rito Fornero, sia della fase a cognizione piena, rigettava l’impugnazione.
3.- La Corte d’Appello di Roma, in parziale accoglimento del gravame del T., dichiarava illegittimo il licenziamento, lo annullava e, ai sensi dell’art. 18, co. 4, L. n. 300/1970, ordinava alla società la reintegrazione del reclamante nel posto di lavoro e condannava la prima a pagare al secondo l’indennità risarcitoria nella misura di dodici mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre contributi previdenziali ed assistenziali.
A sostegno della sua decisione, per quanto ancora rileva in questa sede, la Corte territoriale affermava:
a) la giusta causa di licenziamento è nozione legale, rispetto alla quale non sono vincolanti – contrariamente a quanto accade per le sanzioni conservative – le previsioni dei contratti collettivi, che al riguardo hanno valenza solo esemplificativa e non precludono un’autonoma valutazione del giudice di merito;
b) i fatti possono dirsi sufficientemente dimostrati, in considerazione della pluralità di elementi istruttori già valorizzati dal Tribunale;
c) tuttavia, affinché una condotta illecita extra lavorativa possa assumere rilievo disciplinare è necessario che siano lesi gli interessi morali e/o materiali del datore di lavoro, oppure che sia compromesso il rapporto fiduciario;
d) dunque, la verifica del carattere del “fatto illecito” va rapportata non alla responsabilità disciplinare, bensì al disvalore sociale oggettivo del fatto commesso nel contesto del mondo dell’azienda, attesa la non perfetta sovrapponibilità tra sistema penale e sistema disciplinare, ciò al fine di evitare che ogni condotta, comunque accertata come reato, si traduca sempre in un illecito disciplinare e quindi idoneo a giustificare un licenziamento, come afferma Cass. n. 3076/2020;
e) nella sentenza di primo grado il giudizio di legittimità del recesso è stato ancorato al disvalore sociale della condotta tenuta dal T.;
f) tuttavia occorre accertare se i fatti contestati, ancorché connotati da gravità tale da elidere in astratto l’elemento fiduciario, abbiano in concreto assunto una specifica rilevanza disciplinare, tenuto conto delle mansioni in concreto espletate dal lavoratore e dell’ambito lavorativo aziendale;
g) nella contestazione disciplinare si fa espresso riferimento sia al timore che il lavoratore avrebbe potuto tenere comportamenti analoghi anche all’interno dello stabilimento, considerata la sua indole minacciosa e violenta, soprattutto nei confronti di persone di sesso femminile, sia al rilevante discredito sociale dei comportamenti tenuti, che pertanto avrebbero potuto provocare grave nocumento morale alla società;
h) orbene l’affermazione di un pericolo concreto e attuale che il lavoratore, descritto come aggressivo e violento, continui a porre in essere atti ingiuriosi, minacciosi e violenti anche nel luogo di lavoro, è rimasto un mero assunto sfornito di qualunque riscontro oggettivo;
i) infatti la società non ha contestato le deduzioni del lavoratore circa l’assenza di comportamenti pregressi in ambito lavorativo ed extra lavorativo che possano fondare un siffatto giudizio prognostico sfavorevole; al riguardo è incontestato che nel lungo periodo fra l’assunzione (nell’anno 1988) e i fatti posti a base del licenziamento il lavoratore non abbia mai tenuto comportamenti aggressivi e violenti, né la società gli aveva mai contestato condotte sconvenienti, prepotenti o litigiose verso i colleghi o gli utenti; lo stesso GIP ha valorizzato tali elementi quando ha sostituito la misura cautelare degli arresti domiciliari con l’obbligo di firma;
j) quanto al secondo profilo, ossia al possibile discredito sociale idoneo a provocare alla società un grave nocumento morale, “non è emersa … in modo chiaro ed univoco l’evidenza di un pregiudizio né effettivo né potenziale dell’azienda, anche solo come riflesso che avrebbe potuto avere la condotta extra lavorativa, peraltro priva di eco mediatica, sull’immagine dell’azienda stessa” (v. sentenza impugnata, p. 8); né la società ha spiegato quale rilevanza giuridica avrebbe potuto avere quel comportamento extra lavorativo nel contesto aziendale, specie tenuto conto delle mansioni svolte e quindi del ruolo meramente esecutivo del T. nell’organizzazione aziendale;
k) una volta esclusa la sussistenza di una giusta causa, ricorre l’ipotesi dell’insussistenza del fatto, da intendere non solo come inesistenza del fatto materiale, ma pure come esistenza di un fatto materiale privo del carattere di illiceità, sicché deve trovare applicazione la tutela reintegratoria prevista dall’art. 18, co. 4, L. n. 300/1970;
l) tenuto conto dell’anzianità di servizio del reclamante, l’indennità risarcitoria va liquidata nella misura massima di 12 mensilità della retribuzione globale di fatto.
4.- Avverso tale sentenza F. Automobile spa ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.
5.- T. B. ha resistito con controricorso. 6.- La ricorrente ha depositato memoria.
Motivi della decisione
1.- Con il primo motivo, articolato in due censure proposte ai sensi dell’art. 360, co. 1, nn. 5) e 3), c.p.c. la ricorrente lamenta “omessa e insufficiente motivazione”, nonché “violazione e falsa applicazione” degli artt. 2087, 2119 c.c. e 1 L. n. 604/1966, per avere la Corte territoriale ritenuto che la condotta extra lavorativa del T. fosse inidonea a ledere il vincolo fiduciario sotteso al rapporto di lavoro.
La prima censura, formulata in termini di “omessa e insufficiente motivazione” è inammissibile, attese la diversa formulazione e la stringente limitazione del vizio di cui all’art. 360, co. 1, n. 5), c.p.c. a seguito della novella del 2012, con cui il legislatore ha limitato il sindacato sulla motivazione al solo “omesso esame di un fatto decisivo discusso fra le parti”.
La seconda censura è infondata.
La stessa ricorrente ha rammentato che in varie occasioni questa Corte ha ritenuto sussistente la giusta causa di licenziamento anche in presenza di condotte extralavorative, a condizione però che abbiano un riflesso anche solo potenziale, ma comunque oggettivo, sulla funzionalità del rapporto, a causa della compromissione dell’aspettativa datoriale circa un futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa, “in relazione alle specifiche mansioni o alla particolare attività” svolta dal dipendente licenziato (v. la giurisprudenza di questa Corte citata nel ricorso per cassazione, p. 9).
Ebbene, la Corte territoriale si è esattamente conformata a questo principio, dal momento che ha accertato – sul piano del fatto, come tale insindacabile da questa Corte – che le condotte tenute dal T. ai danni della propria convivente non avevano avuto alcuna incidenza, neppure riflessa, sull’ambiente lavorativo e, quindi, sul rapporto di lavoro, in considerazione sia della mancanza di qualunque eco mediatica, sia del carattere meramente esecutivo delle mansioni cui era adibito, sia della pluridecennale anzianità lavorativa presso la medesima società (fin dall’anno 1988) senza mai alcun episodio di violenza e alcun procedimento disciplinare. Trattasi di elementi fattuali valorizzati dalla Corte d’appello e sui quali nessuna censura è stata sollevata dalla ricorrente, che ha prospettato, in realtà, una rilevanza in re ipsa (ad esempio laddove lamenta l’omessa considerazione del contenuto dell’ordinanza cautelare del G.I.P.) invece da escludere proprio alla luce del principio di diritto affermato in varie occasioni da questa Corte (v. supra).
Infine, le stesse valutazioni prognostiche sfavorevoli, invocate dalla ricorrente, che in origine avevano indotto il G.I.P. a disporre la misura cautelare degli arresti domiciliari, erano limitate alla convivente M., ossia erano ancorate alla valutazione del patologico sentimento di gelosia che il T. aveva palesato nei confronti della M..
Tale dato ha due ricadute.
Da un lato risulta vieppiù confermata la valutazione della Corte d’Appello in termini di mancanza di qualunque elemento dal quale poter trarre il timore di condotte violente o minacciose nei confronti dei colleghi di lavoro, sicché è da escludere il rischio di una compromissione della loro sicurezza sul luogo di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c. Dall’altro resta apodittico e come tale inammissibile l’assunto della ricorrente circa l’asserita incompatibilità fra i lavoratore e le mansioni svolte nonché il suo ambiente lavoro (v. ricorso per cassazione, p. 19).
In definitiva, pur se deprecabile, la condotta del T. non è in grado di influire sul rapporto di lavoro neppure in via indiretta, né sul piano del clamore mediatico espressamente e motivatamente escluso dalla Corte territoriale. Va dunque ribadito il principio di diritto, secondo cui in tema di licenziamento disciplinare, qualora il grave nocumento morale e materiale sia parte integrante della fattispecie prevista dalle parti sociali come giusta causa di recesso, occorre accertarne la relativa sussistenza, quale elemento costitutivo che osta alla prosecuzione del rapporto di lavoro, sicché in caso contrario resta preclusa la sussunzione del caso concreto nell'astratta previsione della contrattazione collettiva (Cass. n. 23602/2018).
2.- Con il secondo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. la ricorrente lamenta “violazione e errata applicazione e/o interpretazione” dell’art. 33, titolo III, lett. B), CCSL di settore, nonché dell’art. 18, co. 4, L. n. 300/1970, per avere la Corte territoriale ritenuto applicabile la tutela reintegratoria a causa della mancata prova del pericolo di discredito per l’immagine dell’azienda.
Il motivo è in parte inammissibile per difetto di specificità, non avendo la ricorrente neppure indicato gli elementi concreti dai quali poter desumere – contrariamente al convincimento della Corte d’appello – il rischio di discredito e quindi di nocumento morale paventato, essendosi limitata ad un generico richiamo ai “costumi sociali” e alla “cultura sociale del momento storico di riferimento”.
Il motivo è in parte infondato, atteso che il fatto materiale sussiste, ma sul piano lavorativo, ossia della sua incidenza sul rapporto di lavoro subordinato, non può dirsi “illecito”, bensì “neutro” e quindi non rilevante, come tale esattamente ricadente nell’ambito applicativo dell’art. 18, co. 4, L. n. 300/1970.
3.- Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente a rimborsare a T. B. le spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in euro5.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali e accessori di legge.
Dà atto che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115/2002 pari a quello per il ricorso a norma dell’art. 13, co. 1 bis, d.P.R. cit., se dovuto.