Con le sentenze in commento, la Corte costituzionale ha ribadito l'importanza di salvaguardare i diritti fondamentali della persona interessata.
«L'esecuzione del mandato d'arresto europeo non può andare a discapito dei diritti fondamentali della persona interessata».
Lo ha ribadito la Corte costituzionale con le sentenze n. 177 e 178 del 28 luglio 2023, con le quali sono stati decisi due giudizi relativi a profili differenti della disciplina sul MAE nei quali la Corte aveva promosso altrettanti rinvii pregiudiziali alla CGUE.
1° caso: cittadino con gravi disturbi psichici
Nel primo giudizio, il tribunale croato aveva chiesto la consegna di un cittadino italiano con gravi disturbi psichici al fine di sottoporlo a processo per detenzione e spaccio di stupefacenti. La Corte territoriale di Milano aveva chiesto che fosse dichiarata incostituzionale la mancata previsione della possibilità di rifiutare la consegna di una persona affetta da patologie croniche di durata indeterminabile, incompatibili con la custodia cautelare in carcere, poiché in contrasto con il diritto fondamentale alla salute.
Con l'ordinanza n. 216 del 2021, la Corte costituzionale aveva rimesso la questione alla CGUE al fine di stabilire in quali casi l'autorità giudiziaria di uno Stato membro possa rifiutare l'esecuzione di un
I Giudici europei hanno stabilito che, «in ipotesi eccezionali di grave rischio per la salute della persona, i giudici che ricevono la richiesta devono sollecitare le autorità giudiziarie dello Stato richiedente a trasmettere informazioni sulle condizioni nelle quali la persona verrà detenuta o ospitata, in modo da assicurare adeguata tutela alla sua salute, eventualmente anche collocandola in una struttura non carceraria. Soltanto nell'ipotesi in cui le interlocuzioni non consentano di individuare una simile soluzione, l'esecuzione del mandato d'arresto potrà essere rifiutata».
Alla luce di tali osservazioni, la Consulta ha giudicato non fondata la questione sollevata dalla Corte d'Appello, ritenendo che il meccanismo ora configurato dalla CGUE sia idoneo a fornire adeguata tutela al diritto fondamentale alla salute.
2° caso: cittadino extraeuropeo stabilmente radicato in Italia
Il secondo giudizio riguardava un cittadino moldavo da tempo radicato in Italia (dove aveva significativi legami lavorativi, sociali e familiari), la cui consegna era stata richiesta dall'autorità giudiziaria rumena al fine di sottoporlo alla pena detentiva per reati di evasione fiscale.
La Corte territoriale di Bologna aveva pertanto chiesto che fosse dichiarata incostituzionale la mancata previsione della possibilità di rifiutare la consegna di un cittadino di uno Stato non appartenente all'UE, ma stabilmente radicato nel territorio italiano, per consentirgli di scontare la sua pena in Italia. I Giudici bolognesi osservavano che questa possibilità è già oggi prevista per i cittadini italiani e per quelli di altri paesi dell'Unione, ma non per i cittadini extracomunitari.
La Consulta aveva rimesso la questione alla CGUE con l'ordinanza n. 217 del 2021.
In risposta al quesito, i Giudici europei hanno dichiarato l'incompatibilità con il principio di uguaglianza davanti alla legge, sancito dall'art. 20 della CDFUE, di una normativa che discrimini il cittadino extraeuropeo dal cittadino di un paese dell'Unione, escludendo in modo assoluto e automatico che possa essere rifiutata l'esecuzione di un mandato d'arresto europeo in situazioni come quella all'esame.
Sulla base di quanto affermato dalla CGUE, la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l'
Con riferimento alla nuova normativa in vigore dal 2021, la Consulta ha limitato questa possibilità ai cittadini extracomunitari che risiedano da almeno cinque anni nel territorio italiano, poiché tale condizione è oggi legittimamente prevista dal Legislatore italiano per i cittadini di altro Stato dell'Unione.
Corte costituzionale, sentenza (ud. 17 luglio 2023) 28 luglio 2023, n. 177
Svolgimento del processo
1.– Con ordinanza del 17 settembre 2020 (reg. ord. n. 194 del 2020), la Corte d’appello di Milano, sezione quinta penale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 18 e 18-bis della legge 22 aprile 2005, n. 69 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri), in riferimento agli artt. 2, 3, 32 e 110 (recte: 111, come chiarito dalla Corte rimettente nella successiva ordinanza di correzione di errore materiale del 2 febbraio 2021) della Costituzione, nella parte in cui non prevedono quale motivo di rifiuto della consegna, nell’ambito delle procedure di mandato d’arresto europeo, «ragioni di salute croniche e di durata indeterminabile che comportino il rischio di conseguenze di eccezionale gravità per la persona richiesta».
1.1.– La Corte rimettente espone di dover decidere sulla richiesta di consegna di E. D.L., in esecuzione di un mandato d’arresto europeo emesso dal Tribunale Comunale di Zara (Croazia) il 9 settembre 2019, per l’esercizio dell’azione penale a carico del ricercato, imputato del reato di detenzione a fini di spaccio e cessione di sostanze stupefacenti, commesso in territorio croato nel 2014.
Dalla perizia psichiatrica disposta su E. D.L. è emersa la presenza di un «disturbo psicotico non altrimenti specificato», che richiede la prosecuzione di terapia farmacologica e psicoterapica per evitare probabili episodi di scompenso psichico, nonché di un «forte rischio suicidario» connesso alla possibile incarcerazione; sicché, ad avviso del giudice a quo, il trasferimento in Croazia dell’interessato, oltre a interrompere la possibilità di cura, comporterebbe «un concreto rischio per la salute del soggetto che potrebbe avere effetti di eccezionale gravità».
1.2.– La Corte d’appello di Milano rileva tuttavia che tra i motivi di rifiuto dell’esecuzione di un mandato di arresto europeo, tassativamente previsti dagli artt. 18 e 18-bis della legge n. 69 del 2005, non è prevista una causa generale fondata sulla necessità di evitare violazioni ai diritti fondamentali della persona richiesta in consegna, e segnatamente al suo diritto alla salute.
Né sarebbe idonea ad assicurare piena tutela ai diritti dell’interessato la possibilità – una volta che la Corte d’appello abbia disposto la consegna dell’interessato – che il presidente della Corte o un suo delegato ne sospendano l’esecuzione ai sensi dell’art. 23, comma 3, della legge n. 69 del 2005. La valutazione circa lo stato di salute dell’interessato verrebbe infatti rinviata a una fase di natura esecutiva destinata a concludersi con atto non impugnabile. La sospensione del procedimento avrebbe inoltre durata indeterminabile, stante la natura cronica della patologia di cui soffre la persona richiesta, in contrasto con la ratio del rimedio di cui all’art. 23, comma 3, che sarebbe invece preordinato a sospendere il mandato di arresto «in presenza di uno stato di malattia che abbia una diagnosi ed una durata prevedibile».
1.3.– In queste condizioni, osserva il giudice a quo, la decisione di disporre la consegna dell’interessato determinerebbe la violazione del suo diritto alla salute, «declinato nelle varie accezioni di diritto all’inviolabilità fisica, e di diritto ad avere cure adeguate», e tutelato come tale tanto dagli artt. 2 e 32 Cost., quanto – a livello di diritto europeo – dall’art. 35 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Inoltre, la disciplina vigente violerebbe il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., trattando in modo deteriore le persone colpite da un mandato d’arresto europeo rispetto a quelle di cui sia richiesta l’estradizione, per le quali l’art. 705, comma 2, lettera c-bis), del codice di procedura penale prevede che la Corte d’appello pronunci sentenza sfavorevole all’estradizione «se ragioni di salute o di età comportino il rischio di conseguenze di eccezionale gravità per la persona richiesta».
Infine, la mancata previsione di un motivo di rifiuto legato alle condizioni di salute dell’interessato, in caso di malattia cronica e potenzialmente irreversibile, contrasterebbe con il principio della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost. In simili ipotesi, la disciplina vigente produrrebbe – per effetto del provvedimento di sospensione dell’esecuzione successivo alla pronuncia che dispone la consegna, ex art. 23, comma 3, della legge n. 69 del 2005 – «una paralisi processuale destinata a durare un tempo del tutto indefinito», con conseguente pregiudizio sia all’«esigenza di evitare la prosecuzione di giudizi dilatati nel tempo», sia al «diritto dell’imputato ad essere giudicato – o comunque a vedere conclusa la fase procedimentale cui è sottoposto – in un tempo ragionevole».
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque non fondate.
L’interveniente rileva, anzitutto, che la possibilità di sospensione della consegna, garantita dall’art. 23, comma 3, della legge n. 69 del 2005, scongiurerebbe in radice qualsiasi violazione del diritto alla salute della persona richiesta.
Osserva poi che dai risultati della perizia disposta dalla Corte d’appello, come riassunti nell’ordinanza di rimessione, non emergerebbero l’irreversibilità delle patologie psichiatriche da cui l’interessato sarebbe affetto, né elementi specifici in grado di corroborare l’ipotizzato rischio suicidario; ciò che determinerebbe una insufficiente descrizione della fattispecie oggetto del giudizio.
In ogni caso, la Corte d’appello avrebbe potuto seguire, nel caso concreto, la procedura indicata dalla Corte di giustizia dell’Unione europea in una serie di casi recenti relativi a condizioni di sovraffollamento carcerario o a carenze sistemiche o generalizzate riguardanti l’indipendenza del potere giudiziario dello Stato di emissione (sono citate le sentenze 5 aprile 2016, in cause riunite C-404/15 e C-659/15 PPU, Aranyosi e Caldararu; 25 luglio 2018, in causa C-216/18 PPU, LM; 25 luglio 2018, in causa C-220/18 PPU, ML; 15 ottobre 2019, in causa C-128/18, Dorobantu). Dunque «il Giudice a quo avrebbe dovuto innanzitutto provvedere all’integrazione del quadro conoscitivo a sua disposizione (soprattutto […] in riferimento alle forme di assistenza terapeutica e psicologica e di sorveglianza attivabili, in caso di consegna, da parte dello Stato di emissione) e, solo all’esito, determinarsi di conseguenza, eventualmente […] anche “…ponendo termine…” alla procedura MAE laddove l’ipotizzata problematica non apparisse risolvibile “…in tempi ragionevoli…”».
L’attivazione della procedura introdotta dalle sentenze della Corte di giustizia, a partire dalla sentenza Aranyosi, priverebbe di fondamento anche le censure relative all’asserita lesione del principio di eguaglianza rispetto alla disciplina del procedimento di estradizione, «sostanzialmente identico apparendo, a parità di condizioni, il possibile sblocco negativo delle due diverse procedure», nonché quella relativa alla ragionevole durata del procedimento di consegna, che sarebbe essa stessa incorporata nel “test Aranyosi”.
3.– E. D.L. si è costituito in giudizio a mezzo dei propri difensori, i quali nelle proprie memorie hanno insistito per l’accoglimento delle questioni prospettate, previo eventuale rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, sottolineando in particolare come l’esecuzione del mandato di arresto europeo non possa mai andare a discapito, nello stesso ordinamento dell’Unione oltre che nell’ordinamento italiano, della tutela dei diritti fondamentali della persona, tra i quali quello alla salute, direttamente connesso al valore inalienabile della dignità umana.
4.– Hanno depositato opinioni scritte, in qualità di amici curiae, l’Unione delle camere penali italiane (UCPI), nonché le associazioni European Criminal Bar Association e Fair Trials.
Con decreto del Presidente di questa Corte del 12 luglio 2021 sono state ammesse le opinioni dell’UCPI e di European Criminal Bar Association che hanno addotto argomenti in favore della fondatezza delle questioni sollevate, previo eventuale rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea. L’opinione di Fair Trials non è stata ammessa in quanto redatta in lingua diversa dall’italiano, che è lingua processuale nei giudizi innanzi a questa Corte.
5.– Con ordinanza n. 216 del 2021, questa Corte ha osservato che le questioni sottopostele coinvolgono anzitutto l’interpretazione del diritto dell’Unione europea, atteso che gli artt. 18 e 18-bis della legge n. 69 del 2005, censurati dal rimettente, costituiscono attuazione degli artt. 3, 4 e 4-bis della decisione quadro 2002/584/GAI sul mandato di arresto europeo, che – nel disciplinare i motivi di rifiuto obbligatori e facoltativi della consegna – non contemplano la situazione di grave pericolo per la salute dell’interessato derivante dalla consegna stessa, connesso a una patologia cronica e di durata potenzialmente indeterminabile.
Con la menzionata ordinanza si è, dunque, sospeso il procedimento e si è sottoposto alla Corte di giustizia dell’Unione europea, ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, il seguente quesito: «se l’art. 1, paragrafo 3, della decisione quadro 2002/584/GAI sul mandato di arresto europeo, letto alla luce degli artt. 3, 4 e 35 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), debba essere interpretato nel senso che l’autorità giudiziaria di esecuzione, ove ritenga che la consegna di una persona afflitta da gravi patologie di carattere cronico e potenzialmente irreversibili possa esporla al pericolo di subire un grave pregiudizio alla sua salute, debba richiedere all’autorità giudiziaria emittente le informazioni che consentano di escludere la sussistenza di questo rischio, e sia tenuta a rifiutare la consegna allorché non ottenga assicurazioni in tal senso entro un termine ragionevole».
6.– La Corte di giustizia ha fornito risposta a tali questioni pregiudiziali con sentenza del 18 aprile 2023, in causa C-699/21, E. D.L.
6.1.– La Corte di giustizia ha anzitutto rammentato che in base al principio del mutuo riconoscimento «le autorità giudiziarie dell’esecuzione possono rifiutare di eseguire un mandato d’arresto europeo soltanto per motivi fondati sulla decisione quadro 2002/584, così come interpretata dalla Corte» (paragrafo 34).
La decisione quadro citata non prevede la possibilità di rifiutare l’esecuzione di un mandato d’arresto europeo per il solo fatto che la persona richiesta sia afflitta da gravi patologie, di carattere cronico e potenzialmente irreversibili, atteso che, «[i]n considerazione del principio di fiducia reciproca sotteso allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia», sussiste una presunzione di adeguatezza delle cure e dei trattamenti offerti negli altri Stati membri per la presa in carico di tali patologie (paragrafo 35).
6.2.– Nondimeno, ai sensi dell’art. 23, paragrafo 4, della decisione quadro 2002/584/GAI, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione può sospendere temporaneamente la consegna della persona ricercata, laddove essa rischi di «mettere in pericolo, in maniera manifesta, la salute di tale persona, ad esempio in ragione di una malattia o di una condizione medica temporanea […] antecedente alla data prevista per la sua consegna» (paragrafo 37).
Tale potere di sospensione va esercitato alla luce dell’art. 4 CDFUE, non potendosi escludere che «la consegna di una persona gravemente malata possa comportare, per quest’ultima, un rischio reale di trattamenti inumani o degradanti […], e ciò a causa del livello qualitativo delle cure disponibili nello Stato membro emittente oppure, in determinate circostanze, a prescindere da esso» (paragrafo 39). Una simile situazione – che presuppone «una soglia minima di gravità [del trattamento] che ecceda l’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione» (paragrafo 40) – «si verificherebbe nel caso della consegna di una persona gravemente malata per la quale esista un rischio di morte imminente o vi siano seri motivi di ritenere che, pur non correndo un rischio imminente di morire, essa si troverebbe, nelle circostanze del caso di specie, dinanzi ad un rischio reale di essere esposta ad un declino grave, rapido e irreversibile del proprio stato di salute o ad una riduzione significativa della propria aspettativa di vita» (paragrafo 41).
Ne consegue che, ove l’autorità giudiziaria dell’esecuzione abbia, «alla luce degli elementi oggettivi a sua disposizione, motivi seri e comprovati», di ritenere che la consegna della persona ricercata, gravemente malata, la esporrebbe a un simile rischio, essa è tenuta a disporre la sospensione della consegna ai sensi dell’art. 23, paragrafo 4, della decisione quadro 2002/584/GAI (paragrafo 42) e, in conformità all’obbligo di leale cooperazione sancito dall’art. 4, paragrafo 3, primo comma, del Trattato sull’Unione europea (TUE), deve «chiedere all’autorità giudiziaria emittente di trasmettere qualsiasi informazione necessaria per assicurarsi che le modalità con le quali verranno esercitate le azioni penali all’origine del mandato d’arresto europeo o le condizioni dell’eventuale detenzione di tale persona permettono di escludere il rischio» (paragrafo 47).
6.3.– Qualora vengano fornite dall’autorità giudiziaria emittente «assicurazioni» quanto al fatto che la patologia «eccezionalmente grave» e di «carattere cronico e potenzialmente duraturo» di cui soffre l’interessato «sarà oggetto, in tale Stato membro, di trattamenti o di cure appropriati, e ciò, indifferentemente, in ambiente carcerario o nel contesto di modalità alternative di mantenimento di tale persona a disposizione delle autorità giudiziarie di detto Stato membro» (paragrafo 49), l’autorità giudiziaria dell’esecuzione sarà tenuta a dare esecuzione al mandato d’arresto, informando immediatamente l’autorità giudiziaria emittente e concordando con essa una nuova data per la consegna (paragrafo 48).
6.4.– Qualora invece, «in circostanze eccezionali, alla luce delle informazioni fornite dall’autorità giudiziaria emittente, nonché di qualsiasi altra informazione di cui l’autorità giudiziaria dell’esecuzione disponga» quest’ultima concluda che la consegna esporrebbe la persona ricercata a un rischio di riduzione significativa della sua aspettativa di vita o di deterioramento rapido, significativo e irrimediabile del suo stato di salute, e che tale rischio non possa essere escluso «entro un termine ragionevole» (paragrafo 50), non sarebbe possibile utilizzare l’art. 23, paragrafo 4, della decisione quadro per «differire la consegna di una persona ricercata per un periodo di tempo considerevole, o addirittura indefinito» (paragrafo 51). Una simile interpretazione sarebbe contraria alla lettera e all’«economia generale» di tale disposizione, e lascerebbe la persona ricercata «esposta per un tempo indefinito al mandato d’arresto europeo spiccato contro di essa ed alle misure coercitive adottate, eventualmente, dallo Stato membro di esecuzione, malgrado non vi sia alcuna prospettiva realistica che tale persona venga consegnata allo Stato membro emittente» (ibidem).
Nell’ipotesi appena delineata, «occorre altresì tener conto dell’articolo 1, paragrafo 3, della decisione quadro 2002/584, in virtù del quale l’esistenza di un rischio di violazione dei diritti fondamentali può consentire all’autorità giudiziaria dell’esecuzione di astenersi, in via eccezionale e a seguito di un esame appropriato, dal dare seguito ad un mandato d’arresto europeo» (paragrafo 52), sicché «l’autorità giudiziaria dell’esecuzione non può, conformemente all’articolo 1, paragrafo 3, della decisione quadro 2002/584, interpretato alla luce dell’articolo 4 della Carta, dare seguito al mandato d’arresto europeo» (paragrafo 53).
6.5.– La Corte di giustizia ha dunque concluso che «[l]’articolo 1, paragrafo 3, e l’articolo 23, paragrafo 4, della decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri, come modificata dalla decisione quadro 2009/299/GAI del Consiglio, del 26 febbraio 2009, letti alla luce dell’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, devono essere interpretati nel senso che:
– qualora sussistano valide ragioni di ritenere che la consegna di una persona ricercata, in esecuzione di un mandato d’arresto europeo, rischi di mettere manifestamente in pericolo la sua salute, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione può, in via eccezionale, sospendere temporaneamente tale consegna;
– qualora l’autorità giudiziaria dell’esecuzione chiamata a decidere sulla consegna di una persona ricercata, gravemente malata, in esecuzione di un mandato d’arresto europeo, ritenga che esistano motivi seri e comprovati di ritenere che tale consegna esporrebbe la persona in questione ad un rischio reale di riduzione significativa della sua aspettativa di vita o di deterioramento rapido, significativo e irrimediabile del suo stato di salute, essa deve sospendere tale consegna e sollecitare l’autorità giudiziaria emittente a trasmettere qualsiasi informazione relativa alle condizioni nelle quali si prevede di perseguire o di detenere detta persona, nonché alle possibilità di adeguare tali condizioni allo stato di salute della persona stessa al fine di prevenire il concretizzarsi di tale rischio;
– laddove, alla luce delle informazioni fornite dall’autorità giudiziaria emittente nonché di tutte le altre informazioni a disposizione dell’autorità giudiziaria dell’esecuzione, risulti che tale rischio non può essere escluso entro un termine ragionevole, quest’ultima autorità deve rifiutare di eseguire il mandato d’arresto europeo. Per contro, qualora il rischio suddetto possa essere escluso entro un tale termine ragionevole, deve essere concordata con l’autorità giudiziaria emittente una nuova data di consegna» (paragrafo 55 e dispositivo).
7.– All’udienza del 4 luglio 2023, la difesa della parte ha chiesto l’accoglimento delle questioni alla luce della sentenza della Corte di giustizia, mentre l’Avvocatura generale dello Stato ha insistito nelle conclusioni già rassegnate.
Motivi della decisione
1.– Con l’ordinanza di cui in epigrafe (reg. ord. n. 194 del 2020), la Corte d’appello di Milano, sezione quinta penale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 18 e 18-bis della legge n. 69 del 2005, in riferimento agli artt. 2, 3, 32 e 111 Cost., nella parte in cui non prevedono quale motivo di rifiuto della consegna, nell’ambito delle procedure di mandato d’arresto europeo, «ragioni di salute croniche e di durata indeterminabile che comportino il rischio di conseguenze di eccezionale gravità per la persona richiesta».
2.– Le questioni sono ammissibili.
2.1.– Non è fondata, anzitutto, l’eccezione di inammissibilità formulata dall’Avvocatura generale dello Stato, secondo cui dall’ordinanza di rimessione non emergerebbe quale vulnus potrebbe prospettarsi rispetto al diritto alla salute della persona ricercata, dal momento che la possibilità di sospensione dell’esecuzione garantita dall’art. 23, comma 3, della legge n. 69 del 2005 scongiurerebbe in radice ogni possibile pregiudizio alla sua salute.
In realtà, il giudice a quo fornisce puntuale motivazione circa le ragioni per cui, a suo avviso, la possibilità di sospensione dell’esecuzione ai sensi dell’art. 23, comma 3, della legge n. 69 del 2005 non sarebbe idonea a garantire piena tutela al diritto alla salute della persona ricercata. Tanto basta ai fini dell’ammissibilità delle questioni, attenendo invece al merito la valutazione di questa Corte circa l’effettiva idoneità di tale rimedio.
2.2.– Neppure è fondata l’ulteriore eccezione svolta dall’Avvocatura generale dello Stato, secondo cui l’ordinanza di rimessione non avrebbe adeguatamente illustrato le patologie di cui soffrirebbe la persona ricercata nel caso oggetto del giudizio a quo, con conseguente insufficiente motivazione sulla rilevanza delle questioni.
Il giudice a quo ha infatti plausibilmente argomentato, sulla base delle risultanze documentali acquisite e della perizia psichiatrica svolta, le ragioni per le quali l’interruzione della terapia cui la persona ricercata è attualmente sottoposta e il suo eventuale collocamento in un carcere in Croazia potrebbero determinare un aggravamento delle patologie psichiatriche di cui è affetta, con conseguente significativo rischio suicidario. Ciò che deve ritenersi sufficiente ai fini dell’apprezzamento della rilevanza delle questioni prospettate.
2.3.– Né, infine, è fondata l’eccezione – pure formulata dall’Avvocatura generale dello Stato – secondo cui l’ordinanza di rimessione non avrebbe considerato la possibilità di seguire la procedura indicata dalla Corte di giustizia nelle sentenze Aranyosi e Caldararu, LM, ML e Dorobantu (supra, punto 2 del Ritenuto in fatto), e assumere informazioni presso l’autorità giudiziaria emittente al fine di individuare una collocazione idonea per la persona richiesta durante la celebrazione del processo a suo carico, ponendo termine alla procedura ove una tale soluzione non potesse essere individuata in tempi ragionevoli.
Tutte le sentenze della Corte di giustizia menzionate concernono, infatti, situazioni caratterizzate dalla presenza di deficit sistemici nello Stato emittente – relativi, in particolare, a situazioni di generalizzato sovraffollamento carcerario o di insufficienti garanzie di indipendenza del potere giudiziario – che non vengono, invece, in considerazione, nel caso oggetto del procedimento a quo; di talché i principi in tali sentenze enunciati non avrebbero potuto sic et simpliciter – in difetto almeno di chiarimenti interpretativi da parte della Corte di giustizia – essere applicati dal rimettente alla diversa ipotesi in cui le condizioni patologiche, di carattere cronico e di durata indeterminabile, della singola persona richiesta siano suscettibili di aggravarsi in modo significativo nel caso di consegna, in particolare laddove lo Stato di emissione ne dovesse disporre la custodia in carcere.
3.– Si deve altresì escludere la necessità di restituire gli atti per una nuova valutazione della rilevanza e della non manifesta infondatezza delle questioni alla luce dello ius superveniens rappresentato dalle modifiche apportate alle due disposizioni censurate, nonché all’art. 2 della legge n. 69 del 2005, dal decreto legislativo 2 febbraio 2021, n. 10 (Disposizioni per il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della decisione quadro 2002/584/GAI, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra stati membri, in attuazione della delega di cui all’articolo 6 della legge 4 ottobre 2019, n. 117). E ciò per le ragioni già illustrate nell’ordinanza n. 216 del 2021 (punti 3 e 4 del Considerato in diritto), che debbono intendersi qui integralmente richiamate.
4.– Nel merito, devono anzitutto essere dichiarate non fondate le censure formulate in riferimento all’art. 3 Cost., che assumono come tertium comparationis l’art. 705, comma 2, lettera c-bis), cod. proc. pen., il quale prevede che la corte d’appello pronunci sentenza contraria all’estradizione «se ragioni di salute o di età comportino il rischio di conseguenze di eccezionale gravità per la persona richiesta».
Il tertium comparationis evocato non è, tuttavia, omogeneo. La decisione quadro 2002/584/GAI ha inteso, infatti, sostituire alle tradizionali procedure di estradizione un sistema semplificato di consegna imperniato sul rapporto diretto tra le autorità giudiziarie degli Stati membri, ispirato al principio della «libera circolazione delle decisioni giudiziarie» (considerando n. 5) fondato a sua volta sull’idea, enunciata nelle conclusioni del Consiglio europeo di Tampere del 15 e 16 ottobre 1999, del loro «riconoscimento reciproco» (considerando n. 6). Tale sistema «si basa su un elevato livello di fiducia tra gli Stati membri» (considerando n. 10), in particolare per ciò che concerne il rispetto, da parte di ciascuno Stato membro, dei diritti fondamentali riconosciuti dal diritto dell’Unione (Corte di giustizia, sentenza E. D.L., paragrafo 30, e ivi ulteriori riferimenti).
Come da ultimo osservato nella sentenza E. D.L, proprio questa fiducia reciproca preclude, di regola, «che le autorità giudiziarie dell’esecuzione possano rifiutare di eseguire un mandato d’arresto europeo per il solo fatto che la persona colpita da tale mandato d’arresto è afflitta da gravi patologie, di carattere cronico e potenzialmente irreversibili. In considerazione del principio di fiducia reciproca sotteso allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia, sussiste, infatti, una presunzione secondo cui le cure e i trattamenti offerti negli Stati membri per la presa in carico, segnatamente, di tali patologie sono adeguati» (paragrafo 35); tale presunzione potendo essere vinta, nel singolo caso, soltanto alle tassative condizioni enunciate dalla stessa Corte di giustizia, su cui si tornerà tra qualche istante.
Del tutto differente è, invece, il contesto in cui operano i tradizionali strumenti di estradizione, in cui la presunzione in parola in radice non opera: ciò che rende impraticabile la comparazione tra le due tipologie di strumenti di cooperazione.
5.– Quanto invece alle questioni di legittimità sollevate in riferimento agli artt. 2, 32 e 111 Cost., alla luce della sentenza E. D.L. esse devono essere ritenute non fondate nei sensi di seguito precisati.
5.1.– Secondo il giudice rimettente, la mancata previsione, da parte della legge n. 69 del 2005, di un motivo di non esecuzione del mandato di arresto europeo, laddove sussista un «rischio di conseguenze di eccezionale gravità» in caso di consegna, connesso a «ragioni di salute croniche e di durata indeterminabile» che riguardano la persona ricercata, contrasterebbe con il suo diritto inviolabile alla salute, fondato sugli artt. 2 e 32 Cost.
Per scongiurare un simile rischio non sarebbe sufficiente il rimedio della sospensione dell’esecuzione di cui all’art. 23, comma 3, della legge n. 69 del 2005, dal momento che tale rimedio – in ragione proprio del carattere cronico della patologia di cui soffre la persona richiesta – comporterebbe una paralisi processuale di durata indeterminabile, con conseguente pregiudizio, in particolare, per il diritto dell’interessato a veder definita in un lasso di tempo ragionevole la propria posizione processuale.
5.2.– Con ordinanza n. 216 del 2021 questa Corte ha, anzitutto, condiviso la valutazione del rimettente circa l’inidoneità del rimedio di cui all’art. 23, comma 3, della legge n. 69 del 2005, rispetto alla necessità di tutela del diritto alla salute della persona ricercata. Si è in proposito sottolineato che nella disciplina della decisione quadro, alla luce della quale la disposizione italiana deve essere interpretata, il differimento «a titolo eccezionale» della consegna sembra previsto in relazione a situazioni di carattere meramente “temporaneo” e appare un rimedio incongruo in relazione a patologie croniche e di durata indeterminabile. In simili ipotesi – si è ancora osservato nell’ordinanza n. 216 del 2021 – «il differimento dell’esecuzione del mandato di arresto europeo […] rischierebbe di protrarsi nel tempo per una durata indefinita», da un lato impedendo allo Stato di emissione di esercitare l’azione penale o di eseguire la pena nei confronti dell’interessato; e dall’altro costringendo quest’ultimo a far valere le proprie patologie croniche non nel procedimento di consegna – nel quale si dispiegano appieno le sue garanzie di difesa – ma in una fase procedimentale successiva, destinata a sfociare in un provvedimento del presidente della corte o di un suo delegato, mantenendo peraltro l’interessato «in una situazione di continua incertezza circa la propria sorte, in contrasto con l’esigenza di garantire un termine ragionevole di durata in ogni procedimento suscettibile di incidere sulla sua libertà personale» (punto 6.3. del Considerato in diritto).
Si è quindi sottolineata l’impossibilità di rifiutare la consegna, nella situazione all’esame, sulla base della clausola generale del rispetto dei «principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato» e dei «diritti inalienabili della persona» contenuta oggi nell’art. 2 della legge n. 69 del 2005, come riformulato dal d.lgs. n. 10 del 2021 (ovvero sulla base della previgente formulazione – applicabile ratione temporis nel giudizio a quo – degli artt. 1 e 2 della legge n. 69 del 2005, che condizionavano l’esecuzione del mandato di arresto europeo nell’ordinamento italiano, tra l’altro, ai «principi e [al]le regole contenuti nella Costituzione»). Simili clausole, infatti, non possono essere interpretate nel senso di autorizzare la corte d’appello competente a rifiutare la consegna al di fuori dei casi previsti dal diritto dell’Unione, come interpretato dalla Corte di giustizia; spettando poi unicamente alla Corte costituzionale «la verifica della compatibilità del diritto dell’Unione, o del diritto nazionale attuativo del diritto dell’Unione, con tali principi supremi e diritti inviolabili» (punto 7.5. del Considerato in diritto).
L’ordinanza n. 216 del 2021 ha, tuttavia, rammentato come lo stesso diritto dell’Unione non possa «tollerare che l’esecuzione del mandato di arresto europeo determini una violazione dei diritti fondamentali dell’interessato riconosciuti dalla Carta e dall’art. 6, paragrafo 3, TUE» (punto 8 del Considerato in diritto), come si evince del resto dall’art. 1, paragrafo 3, della decisione quadro 2002/584/GAI.
Questa Corte ha, pertanto, ritenuto di chiedere alla Corte di giustizia se i principi già da quest’ultima enunciati con riferimento ai casi in cui la consegna della persona richiesta potrebbe esporla al serio rischio di violazione dei suoi diritti fondamentali in conseguenza di carenze sistemiche nello Stato di emissione – come, segnatamente, situazioni di sovraffollamento carcerario o di difetto di indipendenza del potere giudiziario – siano suscettibili di essere estesi anche a una ipotesi come quella ora in esame. Ciò al fine di consentire una diretta interlocuzione tra le autorità giudiziarie dello Stato di emissione e quello di consegna, onde individuare una soluzione in grado di evitare il rischio di grave pregiudizio alla salute della persona richiesta connesso alla consegna stessa, nonché di porre fine alla procedura di consegna, qualora la sussistenza di un tale rischio non possa essere esclusa entro un termine ragionevole (punto 8.2. del Considerato in diritto e dispositivo). Il tutto in un’ottica di contemperamento tra le ragioni di salvaguardia della salute della persona richiesta – che è oggetto di tutela tanto nell’ordinamento costituzionale nazionale, ai sensi degli artt. 2 e 32 Cost., quanto nell’ordinamento dell’Unione, ai sensi degli artt. 3, 4 e 35 CDFUE (punti 9.1. e 9.2. del Considerato in diritto) – così come dell’«interesse a perseguire i sospetti autori di reato, ad accertarne la responsabilità e, se giudicati colpevoli, ad assicurare nei loro confronti l’esecuzione della pena» nello spazio giuridico europeo: interesse, quest’ultimo, che è sotteso alla disciplina dell’Unione e a quella nazionale sul mandato d’arresto europeo (punto 9.3. del Considerato in diritto).
Un tale contemperamento – ha concluso questa Corte – potrebbe essere al meglio perseguito mediante la ricerca, condivisa tra le autorità giudiziarie dello Stato emittente e di quello dell’esecuzione, di «soluzioni che permettano, nel caso concreto, di sottoporre a processo l’interessato nello Stato di emissione garantendogli la pienezza dei diritti di difesa e al contempo evitino di esporlo al pericolo di grave danno alla salute, ad esempio attraverso la sua collocazione in idonea struttura nello Stato di emissione durante il processo» (punto 9.5. del Considerato in diritto).
5.3.– In risposta alla questione così formulata, la Corte di giustizia ha anzitutto ribadito, nella sentenza E. D.L. (su cui più ampiamente supra, punto 6 del Ritenuto in fatto), che le autorità giudiziarie dello Stato di esecuzione possono in linea di principio rifiutare la consegna della persona richiesta soltanto nei casi previsti dalla decisione quadro 2002/584/GAI, dovendosi in particolare presumere che ciascuno Stato membro sia in grado di garantire trattamenti adeguati per le patologie di cui soffra la persona richiesta.
Tuttavia, la Corte di giustizia ha altresì rammentato che, ai sensi dell’art. 23, paragrafo 4, della decisione quadro, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione può sospendere la consegna della persona richiesta, allorché essa possa comportare per quest’ultima «un rischio reale di essere esposta ad un declino grave, rapido e irreversibile del proprio stato di salute o ad una riduzione significativa della propria aspettativa di vita», o a maggior ragione un pericolo per la sua stessa vita, anche in considerazione della mancanza di cure adeguate alle sue condizioni patologiche nello Stato di emissione. Qualora, infatti, la consegna della persona richiesta la esponesse a simili rischi, la sua effettiva esecuzione risulterebbe incompatibile con il diritto di tale persona a non subire trattamenti inumani o degradanti, sancito dall’art. 4 CDFUE (paragrafi da 39 a 41).
Conseguentemente, la stessa Corte di giustizia ha affermato che, ove l’autorità giudiziaria dell’esecuzione abbia, «alla luce degli elementi oggettivi a sua disposizione, motivi seri e comprovati» di ritenere che la consegna della persona ricercata, gravemente malata, la esporrebbe a un simile rischio, essa è tenuta a disporre la sospensione della consegna ai sensi dell’art. 23, paragrafo 4, della decisione quadro 2002/584 (paragrafo 42).
Così come ipotizzato da questa Corte nell’ordinanza n. 216 del 2021, la Corte di giustizia ha chiarito che in tale ipotesi l’autorità giudiziaria dell’esecuzione dovrà «chiedere all’autorità giudiziaria emittente di trasmettere qualsiasi informazione necessaria per assicurarsi che le modalità con le quali verranno esercitate le azioni penali all’origine del mandato d’arresto europeo o le condizioni dell’eventuale detenzione di tale persona permettono di escludere il rischio» (paragrafo 47).
Laddove l’autorità giudiziaria dello Stato emittente fornisca, «entro un termine ragionevole», assicurazioni relative ai trattamenti e alle cure cui la persona richiesta sarà sottoposta – in ambiente carcerario o nel contesto di misure non detentive –, che consentano di escludere tale rischio, il mandato di arresto dovrà essere eseguito (paragrafi 48 e 49).
Nell’ipotesi invece in cui, in esito alle interlocuzioni, non sia possibile escludere tale rischio entro un termine ragionevole, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione non potrà che «astenersi, in via eccezionale e a seguito di un esame appropriato, dal dare seguito ad un mandato d’arresto europeo», e conseguentemente «rifiutare di eseguir[lo]», tenendo conto del generale divieto di violare i diritti fondamentali della persona richiesta sancito dall’art. 1, paragrafo 3, della decisione quadro (paragrafi 52 e 53 e dispositivo). Non potrebbe infatti tollerarsi, secondo la Corte di giustizia, una situazione di sospensione dell’esecuzione che lasci l’interessato esposto, per un tempo indefinito, a una procedura potenzialmente limitativa dei suoi diritti fondamentali malgrado l’assenza di alcuna prospettiva realistica di consegna all’autorità giudiziaria emittente (paragrafo 51).
5.4.– Questa Corte condivide la valutazione, espressa concordemente dal giudice rimettente e dalla stessa Corte di giustizia, secondo cui l’esecuzione di un mandato d’arresto europeo – emesso ai fini tanto dell’esercizio dell’azione penale, quanto dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privativa della libertà personale – non dovrebbe mai comportare l’esposizione della persona richiesta a un rischio di deterioramento rapido, significativo e irrimediabile del proprio stato di salute, e a fortiori di una riduzione dell’aspettativa di vita.
Dare seguito al mandato di arresto in tali circostanze comporterebbe – come la stessa Corte di giustizia sottolinea – una violazione dell’art. 4 CDFUE, esponendo l’interessato al rischio di un trattamento inumano e degradante; e determinerebbe in ogni caso, dal punto di vista del diritto costituzionale, una lesione del diritto inviolabile alla salute della persona ricercata, tutelato dagli artt. 2 e 32 Cost.
D’altra parte, il rimedio originariamente prospettato dall’Avvocatura generale dello Stato – rappresentato da una mera sospensione dell’esecuzione, di durata potenzialmente indefinita, in presenza di una grave patologia cronica che affligga la persona ricercata – risulterebbe incompatibile con il diritto di quest’ultima, tutelato dall’art. 111, secondo comma, Cost., a una sollecita definizione della propria vicenda processuale.
La soluzione individuata dalla Corte di giustizia nella sentenza E. D.L. permette, ora, di scongiurare un simile scenario, attraverso un percorso che si snoda in tre tappe essenziali: (a) la sospensione della decisione sulla consegna, finalizzata a consentire (b) una diretta interlocuzione tra le autorità giudiziarie, allo scopo di individuare una soluzione che consenta di evitare gravi rischi alla salute della persona ricercata; interlocuzione a sua volta suscettibile di sfociare (c) nell’esecuzione della consegna, ovvero in una decisione finale di rifiuto della consegna medesima, nell’ipotesi residuale in cui una tale soluzione non possa essere individuata, neppure in esito a tale interlocuzione.
5.5.– Resta, a questo punto, da precisare come la soluzione indicata dalla Corte di giustizia con lo sguardo rivolto all’intero spazio giuridico dell’Unione debba inserirsi nello specifico contesto normativo italiano, rappresentato dalla legge n. 69 del 2005 di recepimento della decisione quadro 2002/584/GAI, in modo da escluderne i profili di contrarietà alla Costituzione paventati dal rimettente, oltre che agli stessi diritti fondamentali riconosciuti dal diritto dell’Unione.
5.5.1.– Al riguardo, occorre in limine considerare che le indicazioni interpretative fornite dalla Corte di giustizia sono relative a uno strumento – la decisione quadro 2002/584/GAI – «vincolant[e] per gli Stati membri quanto al risultato da ottenere, salva restando la competenza delle autorità nazionali in merito alla forma e ai mezzi», e comunque privo di efficacia diretta, ai sensi dell’art. 34, paragrafo 2, lettera b), del Trattato sull’Unione europea, nella versione risultante dal Trattato di Amsterdam vigente al momento della sua adozione.
Pertanto, nell’integrare nell’ordinamento italiano il meccanismo procedurale individuato dalla Corte di giustizia, non potrà non tenersi conto del peculiare contesto normativo rappresentato dalla legge n. 69 del 2005, nella quale il legislatore nazionale ha fatto uso dell’ampio spazio discrezionale, quanto alla scelta della «forma» e dei «mezzi», concessogli dalla decisione quadro per adeguare le indicazioni di scopo contenute in quest’ultima alle caratteristiche specifiche del processo italiano.
Sicché anche le indicazioni ora fornite dalla Corte di giustizia relativamente al risultato da raggiungere – evitare la lesione dei diritti fondamentali di una persona ricercata gravemente malata, attraverso una diretta interlocuzione tra le autorità giudiziarie dello Stato emittente e di quello dell’esecuzione – vanno calibrate e precisate in modo da inserirsi armonicamente in quel contesto normativo.
5.5.2.– La sentenza E. D.L. focalizza la propria attenzione sull’art. 23, paragrafo 4, della decisione quadro, il quale consente all’«autorità giudiziaria dell’esecuzione» di differire temporaneamente la consegna in presenza di «gravi motivi umanitari, ad esempio se vi sono valide ragioni di ritenere che essa metterebbe manifestamente in pericolo la vita o la salute del ricercato». La Corte di giustizia interpreta tale clausola alla luce dell’art. 1, paragrafo 3, della decisione quadro, nel senso che la medesima «autorità giudiziaria dell’esecuzione» dovrebbe chiedere informazioni alle autorità giudiziarie di emissione per individuare una soluzione idonea a evitare rischi per la salute della persona ricercata, ed eventualmente rifiutare la consegna, qualora una tale interlocuzione si riveli infruttuosa.
Il legislatore italiano ha trasposto l’art. 23, paragrafo 4, della decisione quadro mediante l’art. 23, comma 3, della legge n. 69 del 2005. Tale disposizione attribuisce la competenza a sospendere la consegna con decreto motivato – in presenza, tra l’altro, di «gravi ragioni per ritenere che la consegna metterebbe in pericolo la vita o la salute della persona» – non già all’autorità competente per la decisione sulla consegna (e cioè la corte d’appello nell’ordinaria composizione collegiale, ai sensi dell’art. 5 della legge n. 69 del 2005), ma al solo «presidente della corte d’appello», ovvero a un «magistrato da lui delegato», cui la legge attribuisce in linea generale la competenza a curare l’esecuzione del mandato d’arresto dopo la decisione favorevole alla consegna assunta dalla corte d’appello.
Ebbene, questa Corte ha già avuto modo di chiarire nell’ordinanza n. 216 del 2021 che tale rimedio – affidato a un’autorità giurisdizionale monocratica diversa da quella, a composizione collegiale, che ha disposto la consegna, e sfociante in un provvedimento che la giurisprudenza di legittimità considera non impugnabile per cassazione (Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 26 aprile – 10 maggio 2018, n. 20849) – non è idoneo a garantire adeguata tutela al diritto inviolabile alla salute, e a fortiori alla stessa vita, della persona richiesta, in ipotesi come quella ora all’esame. La natura del diritto fondamentale in gioco esige, infatti, una cognizione piena da parte del giudice, nell’ambito di un procedimento rispettoso di tutte le garanzie del giusto processo e puntualmente regolato dalla legge; un procedimento necessariamente destinato a concludersi con un provvedimento ricorribile per cassazione, secondo quanto previsto dall’art. 111, settimo comma, Cost.
D’altra parte, la logica della decisione quadro – e della stessa sentenza E. D.L. – riposa sull’assunto dell’identità tra l’«autorità giudiziaria dell’esecuzione», competente a decidere sulla sussistenza dei presupposti della consegna ai sensi degli artt. 3, 4 e 4-bis della medesima decisione quadro, e quella competente a decidere sull’eventuale sospensione della stessa ai sensi del successivo art. 23, paragrafo 4, parimenti denominata «autorità giudiziaria dell’esecuzione». In quest’ottica, in effetti, ben si spiega perché la Corte di giustizia affidi a questa medesima autorità il potere di “rifiutare” l’esecuzione del mandato, allorché la fase di interlocuzione prefigurata dalla sentenza E. D.L. risulti infruttuosa.
Ne deriva che, al fine di garantire al meglio l’effetto utile della decisione quadro 2002/584/GAI, come interpretata dalla sentenza E. D.L., la competenza ad assicurare il rimedio procedurale articolato dalla Corte di giustizia deve necessariamente essere affidata, nell’ordinamento italiano, alla medesima autorità giurisdizionale già competente per la decisione sulla consegna ai sensi dell’art. 5, comma 1, della legge n. 69 del 2005: e dunque alla corte d’appello in composizione collegiale, cui il legislatore italiano ha affidato, in linea di principio, le decisioni in materia di mandato di arresto europeo suscettibili di incidere direttamente sui diritti fondamentali della persona ricercata, a cominciare dalla sua libertà personale, nonché le eventuali decisioni sul rifiuto della consegna; decisioni, tutte, contro le quali è prevista la possibilità di ricorso per cassazione, in conformità al menzionato vincolo discendente dall’art. 111, settimo comma, Cost.
5.5.3.– Il dettagliato procedimento delineato dalla sentenza E. D.L. trova pertanto la propria collocazione naturale, nel sistema della legge n. 69 del 2005, all’interno del procedimento di decisione sulla richiesta di esecuzione, disciplinato dai suoi artt. 17 e seguenti; e potrà ivi utilmente collocarsi dopo il vaglio delle condizioni positive e negative previste in particolare dagli artt. 17, 18 e 18-bis, ma prima della decisione finale sulla consegna, la quale resterà così soggetta a un unico ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 22 – evitandosi in tal modo il rischio di dover instaurare, a valle del ricorso per cassazione esperito contro la decisione sulla consegna, un nuovo procedimento avanti alla corte d’appello, ai soli fini della verifica delle condizioni per la consegna stabilite dalla sentenza E. D.L.; procedimento destinato anch’esso a concludersi con un provvedimento nuovamente ricorribile per cassazione. Una tale soluzione determinerebbe, all’evidenza, un inutile allungamento dei tempi di definizione del procedimento, in diametrale contrasto con la finalità – sottesa all’intero impianto della decisione quadro 2002/584/GAI – di assicurare una più spedita esecuzione alle decisioni di consegna rispetto alle tradizionali procedure di estradizione.
Dunque, una volta accertati tutti i presupposti che legittimano la consegna, così come l’assenza di cause ostative ai sensi degli artt. 18 e 18-bis della legge n. 69 del 2005, la corte d’appello dovrà valutare l’eventuale sussistenza di una situazione di grave malattia della persona ricercata, nonché di «motivi seri e comprovati di ritenere che [la] consegna esporrebbe la persona in questione ad un rischio reale di riduzione significativa della sua aspettativa di vita o di deterioramento rapido, significativo e irrimediabile del suo stato di salute» (Corte di giustizia, sentenza E. D.L., secondo alinea del dispositivo).
Nel caso in cui la corte riscontri l’effettiva sussistenza di tali condizioni, essa dovrà – secondo quanto stabilito, ancora, nel secondo alinea del dispositivo della sentenza E. D.L. – sospendere la decisione sulla consegna, e «sollecitare l’autorità giudiziaria emittente a trasmettere qualsiasi informazione relativa alle condizioni nelle quali si prevede di perseguire o di detenere detta persona, nonché alle possibilità di adeguare tali condizioni allo stato di salute della persona stessa al fine di prevenire il concretizzarsi di tale rischio», secondo le modalità previste dall’art. 16 della legge n. 69 del 2005 e già utilizzate dalle corti d’appello per effettuare gli accertamenti circa l’effettiva sussistenza di un «rischio concreto di trattamento inumano o degradante» in conseguenza di situazioni di sovraffollamento carcerario nello Stato emittente, in conformità alla sentenza Aranyosi e Caldararu, ovvero di un «rischio reale di violazione del diritto fondamentale a un equo processo», in conformità alla sentenza LM.
Laddove le interlocuzioni così realizzate consentano di individuare una soluzione idonea a evitare tale rischio, la corte d’appello emetterà decisione favorevole alla consegna.
Nell’ipotesi invece in cui non sia stato possibile pervenire «entro un termine ragionevole», in esito alle interlocuzioni con l’autorità giudiziaria emittente, all’individuazione di una soluzione adeguata allo scopo, la stessa corte d’appello dovrà pronunciare decisione di rifiuto della consegna, in conformità a quanto stabilito dal terzo alinea del dispositivo della sentenza E. D.L.
Resta ferma, ovviamente, la competenza del presidente della corte d’appello, o del giudice da questi delegato, ai sensi dell’art. 23, commi da 2 a 4, della legge n. 69 del 2005, per l’eventuale sospensione della consegna per le ragioni ivi indicate, comprese eventuali situazioni di pericolo per la vita o per la salute di natura transitoria, o comunque sorte successivamente alla decisione favorevole alla consegna da parte della corte d’appello: situazioni cui si riferisce il primo alinea del dispositivo della sentenza E. D.L., in cui la Corte di giustizia in sostanza riprende quanto già previsto in via generale dall’art. 23, paragrafo 4, della decisione quadro.
5.6.– Al complessivo risultato appena delineato è possibile pervenire in via interpretativa, senza che sia necessaria la dichiarazione di illegittimità costituzionale degli artt. 18 e 18-bis della legge n. 69 del 2005 sollecitata dal giudice rimettente.
L’esecuzione dei mandati d’arresto europeo è, infatti, condizionata dal rispetto dei diritti fondamentali della persona richiesta, ai sensi dell’art. 1, paragrafo 3, della decisione quadro 2002/584/GAI: disposizione, quest’ultima, alla quale il legislatore italiano aveva dato originariamente attuazione con gli artt. 1 e 2 della legge n. 69 del 2005, nella versione antecedente alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 10 del 2021, e dà ora attuazione – successivamente a tali modifiche – con la nuova formulazione dell’art. 2.
Questa Corte ha già avuto modo di precisare che tali disposizioni non autorizzavano – e non autorizzano – l’autorità giudiziaria italiana a rifiutare la consegna delle persone richieste sulla base di «standard puramente nazionali di tutela dei diritti fondamentali […] laddove ciò possa compromettere il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione (Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza 26 febbraio 2013, in causa C-617/10, Fransson, paragrafo 29; sentenza 26 febbraio 2013, in causa C-399/11, Melloni, paragrafo 60)». I diritti fondamentali al cui rispetto la decisione quadro e – conseguentemente – le legislazioni nazionali di trasposizione sono vincolati, ai sensi dell’art. 1, paragrafo 3, della stessa decisione quadro, «sono, piuttosto, quelli riconosciuti dal diritto dell’Unione europea, e conseguentemente da tutti gli Stati membri allorché attuano il diritto dell’Unione: diritti fondamentali alla cui definizione, peraltro, concorrono in maniera eminente le stesse tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri (artt. 6, paragrafo 3, TUE e 52, paragrafo 4, CDFUE)» (ordinanza n. 216 del 2021, punto 7.3. del Considerato in diritto; analogamente, ordinanza n. 217 del 2021, punto 7 del Considerato in diritto).
Tuttavia, le disposizioni in parola ben possono, e anzi debbono, essere lette in conformità all’art. 1, paragrafo 3, della decisione quadro, ed operare pertanto come valvole di sicurezza funzionali a evitare che l’esecuzione dei mandati di arresto conduca a risultati contrari ai diritti fondamentali nell’estensione loro attribuita dal diritto dell’Unione, così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia.
Ne consegue che la corte d’appello – una volta verificata, in sede di decisione sulla consegna, l’impossibilità di individuare una soluzione idonea a tutelare la salute della persona ricercata nello Stato emittente, in esito al procedimento indicato dalla sentenza E. D.L. – sarà tenuta a rifiutare la consegna medesima, in applicazione delle clausole generali appena menzionate, alla luce delle puntuali indicazioni della stessa Corte di giustizia sull’estensione dei diritti fondamentali in gioco (così, rispetto all’ipotesi di rifiuto di consegna da parte della corte d’appello in presenza di un rischio di trattamento inumano o degradante connesso a sovraffollamento carcerario, nel senso indicato dalla sentenza Aranyosi e Caldararu, anche Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 16-18 novembre 2022, n. 44015).
5.7. – In definitiva, le questioni sollevate in riferimento agli artt. 2, 32 e 111 Cost. non sono fondate, essendo possibile ovviare alla mancata previsione, nelle disposizioni censurate, di un motivo di rifiuto fondato sul grave rischio per la salute dell’interessato attraverso un’interpretazione sistematica della legge n. 69 del 2005 alla luce della sentenza E. D.L.; interpretazione che – nei termini appena precisati – ne assicura la conformità ai parametri costituzionali evocati.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 18 e 18-bis della legge 22 aprile 2005, n. 69 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra gli Stati membri), sollevate, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Milano, sezione quinta penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 18 e 18-bis della legge n. 69 del 2005, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 32 e 111 Cost., dalla Corte d’appello di Milano, sezione quinta penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 luglio 2023.
Corte costituzionale, sentenza (ud. 6 luglio 2023) 28 luglio 2023, n. 178
Svolgimento del processo
1.– Con ordinanza del 27 ottobre 2020 (reg. ord. n. 42 del 2021), la Corte d’appello di Bologna, sezione prima penale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 18-bis della legge 22 aprile 2005, n. 69 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri), come introdotto dall’art. 6, comma 5, lettera b), della legge 4 ottobre 2019, n. 117 (Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea – Legge di delegazione europea 2018).
La disposizione è censurata «nella parte in cui non prevede il rifiuto facoltativo della consegna del cittadino di uno Stato non membro dell’Unione europea che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, sempre che la Corte di appello disponga che la pena o la misura di sicurezza irrogata nei suoi confronti dall’autorità giudiziaria di uno Stato membro dell’Unione europea sia eseguita in Italia conformemente al suo diritto interno».
Il giudice rimettente ritiene che tale omessa previsione contrasti con gli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI, all’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e all’art. 17, paragrafo 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (PIDCP), nonché con gli artt. 2, 3, e 27, terzo comma, Cost.
1.1.– Il giudizio principale – di cui questa Corte ha più estesamente dato conto nella precedente ordinanza n. 217 del 2021 – concerne l’esecuzione di un mandato di arresto europeo ai fini all’esecuzione della pena, emesso il 13 febbraio 2012 dalla Pretura di Bra¿ov (Romania) nei confronti di O. G., cittadino moldavo ma stabilmente radicato in Italia dal punto di vista familiare e lavorativo. Secondo quanto riferito dal giudice rimettente, O. G. è stato condannato in via definitiva, in Romania, alla pena di cinque anni di reclusione per i delitti di evasione fiscale e appropriazione indebita delle somme dovute per il pagamento delle imposte sui redditi e dell’IVA, commessi in qualità di amministratore di una società a responsabilità limitata tra settembre 2003 e aprile 2004.
1.2.– Il giudice a quo osserva anzitutto che l’art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI, il quale enumera i motivi di non esecuzione facoltativa del mandato d’arresto europeo finalizzato all’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà, consente allo Stato di esecuzione del mandato di rifiutare la consegna della persona che sia cittadino, ovvero, pur senza esserlo, «dimori» o «risieda» nello Stato richiesto, laddove lo Stato di esecuzione si impegni a eseguire la pena o misura di sicurezza irrogate, conformemente al suo diritto interno. Tale possibilità mirerebbe a garantire un’effettiva funzione risocializzante della pena, rendendo possibile il mantenimento dei legami familiari e sociali.
Il medesimo obiettivo di risocializzazione del condannato ispirerebbe del resto anche l’art. 5, punto 3, della decisione quadro, che consente di subordinare l’esecuzione del mandato rilasciato ai fini dell’esercizio dell’azione penale, emesso nei confronti del «cittadino o residente dello Stato membro di esecuzione», alla condizione che la persona, dopo essere stata ascoltata, sia rinviata nello Stato di esecuzione per scontarvi la pena o la misura di sicurezza eventualmente irrogate nello Stato emittente.
Secondo il giudice rimettente, l’art. 18-bis della legge n. 69 del 2005, che traspone nell’ordinamento italiano l’art. 4, punto 6, della decisione quadro, ne avrebbe indebitamente ristretto l’ambito applicativo, in quanto la facoltà di rifiutare la consegna, in caso di mandato di arresto finalizzato all’esecuzione della pena o della misura di sicurezza, è limitata ai soli cittadini italiani o di altri Stati membri dell’Unione europea, ad esclusione dei cittadini di paesi terzi. Questi ultimi non potrebbero scontare in Italia la pena inflitta nello Stato emittente, pur se dimostrino di avere instaurato saldi legami di natura economica, professionale o affettiva in territorio italiano.
In conseguenza di tale limitazione, la disposizione censurata si porrebbe al di fuori della lettera e della ratio ispiratrice dell’art. 4, punto 6, dell’indicata decisione quadro, così violando gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. Secondo il rimettente, infatti, rientra nella discrezionalità degli Stati membri decidere se attuare o meno i motivi di non esecuzione facoltativa del mandato d’arresto. Qualora però decidano di trasporli nei rispettivi ordinamenti interni, essi sarebbero tenuti ad attenersi al contenuto della decisione quadro, che non distingue tra persone cittadine dello Stato di esecuzione, o persone ivi residenti o dimoranti.
Inoltre, imponendo la consegna anche di persone stabilmente radicate in Italia ai fini dell’esecuzione di una pena detentiva all’estero, la disposizione censurata si porrebbe in contrasto con la finalità rieducativa della pena, sancita dall’art. 27, terzo comma, Cost., nonché con il diritto alla vita familiare dell’interessato, tutelato dall’art. 2 Cost. e dall’art. 117, primo comma, Cost. in relazione agli artt. 8 CEDU e 17, paragrafo 1, PIDCP, nonché dagli artt. 11 e ancora 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 7 CDFUE.
Sarebbe, infine, irragionevole – e pertanto lesiva dell’art. 3 Cost. – la diversità di trattamento tra il cittadino di uno Stato terzo, stabilmente radicato in Italia e destinatario di un mandato di arresto rilasciato per l’esecuzione di una pena o una misura di sicurezza privative della libertà – che, ai sensi dell’art. 18-bis della legge n. 69 del 2005, non può beneficiare del rifiuto della consegna e scontare in Italia la pena irrogata nello Stato emittente – e il cittadino di uno Stato terzo, parimenti radicato in Italia ma destinatario di un mandato d’arresto rilasciato ai fini dell’esercizio dell’azione penale – che invece potrebbe scontare in Italia la pena irrogata dallo Stato emittente all’esito del processo.
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o non fondate.
2.1.– Le questioni sarebbero anzitutto inammissibili:
– per l’inadeguata argomentazione in ordine al dedotto stabile radicamento in Italia di O. G.;
– per l’insufficiente motivazione circa il contrasto dell’art. 18-bis della legge n. 69 del 2005 con i parametri costituzionali evocati (peraltro richiamati in modo impreciso, riferendosi il dispositivo dell’ordinanza di rimessione agli artt. 3, 11, 27, terzo comma, e 117, primo comma, Cost., ed evocando invece la motivazione gli artt. 2, 11, e 117, primo comma, Cost.);
– per l’omesso tentativo di interpretare la disposizione censurata in modo conforme alla Costituzione.
2.2.– A parere dell’Avvocatura generale dello Stato le questioni sarebbero, in ogni caso, non fondate.
2.2.1.– Nel sistema della decisione quadro 2002/584/GAI, il possesso dello status di cittadino dell’Unione fonderebbe la possibilità, prevista dal censurato art. 18-bis, lettera r) (recte: comma 1, lettera c), della legge n. 69 del 2005, di rifiutare la consegna ai fini dell’esecuzione della pena della persona stabilmente residente o dimorante in Italia; sicché tale motivo di rifiuto si applicherebbe ai soli cittadini italiani e di altri Stati membri dell’Unione (è citata Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 5-6 novembre 2019, n. 45190).
L’esclusione dei cittadini di paesi terzi dalla possibilità di invocare il motivo di rifiuto in questione non lederebbe l’art. 3 Cost., atteso che la possibilità di dare rilievo al radicamento sul territorio nazionale del cittadino di uno Stato membro dell’Unione europea si connette strettamente al fascio di diritti e libertà discendenti dalla cittadinanza dell’Unione.
2.2.2.– Le disposizioni della decisione quadro 2002/584/GAI sarebbero inoltre da interpretare in ossequio al principio generale del riconoscimento reciproco delle decisioni (è citata Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza 13 dicembre 2018, in causa C-514/17, Sut, paragrafo 28), sicché gli Stati membri non potrebbero estendere le ipotesi di rifiuto dell’esecuzione del mandato d’arresto oltre quelle delineate dalla decisione quadro, di cui l’ordinanza di rimessione non coglierebbe la ratio.
2.2.3.– Sarebbe poi insussistente la dedotta violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., poiché l’art. 4, punto 6, della decisione quadro, pur essendo volto a favorire il reinserimento sociale della persona ricercata, non potrebbe limitare la portata del principio del reciproco riconoscimento (sono richiamate Corte di giustizia, sentenze Sut e 6 ottobre 2009, in causa C-123/08, Wolzenburg). Il censurato art. 18-bis della legge n. 69 del 2005, consentendo di rifiutare la consegna del cittadino italiano o di altro Stato membro dell’Unione, ma non del cittadino di uno Stato terzo, avrebbe correttamente trasposto l’art. 4, punto 6.
Del resto, la formulazione di tale previsione sarebbe il frutto del controllo operato da questa Corte, con la sentenza n. 227 del 2010, circa il corretto ed esaustivo recepimento, sul punto, del diritto dell’Unione europea da parte del legislatore italiano.
La stessa Corte di giustizia avrebbe ribadito che il divieto di discriminazione in base alla nazionalità di cui all’art. 18 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) non si applica alle differenze di trattamento tra cittadini degli Stati membri e di paesi terzi, e che l’art. 21 TFUE, il quale accorda il diritto di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, non concerne i cittadini di paesi terzi (è richiamata Corte di giustizia, sentenza 2 aprile 2020, in causa C-897/19, Ruska Federacija).
2.2.4.– Quanto alla dedotta lesione del principio rieducativo, l’Avvocatura generale dello Stato osserva che il reinserimento della persona condannata non costituisce lo scopo specificamente perseguito dalla decisione quadro 2002/584/GAI.
Del resto, mentre la capacità rieducativa della pena, che sia attuata in territorio italiano, potrebbe presumersi in relazione al cittadino italiano, essa dovrebbe essere dimostrata per il cittadino straniero, anche in considerazione del carattere non automatico della sua permanenza in Italia dopo l’esecuzione della pena.
2.2.5.– Non integrerebbe d’altronde un’irragionevole disparità di trattamento la differenza tra la disciplina posta dal censurato art. 18-bis, comma 1, lettera c), della legge n. 69 del 2005 (che permette di rifiutare la consegna finalizzata all’esecuzione di pene o misure di sicurezza con riferimento ai cittadini italiani e di altri Stati membri dell’Unione, ma non ai cittadini di paesi terzi) e quella recata, nella versione applicabile ratione temporis nel giudizio principale, dall’art. 19, comma 1, lettera c), della medesima legge (che invece consentiva, in relazione sia ai cittadini italiani e di altri Stati membri, sia a quelli di paesi terzi residenti o dimoranti in Italia, di subordinare la consegna finalizzata all’esercizio dell’azione penale, alla condizione che la pena o la misura di sicurezza eventualmente irrogate nello Stato di emissione siano scontate in Italia).
Sarebbe infatti diversa la finalità sottesa al mandato d’arresto processuale, e cioè quella di ridurre la celebrazione di procedimenti in absentia.
2.2.6.– Anche a prescindere da tale profilo, la nozione di residenza contemplata agli artt. 4, punto 6, e 5, punto 6 (recte: 5, punto 3), della decisione quadro 2002/584/GAI, e agli artt. 18-bis, comma 1, lettera c), e 19, comma 1, lettera c), della legge n. 69 del 2005 dovrebbe essere interpretata in conformità alla sentenza n. 227 del 2010 di questa Corte e, dunque, in modo da includere solo il cittadino italiano o il cittadino di altro Stato membro dell’Unione legittimamente ed effettivamente residente nel territorio italiano, e non invece il cittadino di un paese terzo, sicché l’ambito applicativo di dette disposizioni verrebbe a coincidere.
3.– Con ordinanza n. 217 del 2021, questa Corte ha sospeso il giudizio e ha formulato alla Corte di giustizia dell’Unione europea, ai sensi dell’art. 267 TFUE, le seguenti questioni pregiudiziali:
«a) se l’art. 4, punto 6, della direttiva 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra gli Stati membri, interpretato alla luce dell’art. 1, paragrafo 3, della medesima decisione quadro e dell’art. 7 CDFUE, osti a una normativa, come quella italiana, che – nel quadro di una procedura di mandato di arresto europeo finalizzato all’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza – precluda in maniera assoluta e automatica alle autorità giudiziarie di esecuzione di rifiutare la consegna di cittadini di paesi terzi che dimorino o risiedano sul suo territorio, indipendentemente dai legami che essi presentano con quest’ultimo;
b) in caso di risposta affermativa alla prima questione, sulla base di quali criteri e presupposti tali legami debbano essere considerati tanto significativi da imporre all’autorità giudiziaria dell’esecuzione di rifiutare la consegna».
4.– La Corte di giustizia ha fornito risposta a tali questioni pregiudiziali con sentenza del 6 giugno 2023 (in causa C-700/21, O. G.).
4.1.– La Corte di giustizia ha rammentato che gli Stati membri sono liberi di trasporre o meno, nel loro diritto interno, i motivi di non esecuzione facoltativa del mandato d’arresto europeo elencati all’art. 4 della decisione quadro 2002/584/GAI, incluso quello di cui al punto 6; e possono altresì scegliere di limitare le situazioni nelle quali l’autorità giudiziaria dell’esecuzione può rifiutare di eseguire un mandato d’arresto europeo, agevolando così la consegna delle persone ricercate, conformemente al principio del riconoscimento reciproco (paragrafi da 35 a 37 della sentenza).
Il margine di discrezionalità di cui gli Stati membri dispongono in sede di trasposizione dell’art. 4, punto 6, non è tuttavia illimitato (paragrafo 38), essendo essi tenuti, conformemente all’art. 1, paragrafo 3, al rispetto dei diritti e dei principi fondamentali di cui all’art. 6 TUE (paragrafo 39), tra cui il principio di uguaglianza davanti alla legge, garantito dall’art. 20 CDFUE (paragrafo 40), che si applica a tutte le situazioni disciplinate dal diritto dell’Unione, incluse le disparità di trattamento tra i cittadini degli Stati membri e quelli dei paesi terzi (paragrafo 41), ed «esige che situazioni comparabili non siano trattate in modo diverso e che situazioni diverse non siano trattate allo stesso modo, a meno che un siffatto trattamento non sia obiettivamente giustificato» (paragrafo 42).
4.2.– La Corte di giustizia ha in proposito osservato che l’art. 4, punto 6, della decisione quadro «non opera alcuna distinzione a seconda che la persona destinataria del mandato d’arresto europeo, qualora non sia cittadina dello Stato membro di esecuzione, sia o meno cittadina di un altro Stato membro», subordinando l’applicazione del motivo di non esecuzione facoltativa ivi previsto unicamente alla duplice condizione che la persona ricercata dimori nello Stato membro di esecuzione, ne sia cittadina o vi risieda, e che tale Stato si impegni a eseguire esso stesso la pena o la misura di sicurezza per la quale il mandato d’arresto europeo è stato rilasciato (paragrafo 46).
Per quanto attiene alla condizione di residenza o dimora, secondo la Corte di giustizia il cittadino di un paese terzo che risieda nello Stato di esecuzione (ossia vi abbia stabilito la propria residenza effettiva) o ivi dimori – avendo acquisito con tale Stato, a seguito di un soggiorno stabile di una certa durata, legami di intensità simile a quella dei legami che si instaurano in caso di residenza – si trova in una situazione comparabile a quella del cittadino di tale Stato membro o del cittadino di un altro Stato membro che dimori o risieda in detto Stato membro (paragrafo 47). Né la condizione di impegno da parte dello Stato membro di esecuzione ad eseguire la pena privativa della libertà irrogata nei confronti della persona ricercata si atteggia in modo diverso per il cittadino di un paese terzo e per il cittadino dell’Unione (paragrafo 48).
4.3.– Dopo aver rammentato che l’obiettivo perseguito dall’art. 4, punto 6, della decisione quadro consiste nell’aumentare le possibilità di reinserimento sociale della persona ricercata che abbia scontato la pena cui è stata condannata, la Corte di giustizia ha osservato che i cittadini dell’Unione e i cittadini di paesi terzi che soddisfano la condizione di residenza o dimora nello Stato dell’esecuzione «potrebbero, fatte salve le verifiche che spetta all’autorità giudiziaria dell’esecuzione effettuare, disporre di possibilità di reinserimento sociale comparabili» (paragrafo 49). Dunque «si deve ritenere che, ai fini dell’applicazione del motivo di non esecuzione facoltativa previsto da tale disposizione, tali persone possano trovarsi in una situazione comparabile, qualora presentino un grado di integrazione certo nello Stato membro di esecuzione» (paragrafo 50).
Ne consegue che «una normativa nazionale volta a trasporre l’articolo 4, punto 6 […] non può essere considerata conforme al principio di uguaglianza davanti alla legge sancito all’articolo 20 della Carta se tratta in maniera diversa, da un lato, i propri cittadini e gli altri cittadini dell’Unione e, dall’altro, i cittadini di paesi terzi, negando a questi ultimi, in maniera assoluta e automatica, il beneficio del motivo di non esecuzione facoltativa del mandato d’arresto europeo previsto da tale disposizione, anche qualora essi dimorino o risiedano nel territorio di tale Stato membro e senza che si tenga conto del loro grado di integrazione nella società di detto Stato» (paragrafo 51).
4.4.– Ancora, secondo la Corte di giustizia, gli Stati membri ben possono, in sede di trasposizione della decisione quadro, subordinare la possibilità, per i cittadini di paesi terzi, di beneficiare del motivo di non esecuzione di cui all’art. 4, punto 6, al requisito della residenza o dimora continuativa per un periodo di tempo minimo, «purché tale condizione non ecceda quanto necessario a garantire che la persona ricercata presenti un grado di integrazione certo nello Stato membro di esecuzione» (paragrafo 52).
Non è invece possibile escludere il cittadino di un paese terzo, in maniera assoluta e automatica, dal beneficio di tale motivo di non esecuzione, senza lasciare all’autorità giudiziaria alcun margine di discrezionalità e impedendole dunque di «valutare, tenuto conto delle circostanze specifiche di ciascun caso, se i legami di tale persona con lo Stato membro di esecuzione siano sufficienti affinché l’obiettivo del reinserimento sociale perseguito da tale disposizione possa essere meglio raggiunto ove detta persona sconti la sua pena in tale Stato membro» (paragrafo 56).
4.5.– La Corte di giustizia ha dunque risposto alla prima questione rivoltale da questa Corte affermando «l’articolo 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584, in combinato disposto con il principio di uguaglianza davanti alla legge, sancito all’articolo 20 della Carta, dev’essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa di uno Stato membro, volta a trasporre tale articolo 4, punto 6, che esclude in maniera assoluta e automatica dal beneficio del motivo di non esecuzione facoltativa del mandato d’arresto europeo previsto da tale disposizione qualsiasi cittadino di un paese terzo che dimori o risieda nel territorio di tale Stato membro, senza che l’autorità giudiziaria dell’esecuzione possa valutare i legami di tale cittadino con detto Stato membro» (paragrafo 58 e dispositivo).
4.6.– Quanto alla seconda questione, la Corte di giustizia ha sottolineato che, una volta soddisfatte le condizioni di residenza o dimora, e di esecuzione della pena o misura di sicurezza sul territorio nazionale, l’autorità giudiziaria dello Stato di esecuzione «deve ancora valutare se sussista un legittimo interesse idoneo a giustificare che la pena o la misura di sicurezza inflitta nello Stato membro emittente sia eseguita nel territorio dello Stato membro di esecuzione» (paragrafo 60).
Tale valutazione va effettuata in base a «tutti gli elementi concreti caratterizzanti la situazione della persona ricercata, idonei a indicare se esistano tra tale persona e lo Stato membro di esecuzione legami che consentano di constatare che detta persona è sufficientemente integrata in tale Stato e che, pertanto, l’esecuzione, nello Stato membro di esecuzione, della pena o della misura di sicurezza privative della libertà pronunciata nei suoi confronti nello Stato membro emittente contribuirà alla realizzazione dell’obiettivo di reinserimento sociale perseguito [dall’]articolo 4, punto 6» (paragrafo 61).
Occorre in particolare tenere conto degli elementi indicati dal considerando n. 9 della decisione quadro 2008/909/GAI del Consiglio, del 27 novembre 2008 (relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale, ai fini della loro esecuzione nell’Unione europea) – che parimenti persegue, al suo art. 25, l’obiettivo del reinserimento sociale del condannato: paragrafo 63 – ossia «in sostanza», «l’attaccamento della persona allo Stato membro di esecuzione, nonché la circostanza che tale Stato membro costituisce il centro della sua vita familiare e dei suoi interessi, tenuto conto, in particolare, dei suoi legami familiari, linguistici, culturali, sociali o, ancora, economici con detto Stato» (paragrafo 62).
La Corte di giustizia ha precisato che «ove la persona ricercata abbia stabilito il centro della sua vita familiare e dei suoi interessi nello Stato membro di esecuzione, si deve tenere conto del fatto che il reinserimento sociale di tale persona dopo che essa vi ha scontato la sua pena è favorito dal fatto che essa può mantenere contatti regolari e frequenti con la famiglia e i congiunti» (paragrafo 64) e che «occorre tenere conto anche della natura, della durata e delle condizioni di soggiorno» del cittadino di paese terzo nello Stato membro di esecuzione (paragrafo 65).
Tali elementi – che possono essere presi in considerazione già in fase di esame della condizione di residenza o dimora nello Stato di esecuzione (paragrafo 66) – vanno nuovamente valutati per verificare la sussistenza di «un legittimo interesse» all’esecuzione della pena o misura di sicurezza in tale Stato, «in particolare quando il soggiorno dell’interessato nello Stato membro di esecuzione derivi dallo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, previsto dalla direttiva 2003/109», atteso che tale status «costituisce […] un forte indizio del fatto che i legami stabiliti dalla persona ricercata con lo Stato membro di esecuzione sono sufficienti a giustificare il rifiuto di eseguire il mandato d’arresto europeo» (paragrafo 67).
La Corte di giustizia ha dunque risposto alla seconda questione dichiarando che «l’articolo 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584 dev’essere interpretato nel senso che: per valutare se occorra rifiutare l’esecuzione di un mandato d’arresto europeo emesso nei confronti del cittadino di un paese terzo che dimori o risieda nel territorio dello Stato membro di esecuzione, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione deve procedere a una valutazione complessiva di tutti gli elementi concreti caratterizzanti la situazione di tale cittadino, idonei a indicare se esistano, tra quest’ultimo e lo Stato membro di esecuzione, legami che dimostrino che egli è sufficientemente integrato in tale Stato e che, pertanto, l’esecuzione, in detto Stato membro, della pena o della misura di sicurezza privative della libertà pronunciata nei suoi confronti nello Stato membro emittente contribuirà ad aumentare le sue possibilità di reinserimento sociale dopo che tale pena o misura di sicurezza sia stata eseguita. Tra tali elementi vanno annoverati i legami familiari, linguistici, culturali, sociali o economici che il cittadino del paese terzo intrattiene con lo Stato membro di esecuzione, nonché la natura, la durata e le condizioni del suo soggiorno in tale Stato membro» (paragrafo 68 e dispositivo).
Motivi della decisione
1.– Con l’ordinanza di cui in epigrafe (reg. ord. n. 42 del 2021), la Corte d’appello di Bologna, sezione prima penale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 18-bis della legge n. 69 del 2005, come introdotto dall’art. 6, comma 5, lettera b), della legge 117 del 2019, «nella parte in cui non prevede il rifiuto facoltativo della consegna del cittadino di uno Stato non membro dell’Unione europea che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, sempre che la Corte di appello disponga che la pena o la misura di sicurezza irrogata nei suoi confronti dall’autorità giudiziaria di uno Stato membro dell’Unione europea sia eseguita in Italia conformemente al suo diritto interno».
Per quanto il giudice rimettente formuli apparentemente le questioni con riferimento all’intero art. 18-bis della legge n. 69 del 2005, dal contesto dell’ordinanza di rimessione risulta evidente che a essere censurata è in realtà la sola previsione di cui al comma 1, lettera c), di tale disposizione, la quale – nella formulazione applicabile ratione temporis al giudizio principale – consente in via generale di rifiutare l’esecuzione di un mandato d’arresto emesso «ai fini della esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà personale, qualora la persona ricercata sia cittadino italiano o cittadino di altro Stato membro dell’Unione europea, che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, sempre che la corte di appello disponga che tale pena o misura di sicurezza sia eseguita in Italia conformemente al suo diritto interno». A essere censurata è, in particolare, la mancata estensione di tale motivo di rifiuto alla situazione del cittadino di uno Stato non membro dell’Unione europea, che tuttavia abbia legittimamente ed effettivamente dimora o residenza nel territorio italiano.
Secondo il giudice rimettente, tale mancata estensione contrasterebbe con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI, all’art. 7 CDFUE, all’art. 8 CEDU e all’art. 17, paragrafo 1, PIDCP, nonché con gli artt. 2, 3, e 27, terzo comma, Cost.
2.– Le questioni sono ammissibili.
2.1.– Non è fondata, in effetti, la prima eccezione formulata dall’Avvocatura generale dello Stato, concernente l’allegato difetto di motivazione, da parte del giudice rimettente, circa lo stabile radicamento in Italia della persona ricercata.
Come già osservato nell’ordinanza n. 217 del 2021 (punto 5 del Considerato in diritto), il giudice a quo motiva infatti in modo sintetico, ma non implausibile, circa tale stabile radicamento.
2.2.– Neppure è fondata la seconda eccezione, relativa alla insufficiente motivazione circa il contrasto tra la disposizione censurata e i parametri costituzionali e sovranazionali evocati.
L’ordinanza infatti argomenta in maniera stringata ma del tutto comprensibile le ragioni del dedotto contrasto, riconducibili ad avviso del giudice rimettente: a) alla non corretta trasposizione dell’art. 4, punto 6, della decisione quadro; b) all’irragionevole disparità di disciplina tra il mandato di arresto finalizzato all’esecuzione della pena e quello finalizzato a consentire la partecipazione al processo in uno Stato estero dell’interessato; c) al pregiudizio alla funzione rieducativa della pena; d) alla violazione del rispetto della vita privata e familiare dello straniero.
2.3.– Né, infine, è fondata l’eccezione di omesso tentativo di interpretazione conforme a Costituzione della disposizione censurata.
Il giudice rimettente osserva infatti, del tutto plausibilmente, che il tenore letterale della disposizione non consente all’autorità giudiziaria italiana di rifiutare la consegna di una persona residente non cittadina dell’Unione, per consentirle di scontare la pena in Italia.
3.– Si deve altresì escludere la necessità di una restituzione degli atti per una nuova valutazione della rilevanza e non manifesta infondatezza della questione alla luce dello ius superveniens, rappresentato dalle modifiche apportate alla disposizione censurata (l’art. 18-bis della legge n. 69 del 2005) e a quella assunta dal rimettente quale tertium comparationis (l’art. 19 della medesima legge) ad opera, rispettivamente, degli artt. 15, comma 1, e 17, comma 1, del decreto legislativo 2 febbraio 2021, n. 10 (Disposizioni per il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della decisione quadro 2002/584/GAI, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra stati membri, in attuazione della delega di cui all’articolo 6 della legge 4 ottobre 2019, n. 117). E ciò per le ragioni già illustrate nell’ordinanza n. 217 del 2021 (punti 4 e 5 del Considerato in diritto), che debbono intendersi qui integralmente richiamate.
4.– Le questioni sono fondate in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, in relazione all’art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI, nonché all’art. 27, terzo comma, Cost.
4.1.– L’art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI prevede un motivo di non esecuzione facoltativa del mandato di arresto europeo allorché esso sia stato emesso «ai fini dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà, qualora la persona ricercata dimori nello Stato membro di esecuzione, ne sia cittadino o vi risieda, se tale Stato si impegni a eseguire esso stesso tale pena o misura di sicurezza conformemente al suo diritto interno».
4.2.– Nella versione applicabile ratione temporis nel procedimento principale, il censurato art. 18-bis, comma 1, lettera c), della legge n. 69 del 2005 prevedeva che la corte di appello potesse rifiutare la consegna «se il mandato d’arresto europeo è stato emesso ai fini dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà personale, qualora la persona ricercata sia cittadino italiano o cittadino di altro Stato membro dell’Unione europea, che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, sempre che la corte di appello disponga che tale pena o misura di sicurezza sia eseguita in Italia conformemente al suo diritto interno».
La disposizione censurata, dunque, consentiva alla corte d’appello di rifiutare la consegna soltanto di cittadini italiani, ovvero di cittadini di altro Stato membro residenti o dimoranti in Italia; escludendo con ciò implicitamente – ma inequivocabilmente – i cittadini di paesi terzi, pur se legittimamente ed effettivamente residenti o dimoranti in Italia.
4.3.– Il giudice rimettente ritiene che tale esclusione, operata dal legislatore italiano in sede di trasposizione dell’art. 4, punto 6, della decisione quadro, ne abbia indebitamente ristretto l’ambito applicativo, con ciò violando gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.
Inoltre, impedendo al cittadino di paese terzo già stabilmente radicato nel territorio italiano di scontare la propria pena detentiva in Italia, la disposizione censurata violerebbe, assieme, la finalità rieducativa della pena, imposta dall’art. 27, terzo comma, Cost., e il diritto alla vita privata e familiare dell’interessato, tutelato dagli artt. 7 CDFUE, 8 CEDU e 17, paragrafo 1, PIDCP, tutti vincolanti nell’ordinamento italiano in forza dell’art. 117, primo comma, Cost. (nonché, per ciò che concerne l’art. 7 CDFUE, dello stesso art. 11 Cost.).
4.4.– Nella precedente ordinanza n. 217 del 2021 questa Corte, in sostanziale condivisione della prospettiva del giudice rimettente, ha chiesto anzitutto alla Corte di giustizia se sia compatibile con l’art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI – interpretato alla luce dell’art. 1, paragrafo 3, della medesima decisione quadro e dell’art. 7 CDFUE – una disciplina, come quella posta dalla disposizione censurata, che precluda in maniera assoluta e automatica alle autorità giudiziarie di esecuzione di rifiutare la consegna di cittadini di paesi terzi che dimorino o risiedano sul suo territorio, indipendentemente dai legami che essi presentano con quest’ultimo.
Nell’ordinanza menzionata, questa Corte ha in particolare sottolineato che, secondo la stessa giurisprudenza della Corte di giustizia, l’art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI è funzionale ad accrescere le opportunità di reinserimento sociale del condannato nel territorio rispetto al quale questi ha già legami significativi; finalità, quest’ultima, che è del resto alla base anche della disciplina posta dalla decisione quadro 2008/909/GAI del Consiglio sul reciproco riconoscimento alle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale, la quale si applica tanto ai cittadini degli Stati membri dell’Unione, quanto a cittadini di Stati terzi (punto 8.3. del Considerato in diritto).
Inoltre, questa Corte ha osservato come la consegna di una persona, saldamente radicata nel territorio dello Stato richiesto, ad altro Stato perché sia ivi sottoposta all’esecuzione di una pena detentiva potrebbe determinare una violazione del suo diritto alla vita privata e familiare, riconosciuto in particolare dall’art. 7 CDFUE e dall’art. 8 CEDU, i quali tutelano l’interesse della persona a che non siano recisi i propri legami familiari, affettivi e sociali stabiliti nel territorio dello Stato in cui abitualmente risiede o dimora; e ciò anche in conformità alla giurisprudenza della Corte EDU, secondo la quale l’esecuzione di una pena detentiva a grande distanza dalla residenza familiare del condannato può comportare la violazione dell’art. 8 CEDU, in ragione della conseguente difficoltà, per il detenuto e per i suoi familiari, di mantenere regolari e frequenti contatti, a loro volta importanti rispetto alle finalità risocializzanti della pena (punti 8.4. e 8.5. del Considerato in diritto).
Nella medesima ordinanza n. 217 del 2021, infine, questa Corte ha chiesto alla Corte di giustizia di precisare – nell’ipotesi in cui ritenesse effettivamente incompatibile l’art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI con una disciplina come quella censurata dal giudice rimettente – sulla base di quali criteri e presupposti i legami del cittadino di paese terzo con il territorio italiano debbano essere considerati tanto significativi, da imporre all’autorità giudiziaria dell’esecuzione di rifiutare la consegna.
4.5.– Nella sentenza O. G. del 6 giugno 2023 (più ampiamente supra, punto 4 del Ritenuto in fatto), la Corte di giustizia ha anzitutto rammentato che il margine di discrezionalità di cui dispongono gli Stati membri nel trasporre i motivi di non esecuzione facoltativa della consegna indicati nell’art. 4 – ivi incluso quello di cui al punto 6 – della decisione quadro 2002/584/GAI è limitato dalla necessità di rispettare i diritti fondamentali della persona ricercata, come risulta del resto dall’art. 1, paragrafo 3, della medesima decisione quadro.
Fra tali diritti fondamentali – ha proseguito la Corte di giustizia – va annoverato il rispetto del principio di uguaglianza di fronte alla legge, garantito dall’art. 20 CDFUE, che si applica allo stesso modo alle persone cittadine e non cittadine di uno Stato dell’Unione. Tale principio esige – non diversamente, del resto, dall’art. 3 Cost. – «che situazioni comparabili non siano trattate in modo diverso e che situazioni diverse non siano trattate allo stesso modo, a meno che un siffatto trattamento non sia obiettivamente giustificato» (paragrafo 42 della sentenza).
Poiché, come già sottolineato in varie precedenti sentenze, il motivo di non esecuzione facoltativa di cui all’art. 4, punto 6, della decisione quadro è funzionale ad accrescere le possibilità di reinserimento sociale della persona ricercata una volta che questa abbia scontato la pena, la Corte di giustizia ha osservato che i cittadini dell’Unione e i cittadini di Stati terzi che «presentino un grado di integrazione certo» nello Stato di esecuzione si trovano «in una situazione comparabile» quanto alle possibilità di rieducazione nello Stato medesimo (paragrafi 49 e 50).
Da ciò deriva, secondo la Corte di giustizia, l’incompatibilità con il diritto dell’Unione della disciplina di uno Stato membro che tratti in modo diverso i propri cittadini, quelli di altro Stato membro e quelli di Stati terzi, negando in modo assoluto e automatico a questi ultimi il beneficio del motivo di non esecuzione del mandato di arresto facoltativo previsto dall’art. 4, punto 6, e precludendo così all’autorità giudiziaria competente di valutare caso per caso se la persona ricercata, cittadina di uno Stato terzo, dimori o risieda nel territorio del proprio Stato, e se – in caso affermativo – i suoi legami con quest’ultimo Stato siano tanto significativi da far ritenere che l’obiettivo del suo reinserimento sociale possa essere meglio raggiunto ove la pena sia eseguita nel medesimo Stato (paragrafi 56 e 57 e dispositivo).
Rispondendo alla seconda questione posta da questa Corte, la Corte di giustizia ha poi precisato che – nel procedere alla valutazione caso per caso appena indicata – l’autorità giudiziaria dell’esecuzione dovrà valutare, in particolare, gli elementi indicati dal considerando n. 9 della decisione quadro 2008/909/GAI sul reciproco riconoscimento delle sentenze penali che irrogano pene detentive, e in particolare «l’attaccamento della persona allo Stato membro di esecuzione, nonché la circostanza che tale Stato membro costituisce il centro della sua vita familiare e dei suoi interessi, tenuto conto, in particolare, dei suoi legami familiari, linguistici, culturali, sociali o, ancora, economici con detto Stato» (paragrafo 62), alla luce dell’opportunità che la persona condannata possa «mantenere contatti regolari e frequenti con la famiglia e i congiunti» al fine di favorire il suo reinserimento sociale (paragrafo 64).
La Corte ha, dunque, concluso che «l’articolo 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584 dev’essere interpretato nel senso che: per valutare se occorra rifiutare l’esecuzione di un mandato d’arresto europeo emesso nei confronti del cittadino di un paese terzo che dimori o risieda nel territorio dello Stato membro di esecuzione, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione deve procedere a una valutazione complessiva di tutti gli elementi concreti caratterizzanti la situazione di tale cittadino, idonei a indicare se esistano, tra quest’ultimo e lo Stato membro di esecuzione, legami che dimostrino che egli è sufficientemente integrato in tale Stato e che, pertanto, l’esecuzione, in detto Stato membro, della pena o della misura di sicurezza privative della libertà pronunciata nei suoi confronti nello Stato membro emittente contribuirà ad aumentare le sue possibilità di reinserimento sociale dopo che tale pena o misura di sicurezza sia stata eseguita. Tra tali elementi vanno annoverati i legami familiari, linguistici, culturali, sociali o economici che il cittadino del paese terzo intrattiene con lo Stato membro di esecuzione, nonché la natura, la durata e le condizioni del suo soggiorno in tale Stato membro» (paragrafo 68 e dispositivo).
4.6.– I chiarimenti interpretativi forniti dalla Corte di giustizia in seguito al rinvio pregiudiziale operato da questa Corte con l’ordinanza n. 217 del 2021 confermano dunque i dubbi di incompatibilità con lo stesso diritto dell’Unione – oltre che con la Costituzione italiana – della disciplina censurata.
L’esclusione assoluta e automatica del cittadino di uno Stato terzo dal beneficio del rifiuto della consegna per l’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza subordinata all’impegno a eseguire detta pena o misura in Italia – beneficio di cui godono, invece, tanto il cittadino italiano, quanto, a determinate condizioni, il cittadino di altro Stato membro – è stato ritenuto dalla Corte di giustizia incompatibile con il principio di uguaglianza di fronte alla legge sancito dall’art. 20 CDFUE e, dunque, con lo stesso art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI, letto alla luce dell’art. 1, paragrafo 3, della medesima decisione quadro, che riafferma l’obbligo di rispettare «i diritti fondamentali e i fondamentali principi giuridici sanciti dall’articolo 6 del trattato sull’Unione europea» nell’esecuzione della stessa.
Da ciò deriva immediatamente la contrarietà della disciplina censurata agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI.
Inoltre, tale disciplina contrasta con la finalità rieducativa della pena imposta dall’art. 27, terzo comma, Cost. – finalità, del resto, cui la stessa Corte di giustizia si richiama, sottolineando che il reinserimento sociale della persona condannata rappresenta la ratio ispiratrice del motivo di non esecuzione facoltativa di cui all’art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI, di cui l’art. 18-bis, comma 1, lettera c), della legge n. 69 del 2005 costituisce specifica trasposizione nell’ordinamento italiano. L’esecuzione all’estero della pena o di una misura di sicurezza inflitta o disposta a carico di una persona che abbia saldamente stabilito in Italia le proprie relazioni familiari, affettive e sociali finisce, infatti, per ostacolare gravemente, una volta terminata l’esecuzione della pena e della misura, il reinserimento sociale della persona, cui esse debbono tendere per mandato costituzionale (sul necessario orientamento alla risocializzazione anche delle misure di sicurezza, oltre che delle pene, sentenza n. 22 del 2022, punto 5.2. del Considerato in diritto).
Restano assorbite le ulteriori censure formulate dal rimettente.
5.– Alla luce di quanto affermato dalla Corte di giustizia, a tali vulnera deve essere posto rimedio affidando all’autorità giudiziaria dell’esecuzione – e dunque, nell’ordinamento italiano, alla corte d’appello competente in forza dell’art. 5 della legge n. 69 del 2005 – il compito di valutare se la persona ricercata, cittadina di uno Stato terzo, effettivamente (e legittimamente) abbia residenza o dimora nel territorio italiano, e se – in caso affermativo – essa risulti «sufficientemente integrata» (sentenza O. G., paragrafi 61 e 68) nello Stato italiano, sì da imporre che l’esecuzione della pena o della misura di sicurezza avvenga in Italia, in modo da non pregiudicare la funzione rieducativa di detta pena o misura.
La valutazione relativa a tale sufficiente integrazione dovrà, a sua volta, essere effettuata tenendo conto dei criteri indicati dalla stessa Corte di giustizia al paragrafo 68 della sentenza O. G. e reiterati nel dispositivo: e dunque dei «legami familiari, linguistici, culturali, sociali o economici» che il cittadino del paese terzo intrattiene con lo Stato italiano, nonché della natura, della durata e delle condizioni del suo soggiorno in Italia.
Un rilievo importante in questa valutazione, infine, dovrà essere riconosciuto al possesso, da parte della persona ricercata, dello status di soggiornante di lungo periodo, previsto dalla direttiva 2003/109/CE e dall’art. 9 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero): status che la stessa sentenza O. G. afferma costituire «un autentico strumento di integrazione sociale», costituente come tale «un forte indizio del fatto che i legami stabiliti dalla persona ricercata con lo Stato membro di esecuzione sono sufficienti a giustificare il rifiuto di eseguire il mandato d’arresto europeo» (paragrafo 67).
In definitiva, l’art. 18-bis, comma 1, lettera c), della legge n. 69 del 2005, come introdotto dall’art. 6, comma 5, lettera b), della legge n. 117 del 2019, deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui non prevede che la corte d’appello possa rifiutare la consegna di una persona ricercata cittadina di uno Stato terzo, che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano e sia sufficientemente integrata in Italia, nei sensi appena precisati, sempre che la corte d’appello disponga che la pena o la misura di sicurezza sia eseguita in Italia.
6.– Come sopra rammentato (punto 3 del Considerato in diritto), la disposizione censurata è stata modificata dal d.lgs. n. 10 del 2021. Il suo contenuto normativo è oggi confluito nel comma 2 dell’art. 18-bis, che testualmente prevede: «[q]uando il mandato di arresto europeo è stato emesso ai fini della esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà personale, la corte di appello può rifiutare la consegna della persona ricercata che sia cittadino italiano o cittadino di altro Stato membro dell’Unione europea legittimamente ed effettivamente residente o dimorante nel territorio italiano da almeno cinque anni, sempre che disponga che tale pena o misura di sicurezza sia eseguita in Italia conformemente al suo diritto interno».
Tale disposizione è affetta, da un lato, dal medesimo vizio di legittimità costituzionale che inficiava il previgente art. 18-bis, comma 1, lettera c), della legge n. 69 del 2005, non prevedendo alcun motivo di rifiuto a favore del cittadino di uno Stato terzo che pure risulti risiedere legittimamente ed effettivamente nel territorio italiano. Il che giustifica una pronuncia di illegittimità consequenziale di tale nuova disposizione, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale).
Dall’altro lato, la disposizione oggi vigente prevede però, per l’ipotesi in cui la persona ricercata sia cittadina di altro Stato membro dell’Unione, che la sua consegna ai fini dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privativa della libertà personale possa essere rifiutata dalla corte d’appello soltanto quando essa risieda o dimori legittimamente ed effettivamente nel territorio italiano «da almeno cinque anni».
Al riguardo, occorre rilevare che, secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia, uno Stato membro ben può subordinare la possibilità del rifiuto della consegna di una persona cittadina di altro Stato membro, ai fini dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza, alla condizione che tale persona abbia soggiornato legalmente e in via continuativa per almeno cinque anni nello Stato di esecuzione (sentenza Wolzenburg, paragrafo 74).
La sentenza O. G. ha, ora, chiarito che un’analoga condizione per il rifiuto della consegna può essere prevista dallo Stato membro anche con riferimento alla situazione di un cittadino di uno Stato terzo, purché essa «non ecceda quanto necessario a garantire che la persona ricercata presenti un grado di integrazione certo nello Stato membro di esecuzione» (paragrafo 52).
L’esigenza di uguaglianza di trattamento tra cittadino di altro Stato membro e cittadino di uno Stato terzo, su cui si impernia l’intera sentenza O. G., vieta evidentemente che a quest’ultimo possa essere riservato un trattamento più favorevole di quello (legittimamente) riservato dal legislatore nazionale al cittadino di altro Stato membro.
Conseguentemente, la dichiarazione di illegittimità costituzionale che investe la nuova formulazione dell’art. 18-bis deve essere limitata alla situazione in cui la persona ricercata, cittadina di uno Stato terzo, sia legittimamente ed effettivamente residente nel territorio italiano da almeno cinque anni.
Ai sensi dunque dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, l’art. 18-bis, comma 2, della legge n. 69 del 2005, come introdotto dall’art. 15, comma 1, del d.lgs. n. 10 del 2021, deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che la corte d’appello possa rifiutare la consegna di una persona ricercata cittadina di uno Stato terzo, che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano da almeno cinque anni e sia sufficientemente integrata in Italia, nei sensi poc’anzi precisati, sempre che la corte d’appello disponga che la pena o la misura di sicurezza sia eseguita in Italia.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 18-bis, comma 1, lettera c), della legge 22 aprile 2005, n. 69 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri), come introdotto dall’art. 6, comma 5, lettera b), della legge 4 ottobre 2019, n. 117 (Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea – Legge di delegazione europea 2018), nella parte in cui non prevede che la corte d’appello possa rifiutare la consegna di una persona ricercata cittadina di uno Stato terzo, che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano e sia sufficientemente integrata in Italia, nei sensi precisati in motivazione, sempre che la corte d’appello disponga che la pena o la misura di sicurezza sia eseguita in Italia;
2) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 18-bis, comma 2, della legge n. 69 del 2005, nella formulazione introdotta dall’art. 15, comma 1, del decreto legislativo 2 febbraio 2021, n. 10 (Disposizioni per il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della decisione quadro 2002/584/GAI, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra stati membri, in attuazione della delega di cui all’articolo 6 della legge 4 ottobre 2019, n. 117), nella parte in cui non prevede che la corte d’appello possa rifiutare la consegna di una persona ricercata cittadina di uno Stato terzo, che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano da almeno cinque anni e sia sufficientemente integrata in Italia, nei sensi precisati in motivazione, sempre che la corte d’appello disponga che la pena o la misura di sicurezza sia eseguita in Italia.