Svolgimento del processo
1. La sentenza impugnata è stata pronunziata il 7 giugno 2022 dalla Corte di appello di Bari, che ha confermato la decisione del Tribunale di Foggia che aveva sancito la penale responsabilità di L. e M. M. per il reato di furto di energia elettrica, aggravato dal mezzo fraudolento e dall'esse1·e stato commesso su cose destinate a pubblico servizio.
2. Avverso detta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione entrambi gli imputati a mezzo del comune difensore di fiducia, che ha redatto un atto unico.
2.1. Il primo motivo di ricorso lamenta violazione degli artt. 40, 110 e 624 cod. pen.
Sostengono i ricorrenti che, il 18 novembre 2014, all'atto del controllo, gli accertatori Enel non furono in grado di stabilire quali immobili l'allaccio abusivo rifornisse, tuttavia affermando apoditticamente che esso alimentava gli appartamenti degli imputati; i prevenuti si sono difesi da questa accusa affermando che i loro appartamenti erano alimentati da un unico contatore intestato a L. M. e che l'allaccio abusivo riforniva al più un pozzo per l'irrigazione dei loro terreni.
La tesi difensiva, in particolare, è che l'allacciamento abusivo fu effettuato dall'elettricista V.L. su ordine del fratello dei ricorrenti, C., che aveva poi mandato una lettera anonima all'Enel per vendicarsi di alcuni contrasti in atto tra loro. Proprio per questo i due imputati avevano registrato una conversazione con V.L., il quale, in dibattimento, aveva negato solo per non incorrere in responsabilità e che poi era stato assassinato.
Sostengono, poi, i ricorrenti che la Corte distrettuale, per un verso, ha creduto alla loro estraneità e, dall'altra, ne ha comunque riconosciuto la responsabilità, chiamando implicitamente in causa l'art. 40 cod. pen. Gli imputati, al contrario, proclamano la propria estraneità alla condotta, ribadendo che essa era stata attuata dal fratello C., condotta di cui erano venuti a conoscenza solo dopo l'accertamento dell'Enell e dei Carabinieri. A sostegno della propria difesa, i ricorrenti rimarcano che gli c1ccertatori Enel non verificarono se, interrompendo l'allaccio, cessasse la fornitura di energia elettrica ai loro appartamenti e negano che, in capo a loro, vi fosse una posizione di garanzia tale da imporre loro di impedire il furto.
2.2. Il secondo motivo di ricorso lamenta violazione del divieto di bis in idem. Si legge nel ricorso che M. M. era stato già tratto a giudizio per lo stesso fatto e prosciolto in quanto, in difetto di una specifica contestazione delle aggravanti, il Giudice monocratico le aveva escluse e aveva ritenuto che la fattispecie fosse improcedibile per difetto di querela. Se è vero che il divieto di secondo giudizio non si applica ai casi di proscioglimento per difetto di querela quando la querela sopravvenga, in questo caso tale condizione non si è verificata ma, nel nuovo giudizio, vi è stata contestazione di due aggravanti che hanno determinato la procedibilità di ufficio.
2.3. Il terzo motivo di ricorso lamenta violazione di legge quanto al mancato rilievo, da parte della Corte di appello, della prescrizione del reato, secondo i ricorrenti maturata al più tardi il 19 maggio 2022, tenuto conto che il furto è reato istantaneo e deve ritenersi commesso il 19 novembre 2009.
2.4. Il quarto motivo di ricorso invoca ancora una volta la prescrizione, sostenendo che, poiché il d.lgs 150 del 2022 aveva reso procedibile a querela di parte il furto laddove aggravato ex art. 62S, n. 2) cod. pen., tale aggravante andava esclusa e, pertanto, il furto, da ritenersi quindi solo monoaggravato, era da considerarsi prescritto il 18 maggio 2022, quand'anche si individuasse il dies a quo nel 18 novembre 2014.
Motivi della decisione
Il ricorso di L. M. è inammissibile, mentre quello di M. M. è fondato - nei termini più avanti precisati - per cui nei suoi confronti la sentenza impugnata va annullata, con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Bari.
1. Il primo motivo di ricorso - che contesta il giudizio di penale responsabilità - è inammissibile siccome versato in fatto e aspecifico.
La Corte di appello, infatti, con motivazione immune da vizi logici, ha escluso la rilevanza a discarico della registrazione della conversazione con V.L. e, più in generale, della testimonianza di quest'ultimo, sostenendo che, quand'anche l'allaccio fosse stato realizzato da terzi, la circostanza che esso servisse i due appartamenti degli imputati li rendeva comunque corresponsabili del furto. La loro estraneità, infatti - ha sostenuto la Corte di merito - sarebbe stata palese solo laddove essi avessero denunziato all'Enel l'anomalia.
A queste argomentazioni, i ricorrenti oppongono nuove considerazioni sulla responsabilità di V.L. e di C. M. e negano che l'allaccio servisse i loro appartamenti, circostanza, al contrario, emersa in dibattimento e non contrastata con una denunzia di travisamento della prova, che la stessa prospettazione censoria non individua; mentre si comprende, anche dai ricorsi, che i tecnici Enel riferirono, appunto, che l’allaccio abusivo serviva proprio le case degli imputati. Ne consegue che la prospettazione dell'esistenza di altra fornitura e l'allegazione al ricorso delle bollette Enel intestate a M. M. non valgono, nell'odierno giudizio di legittimità, a scardinare la tenuta della sentenza impugnata, che potrebbe cedere solo di fronte a vizi intrinseci della stessa o a errori percettivi netti in punto di valutazione della prova. Inoltre, quanto alla propugnata rilevanza a discarico delle dichiarazioni di V.L., il ricorso trascura che la Corte di appello, a pag. 2 della sentenza impugnata, ha rimarcato che, dalla perizia trascrittiva della conversazione dei prevenuti con il predetto, si poteva udire l'affermazione secondo cui due odierni imputati erano d'accordo con il fratello C..
2. E' fondato, invece, il secondo motivo di ricorso - riguardante solo la posizione di M. M. - che denunzia violazione del divieto di bis in idem.
2.1. Dal fascicolo risulta versata in atti, nel corso del giudizio di cognizione, la sentenza del Tribunale di Foggia del 4 ottobre 2017 n. 2651/17, che prosciolse, per difetto di querela, M. per il furto di energia elettrica accertato, come quello oggi sub giudice, i:I 18 novembre 2014 a Foggia e concernente il quantitativo di 52.640 Kw/h.
Il proscioglimento conseguì alla presa d'atto, da parte del Giudice monocratico, della mancata specificazione circa le circostanze aggravanti - solo evocate dall'indicazione dell'art. 625 cod. pen., ma non delineate o puntualizzate in fatto né contrassegnate dai numeri di riferimento nell'ambito dell'articolo suddetto - e dalla mancanza di querela.
Orbene, il ricorrente sostiene - e sosteneva con l'atto di appello - che il fatto sia il medesimo e la Corte di appello, dal canto suo, ha respinto la doglianza, ritenendo e valorizzando che: la materialità del fatto non era stata esclusa dal Tribunale di Foggia, che aveva solo preso atto della mancanza della condizione di procedibilità, mancanza superata dall'attuale contestazione di due circostanze aggravanti che rendono il reato procedibile di ufficio; le imputazioni sono solo parzialmente coincidenti «nel giorno (18.11.2014), nella descrizione del fatto e anche nella stessa contestazione delle aggravanti, escluse dal Giudice per la genericità dell'indicazione, mentre nel caso di specie il fatto è ben descritto in ogni suo particolare, dalla modalità manomissiva ai suoi fruitori e ove avviene la fruizione di energia elettrica» (cfr. pagg. 2 e 3 della sentenza impugnata).
2.2. Ciò posto, la Corte di appello non ha colto nel segno innanzitutto quando ha inquadrato giuridicamente la questione e ne ha tratto le conseguenze cristallizzate nella decisione impugnata.
L'art. 649 cod. proc. pen. - che disciplina, appunto, il divieto di nuovo giudizio - vieta che l'imputato, già giudicato per il medesimo fatto con sentenza o decreto divenuti irrevocabili, possa essere sottoposto nuovamente a procedimento penale per lo stesso fatto. Rinviando al prosieguo per l'intervento della Corte Costituzionale del 2016 sulla norma in oggetto, basti qui accennare I; anche - e solo per completezza, in quanto Ila questione non riguarda il caso di specie - all'esegesi estensiva del divieto offerta da Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005, Donati, Rv. 231800, secondo cui, a prescindere dall'irrevocabilità della sentenza o del decreto di condanna per il fatto pregresso, «Non può essere nuovamente promossa l'azione penale per un fatto e contro una persona per i quali un processo già sia pendente (anche se in fase o grado diversi) nella stessa sede giudiziaria e su iniziativa del medesimo ufficio del P.M., di talché nel procedimento eventualmente duplicato dev'essere disposta l'archiviazione oppure, se l'azione sia stata esercitata, dev'essere rilevata con sentenza la relativa causa di improcedibilità».
Il principio suddetto patisce, però, un'eccezione.
L'art. 649 cod. proc. pen. - ed è questo, invece, un aspetto di specifico interesse in questa sede - esclude che la relativa disciplina operi nel caso in cui la precedente sentenza sul medesimo fatto sia una pronunzia di improcedibilità per mancanza di querela; ciò lo si ricava dal richiamo che il primo comma della disposizione suddetta contiene all'art. 345 cod. proc. pen. («[ ..... ] salvo quanto disposto dagli artt. 69, comma 2, e 345»). L'art. 345, comma 1, cod. proc. pen., a sua volta, prevede infatti - per quello che rileva ai fini dell'odierno giudizio - che la sentenza di proscioglimento ex art. 529 cod. proc. pen. non impedisce il successivo esercizio dell'azione penale per il medesimo fatto e contro la medesima persona «se è in seguito proposta querela».
Dal combinato disposto delle due disposizioni citate, dunque, si ricava che non si incorre nel divieto di bis in idem qualora l'imputato sia stato destinatario di una precedente sentenza di proscioglimento per difetto di querela e quest'ultima sopravvenga. Ed è proprio quest'ultimo punto che impone di dissentire dal ragionamento in diritto della Co1·te di merito, che ha ritenuto che la natura del precedente proscioglimento - per mancanza di querela, appunto - collocasse la questione al di fuori dell'ambito del bis in idem. Ciò sarebbe avvenuto, infatti, solo laddove il nuovo processo avesse preso l'avvio dal successivo ingresso nel procedimento della necessaria querela ma non - come è accaduto in questo caso - quando ciò sia stato semplicemente frutto di una rimeditazione della contestazione da parte del pubblico ministero, che, questa volta, ha avuto cura di indicare puntualmente le circostanze aggravanti che intendeva contestare, sì da rendere l'imputazione chiara ed il reato per cui si procede perseguibile di ufficio. Consentire un nuovo processo in un caso di questo genere condurrebbe, invero, a conseguenze non volute dal legislatore e, in definitiva, alla elusione del divieto di secondo giudizio, permettendo al pubblico ministero di porre rimedio, attraverso una puntuale contestazione, a precedenti omissioni che avevano determinato comunque una pronunzia terminativa del giudizio.
Ritiene il Collegio che la logica della disposizione di cui all'art. 345 cod. proc. pen. sia tutt'altra, ossia quella di rimedia all'eventuale mancata confluenza della querela - evidentemente già sporta nel termine di legge - nel fascicolo processuale; e reputa altresì che la norma sia di stretta inte1·pretazione, perché costituisce un limite alla garanzia costituita dallo sbarramento di cui all'art. 649 cod. proc. pen.
A questo proposito preme rimarcare - benché non pare che il principio sia stato mai specificamente enucleato - che una conferma indiretta della correttezza di questo ragionamento si ricava dalle motivazioni di Sez. 4, n. 31446 del 25/06/2008, Mustaccioli, Rv. 240894, sia pure concernente regiudicanda parzialmente diversa. Nella specie il Procuratore generale lamentava l'abnormità del provvedimento con cui il Tribunale -- contestualmente alla pronunzia di non doversi procedere per mancanza di querela, previa esclusione dell'unica circostanza aggravante contestata - aveva disposto la trasmissione degli atti al pubblico ministero affinché valutasse "la possibilità di procedere nei confronti dell'imputato" per il medesimo furto, aggravato tuttavia da altre e diverse circostanze. Nella specie, questa Corte regolatrice - precisato che la sentenza di non luogo a procedere per difetto di querela, una volta divenuta definitiva, è idonea ad integrare il presupposto del divieto di un secondo giudizio al pari di quella di assoluzione, salvo nel caso della successiva presentazione della querela medesima - ha affermato che il provvedimento di trasmissione degli atti era tamquam non esset «sia perché inidoneo ad impartire al pubblico ministero, in via immediata e diretta, l'ordine di agire per il fatto diversamente circostanziato, sia perché, comunque, se il pubblico ministero procedesse si imbatterebbe inevitabilmente nel divieto di cui all'art. 649 c.p.p. ». Quest'ultima affermazione è eloquente della rispondenza di questa interpretazione al ragionamento sopra svolto, in quanto è il frutto di una precisa scelta esegetica, ossia quella di ritenere che non sia possibile una "reviviscenza" dell'azione penale ex art. 345 cod. proc. pen. quando essa non sia frutto della sopravvenienza della querela, ma solo di una "ristrutturazione" dell'imputazione, per il medesimo fatto storico, attuata dal pubblico ministero.
Da quanto sopra può quindi trarsi una prima conclusione, cioè che il divieto di secondo giudizio non patisce eccezioni quando, in relazione al medesimo fatto già oggetto di sentenza di proscioglimento per mancanza di querela, sia nuovamente esercitata l'azione penale non già perché la querela è successivamente stata portata all'attenzione dell'organo inquirente, ma perché lo stesso addebito è stato corredato dalla contestazione di circostanze che lo hanno reso perseguibile di ufficio.
2.3. Svolta questa prima riflessione, se ne impone un'altra, legata agli ulteriori enunciati con i quali la Corte di appello ha giustificato la reiezione della censura dell'appellante, enunciati con i quali ha sostenuto la diversità tra i due fatti.
A questo riguardo occorre un ulteriore inciso in diritto sulla portata dell'art. 649 cod. proc. pen., utile a vagliare la correttezza degli altri riferimenti che la Corte distrettuale ha utilizzato per respingere la tesi del bis in idem.
2.3.1. Un'importante chiave di lettura della disposizione processuale in argomento si deve alla sentenza della Corte Costituzionale n. 200 del 2016 - già sopra genericamente evocata - che l'ha dichiarata costituzionalmente illegittima per contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 4 del Protocollo n. 7 CEDU (secondo cui «Nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato»). In particolare, la previsione del nostro codice di rito è stata reputata incostituzionale nella parte in cui, secondo il diritto vivente, escludeva che il fatto fosse il medesimo per la sola circostanza che sussistesse un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza irrevocabile e il reato per cui era iniziato il nuovo procedimento penale.
Nel circoscrivere il giudizio di incostituzionalità rispetto a quanto opinato dal Giudice rimettente, la pronunzia della Consulta ha indicato all'interprete quale debba essere il percorso di verifica dell'identità del "fatto" che può condurre alla sentenza di improcedibilità ex art. 649 cod. proc. pen. A questo riguardo, la Corte Costituzionale ha sostenuto che il fatto storico-naturalistico che rileva, ai fini del divieto di bis in idem da leggersi in chiave convenzionale, è «l'accadimento materiale, certamente affrancato dal giogo dell'inquadramento giuridico, ma pur sempre frutto di un'addizione di elementi la cui selezione è condotta secondo criteri normativi»; criteri normativi - ha opinato il Giudice delle leggi - che ricomprendono non solo l'azione o l'omissione, ma anche l'oggetto fisico su cui cade il gesto ovvero l'evento naturalistico che ne è conseguito, ovvero la modificazione della realtà indotta ci.al comportamento dell'agente, secondo una dimensione empirica, così come accertata nel primo giudizio. Tale concetto - ha ricordato la Consulta - non è estraneo all'esegesi della Corte di cassazione sull'art. 649 codice di rito (Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005, Donati, Rv. 231799), laddove si sono valorizzati, quali indicatori delle medesimezza del fatto richiesta dal legislatore, tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale). In altri termini, la verifica circa il bis in idem, pur dovendo attingere il fatto materiale e non già la fattispecie astratta, impone di riguardarlo comunque individuando, nel comportamento sub giudice, gli elementi di sovrapponibilità fattuale rispetto alla struttura della fattispecie come prevista dal legislatore. Come ha scritto la Corte Costituzionale, il fatto va apprezzato «secondo l'accezione che gli conferisce l'ordinamento», ma, a smentire la possibile riemersione dell'idem legale, «ad avere carattere giuridico è la sola indicazione dei segmenti dell'accadimento naturalistico che l'interprete è tenuto a prendere in considerazione per valutare la medesimezza del fatto» (in termini e per un'ampia ricostruzione del tema, cfr. Sez. 5, n. 11049 del 13/11/2017, dep. 2018, Ghelli, Rv. 272839, in motivazione, nonché Sez. 4, n. 12175 del 03/11/2016, dep. 2017, Bordogna e altri, Rv. 270387).
In definitiva, quindi, per verificare se vii sia bis in idem, il raffronto deve essere tra la prima contestazione, per come si è sviluppata nel processo, e il fatto posto a base della nuova iniziativa del pubblico ministero, secondo una prospettiva concreta e non legata alla struttura delle fattispecie ma pur sempre inquadrando gli accadimenti storici secondo la "griglia" normativa 'condotta nesso causale-evento'.
2.3.2. Tanto premesso, il Collegio deve innanzitutto precisare che, proprio in ragione dei criteri interpretativi sopra delineélti sul concetto di medesimezza del fatto, l'argomento - adoperato dalla Corte di merito - secondo cui esso sarebbe diverso nei due processi perché, in quello in corso, M. M. risponde dell'addebito in concorso con il fratello non è utilmente spend1ibile. Pur seguendo la strada tracciata dalla Consulta ed inquadrando la condotta nella griglia giuridica di cui sopra si è detto, infatti, deve escludersi che la contestazione al medesimo soggetto, ora come singolo, ora come concorrente, di uno stesso fatto di reato ne muti la struttura e le caratteristiche di accadimento di vita e consenta di sottrarsi al divieto di secondo giudizio.
Non solo.
Neanche la contestazione di inedite circostanze aggravanti nel nuovo processo serve a mutare - come pare aver invece ritenuto la Corte distrettuale - l'essenza del fatto, che resta lo stesso anche laddove diversamente caratterizzato in diritto quanto alle conseguenze penalistiche dell'agire del suo autore. Le circostanze aggravanti, infatti, non sono altro che elementi accessori dell'imputazione, che ne costituiscono una precisazione, attuata riconducendo alcune delle caratteristiche della condotta illecita in altrettante ipotesi astratte che determinano un aggravamento dello statuto sanzionatorio. In questo senso si è pronunziata questa Corte - facendo dichiarata applicazione dell'autorevole percorso esegetico innanzi richiamato - con principio che si intende in questa sede ribadire, secondo cui «l'operatività del divieto di un secondo giudizio, previsto dall'art. 649 cod. proc. pen., non è preclusa dalla configurazione di circostanze aggravanti non costituenti oggetto del precedente processo, in quanto la valutazione sull'identità del fatto deve essere compiuta unicamente con riferimento all'elemento materiale del reato nelle sue componenti essenziali relative alla condotta, all'evento e al relativo nesso causale» (Sez. 1, n. 42630 del 27/04/2022, Piccolomo, Rv. 283687).
2.4. Resta la rimarcata non sovrapponibilità di date ed entità del sottratto, ulteriore argomento utilizzato dalla Corte territoriale per respingere l'istanza di improcedibilità.
Ebbene, da questo punto di vista, il vaglio di questa Corte deve arrestarsi, di fronte alla necessità di effettuare valutazioni di merito che sono precluse al Giudice di legittimità.
2.4.1. Quanto al primo punto, i Giudici di appello hanno osservato che il tempus commissi delicti dei due accadimenti confluiti nei due distinti processi è solo parzialmente coincidente; orbene, il Collegio deve rilevare che la data finale della contestazione nel presente processo coincide con quella indicata in calce al capo di imputazione della sentenza n. n. 2651/17 (18.11.2014), pur leggendosi, nella nuova contestazione, anche un'inedita data di inizio della condotta illecita «dal 19.11.2009». Tuttavia si tratta di una differenza che non rassicura circa la diversità dei fatti storici, dal momento che essa potrebbe essere derivata semplicemente dall'utilizzo di una diversa tecnica redazionale del capo di imputazione nei due distinti processi quanto alla valorizzazione della estensione temporale della condotta; non può ignorarsi, infatti, il dato di comune esperienza secondo cui, nel caso di furto di beni suscettibili di erogazione continuativa, dall'accertamento di anomalie in un dato momento storico consegue di routine la ricostruzione a ritroso della condotta predatoria nel corso del tempo. Ne consegue che la Corte di appello dovrà valutare, sulla base di precisi dati di fatto, se l'accertamento che ha dato la stura al presente procedimento sia diverso da quello della sentenza n. 2651/17.
In secondo luogo, deve essere oggetto di una nuova valutazione in fatto anche la differenza nel quantum dell'enel la trafugata, pure genericamente valorizzata dalla Corte distrettuale per respingere la mozione difensiva. Se, effettivamente, i due capi di imputazione indicano due differenti dati numerici - 52.640 Kw/h e «1065.300 kw/h» - l'anomalia di questa cifra (si tratta di 1.065.300 oppure di 1065,300 kw/h ?) impone di interrogarsi in ordine alle possibili ragioni della discrasia, che potrebbe essere semplicemente legata ad un errore, nell'uno o nell'altro caso, nell'indicazione del dato, come pure - si osserva ancora - ad un successivo approfondimento investigativo che abbia accertato che il sottratto era differente.
3. Manifestamente infondato è il terzo motivo di ricorso, con il quale si invoca la prescrizione, in tesi maturata già il 19 maggio 2022.
Quest'ultimo dato è stato erroneamente individuato, giacché, trattandosi di furto pluriaggravato, la prescrizione maturerà il 18 aprile 2027, decorsi dodici anni e sei mesi dal 18 novembre 2014. E', infatti, a quest'ultima data che occorre fare riferimento quale dies a quo della condotta, come insegna la giurisprudenza di questa Corte, che il Colleqio intende ribadire, secondo cui il termine di prescrizione del delitto di furto di energia elettrica decorre dall'ultima delle plurime captazioni di energia, che costituiscono i singoli atti di un'unica azione furtiva a consumazione prolungata (Sez. 4, n. 53456 del 15/11/2018, Fargetta, Rv. 274501; Sez. 4, n. 17036 del 15/01/2009, Palermo, Rv. 243959; Sez. 5, n. 1324 del 27/10/2015, dep. 2016, Di Caudo e altro,. Rv. 265850; Sez. 4, n. 1537 del 02/10/2009, dep. 2010, Durra, Rv. 246294).
4. Nel quarto motivo di ricorso, infine, si sostiene una tesi singolare.
Secondo i ricorrenti, poiché il d.lgs 150 del 2022 ha reso procedibile a querela di parte il furto laddove aggravato ex art. 625 n. 2) cod. pen., tale aggravante andava esclusa e, pertanto, il furto, da ritenersi quindi solo monoaggravato, era da considerarsi prescritto il 18 maggio 20.22, quand'anche si individuasse il dies a quo nel 18 novembre 2014.
A questo proposito, non avendo i ricorrenti precisato quali siano presupposti teorici di tale conclusione, basterà osservare, a smentirne la correttezza, che il d.lgs 150 del 2022 non ha escluso la rilevanza penale aggravatrice della circostanza di cui sopra e che una cosa è la sua sopravvenuta neutralità ai fini della procedibilità di ufficio, un'altra è la sua incidenza sulla caratterizzazione del fatto, ancora perdurante, il che non consente di escluderla.
P.Q.M.
annulla la sentenza impugnata limitatamente alla posizione di M. M., con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Bari. Dichiara inammissibile il ricorso di M. L. e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.