Con le sentenze in commento, il TAR Lazio ha sostenuto l'indefettibilità di tale requisito e la legittimità delle soglie reddituali ai fini dell'acquisizione dello status di cittadino italiano.
Con le sentenze nn. 14163 e 14172 del 25 settembre 2023, il TAR Lazio si è occupato del requisito reddituale ai fini della concessione della
Con la prima pronuncia, il Giudice amministrativo ha sostenuto l'indefettibilità del requisito reddituale «in quanto funzionale non solo ad evitare che l'ammissione del nuovo membro privo di adeguate fonti di sussistenza possa comportare inconvenienti sul piano della pubblica sicurezza ovvero finisca per gravare sul pubblico erario, ma anche ad assicurare che sia in grado di concorrere allo sviluppo economico-sociale mediante la partecipazione al gettito fiscale e fornisca un proprio contributo alla Comunità di cui entra a far parte».
Ciò detto, la valutazione di tale requisitova effettuata tenendo conto «sia del periodo già maturato nel triennio precedente al momento della presentazione della domanda, sia di quello successivo, in quanto lo straniero deve dimostrare di possedere con una certa stabilità e continuità nel tempo il requisito in parola, che va mantenuto fino al momento del giuramento».
Da ultimo, TAR Lazio ha chiarito altresì che «il principio di attualizzazione del reddito, che consente all'istante di far valere eventuali miglioramenti della propria posizione economica, non può essere inteso nel senso di ammettere che i requisiti previsti per l'ottenimento della
Se con la prima pronuncia, il Giudice amministrativo del Lazio ha sostenuto la necessità del requisito reddituale, con la sentenza n. 14172 ha stabilito la legittimità delle soglie reddituali per la concessione della
Tale indefettibilità, seppur non precisata da atti aventi rango primario, integra una delle condizioni che devono risultare soddisfatte ai fini dell'acquisizione dello status di cittadino italiano, come pacificamente imposto dalle previsioni del D.M. 22 novembre 1994.
Secondo il TAR Lazio, «deve essere individuata a fini di certezza, allo scopo di evitare arbitrarie e divergenti valutazioni da parte dell'amministrazione e che, a ben vedere, si tratta delle stesse ragioni per cui è stata già da tempo risalente ritenuta legittima la prescrizione di soglie reddituali minime al fine di autorizzare l'ingresso ed il soggiorno sul territorio nazionale, ai sensi dell'
TAR Lazio, sez. V-bis, sentenza (ud. 11 luglio 2023) 25 settembre 2023, n. 14163
Svolgimento del processo / Motivi della decisione
La ricorrente espone di essere residente in Italia da più di 10 anni, di essere stata sin dall’inizio a carico del marito, con cui ha formato una famiglia composta ora da 5 figli, di aver presentato la domanda di concessione della cittadinanza italiana ai sensi dell'art. 9, comma 1, lettera F), legge 5 febbraio 1992, n. 91 in data 05.05.2015.
Con il ricorso in esame la predetta impugna il decreto del 26.06.2020 con cui il Ministero dell’Interno ha respinto la predetta domanda per carenza dei requisiti reddituali nel triennio 2016-2018.
Il gravame è affidato ai seguenti motivi: 1) Violazione dell’art. 10 bis della legge n. 241/1990; 2) violazione dell’art. 9, comma 1, lett. f), l. 91/1992 e delle leggi 15/2005 e 80/2005 eccesso di potere per carenza di istruttoria e difetto di motivazione; 3) violazione degli artt. 8 e 9, comma 1, lett. f), l. 91/1992 - eccesso di potere per carenza di istruttoria e difetto di motivazione.
Si è costituita in giudizio l’Amministrazione intimata depositando il fascicolo del procedimento conclusosi con l’atto impugnato, accompagnato da rapporto difensivo.
Con ordinanza n. 9705/20 è stata respinta l’istanza cautelare.
In prossimità dell’udienza di trattazione del merito la ricorrente ha depositato documentazione fiscale recente nonché una memoria conclusionale con cui ha ribadito quanto dedotto con l’atto introduttivo.
All’udienza pubblica dell’11.7.2023 la causa è stata trattenuta in decisione.
Con il primo mezzo di gravame la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 10 bis della legge n. 241/1990 per non aver l’Amministrazione comunicato i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, impedendole, in tal modo, di difendere le proprie ragioni nella naturale sede procedimentale.
La doglianza è infondata.
Non sussiste la violazione delle garanzie di partecipazione procedimentale dato che l’Amministrazione ha provveduto ad effettuare la comunicazione del preavviso di rigetto per via telematica con l’inserimento sulla piattaforma online in cui vanno necessariamente inserite le domande di cittadinanza e mediante la quale sono gestiti i relativi procedimenti.
Come chiarito dalla giurisprudenza in materia tale adempimento si deve ritenere rispettato ove effettuato mediante la comunicazione del preavviso di rigetto in via telematica con inserimento nell’area riservata del portale del Ministero dell’Interno – istituito, ai sensi dell’art. 33, comma 2-bis del decreto-legge n. 69/2013, convertito nella legge n. 98/2013 - che, ai sensi del Codice dell’amministrazione digitale, d. lgs. n. 82/2005, art. 3-bis, rappresenta una modalità ordinaria di comunicazione delle pubbliche amministrazioni con il privato, quindi valida da un punto di vista giuridico (Cons. Stato, sez. III, n. 8030/2022; TAR Lazio, sez. V bis, n. 2914/2022, cfr,, tra tante, da ultimo, n. 13377/2023, ove è ribadito che “la piattaforma informatica, sebbene istituita ai sensi del richiamato art. 33 per consentire agli uffici pubblici coinvolti nei procedimenti di rilascio della cittadinanza, l'acquisizione e la trasmissione di dati e documenti in via esclusivamente informatica, viene utilizzata anche per interagire con gli istanti ai sensi delle norme generali dettate dal d. lgs. n. 82/2005 (Codice dell’amministrazione digitale).
A tal proposito, si consideri che, stanti le esigenze rappresentate dalla p.a. di tipo organizzativo - che hanno imposto l’adozione di soluzioni, volte ad implementare l’informatizzazione del procedimento, le quali, a fronte dell’esponenziale aumento delle istanze di cittadinanza, garantissero progressivamente una maggiore efficienza – dal 18 giugno 2015 l’unica modalità di presentazione delle istanze ammessa è costituita dalla compilazione e dall’invio della domanda in modalità telematica attraverso l’apposito sito internet, dal quale le domande, così acquisite, confluiscono in un applicativo informatico che ne consente la trattazione in formato esclusivamente digitale.
La descritta modalità di gestione del procedimento permette di coniugare il rispetto delle prescrizioni imposte dalla legge n. 91/1990 e dai relativi regolamenti esecutivi con i principi in materia di “amministrazione digitale” dettati dal Codice dell’amministrazione digitale, il quale all’art. 41 (Procedimento e fascicolo informatico) prevede che le “[l]e pubbliche amministrazioni gestiscono i procedimenti amministrativi utilizzando le tecnologie dell'informazione e della comunicazione” e che “[l]a pubblica amministrazione titolare del procedimento raccoglie in un fascicolo informatico gli atti, i documenti e i dati del procedimento medesimo da chiunque formati” nonché che detto fascicolo informatico sia “costituito in modo da garantire l'esercizio in via telematica dei diritti previsti dalla citata legge n. 241 del 1990 e dall'articolo 5, comma 2, del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, nonché l'immediata conoscibilità … , sempre per via telematica, dello stato di avanzamento del procedimento, del nominativo e del recapito elettronico del responsabile del procedimento”.
A fronte dell’esistenza del domicilio digitale e del riconoscimento normativo delle comunicazioni in via telematica ai sensi rispettivamente dell’artt. 3-bis e 41 del d. lgs. n. 82/2005, sussiste l’onere, nonché l’interesse, del soggetto richiedente di consultazione e accesso costante al portale per la verifica dello stato di avanzamento della pratica e di monitoraggio e lettura in tempo reale delle notifiche di recapito di corrispondenza sulla mail associata al portale on line (cfr. Tar Lazio, sez. V bis, n. 2914/2022), ciò da cui è possibile dedurre che nel caso di specie non solo la notifica, ma anche la piena conoscenza della comunicazione erano da ritenere integrate sin dal momento dell’inserimento sul portale”.
Con il secondo motivo lamenta la violazione dell’art. 9, comma 1, lett. f) della legge 91/1992, per non aver l’Amministrazione, nonostante il lungo tempo trascorso dalla presentazione dell’istanza (5 anni circa), consentito all’interessata di rappresentare gli intervenuti miglioramenti della propria condizione economica negli anni 2018, 2019 e 2020 – asseritamente superiori alla soglie prescritte – fruendo del principio di attualizzazione dei redditi, impedendole di dimostrare il possesso del requisito reddituale, incorrendo in tal modo nell’eccesso di potere per carenza di istruttoria e difetto di motivazione. Inoltre oppone che, in ogni caso, tale requisito non sarebbe indispensabile per l’acquisto della cittadinanza.
Il motivo in esame risulta infondato innanzitutto nella parte in cui contesta, in generale, che la cittadinanza possa essere negata per il solo motivo della carenza del requisito reddituale.
La prospettazione di parte ricorrente va disattesa alla luce del consolidato orientamento giurisprudenziale in materia - la cui solidità non è inficiata da qualche isolato precedente in senso contrario, quale quello invocato dalla ricorrente (Cons St., sez. II, 1175/2009 che, peraltro, costituisce un caso di specie, in cui il provvedimento impugnato era affetto da gravi carenze istruttorie) - che ha costantemente ritenuto il requisito reddituale una condizione indefettibile per la concessione della cittadinanza in quanto funzionale non solo ad evitare che l’ammissione del nuovo membro privo di adeguate fonti di sussistenza possa comportare inconvenienti sul piano della pubblica sicurezza - “considerata la naturale propensione a deviare del soggetto sfornito di adeguata capacità reddituale” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, n. 766/2011 e n. 974/2011) ovvero finisca per gravare sul pubblico erario, ma anche ad assicurare che sia in grado di concorrere allo sviluppo economico-sociale mediante la partecipazione al gettito fiscale e fornisca un proprio contributo alla Comunità di cui entra a far parte (vedi, tra tante, da ultimo, Cons. St., sez. III, n. 3143, 4754, 4767 del 2023; n. 8042/2022; Cons. Stato Sez. I, parere n. 240/2021; id., n. 2152/2020; Sez. III, n. 1726/2019: Cons. Stato, sez. VI, n. 766/2011 e 974/2011; n. 8421/2009; Cons. St., sez. VI, 3213 e 3907 del 2008; 6063/2002; 1474/1999; 3145/1998, 2254/1996; TAR Liguria, sez. II, n. 68/2004, 1752/2004; /2005; e 1586/2003; TAR Lazio, sez. I, n. 2377/2006; TAR Lazio, sez. II quater n. 832/2009; TAR Lazio, sez. II quater, n. 4189/2012; è fatta salva la possibilità di prescindere da tale requisito nel caso in cui il richiedente sia un portatore di handicap - TAR Lazio, sez. I ter, n. 7846/2020 - altrimenti il requisito è richiesto anche nei confronti di altri soggetti meritevoli, per il resto, di tutela, quali i richiedenti asilo, come ribadito da Cons. Stato sez. III, n.1726/2019, osservando che “la radicale differenza fra lo status di cittadino a pieno titolo e quello di "asilante" spiega e rende pienamente ragionevole la diversità degli elementi di fatto che sono sufficienti al riconoscimento della protezione internazionale, rispetto a quelli che concernono invece la concessione della cittadinanza”).
A ben vedere si tratta delle stesse ragioni per cui è stata già da tempo risalente ritenuta legittima la prescrizione di soglie reddituali minime già solo al fine di autorizzare l’ingresso ed il soggiorno sul territorio nazionale, come prescritto dal D.lgs. 286/1998, per cui “il possesso di un reddito minimo – idoneo al sostentamento dello straniero e del suo nucleo familiare – costituisce un requisito soggettivo non eludibile ai fini del rilascio e del rinnovo del permesso di soggiorno, in quanto attinente alla sostenibilità dell’ingresso dello straniero nella comunità nazionale, al suo inserimento nel contesto lavorativo e alla capacità di contribuire con il proprio impegno allo sviluppo economico e sociale del paese al quale ha chiesto di ospitarlo; il requisito reddituale è infatti finalizzato ad evitare l’inserimento nella comunità nazionale di soggetti che non siano in grado di offrire un’adeguata contropartita in termini di lavoro e, quindi, di formazione del prodotto nazionale e partecipazione fiscale alla spesa pubblica e che, in sintesi, finiscono per gravare sul pubblico erario come beneficiari a vario titolo di contributi e di assistenza sociale e sanitaria, in quanto indigenti; d’altro canto la dimostrazione di un reddito di lavoro o di altra fonte lecita di sostentamento è garanzia che il cittadino extracomunitario non si dedichi ad attività illecite o criminose” (cfr. di recente, tra tante, Cons. Stato, sez. II, n. 4026/2021; cfr. Cons. Stato, Sez. III, n. 3141/2020, n. 8839/2019, Cons. Stato, sez. I, parere n. 2176/2016 su affare 377/2016; Cons. St., sez. III, n. 2645/2015 e 2335/2015; Cons. Stato, sez. VI, n. 5994/2010).
Quindi, se la fissazione del requisito economico e delle relative soglie reddituali minime è necessaria per consentire allo straniero il semplice ingresso ed il temporaneo soggiorno sul territorio nazionale, a maggior ragione si richiede che tali condizioni siano soddisfatte per conseguire la cittadinanza dello Stato ospite già solo sulla base della mera considerazione che “il più contiene il meno”: a tale riguardo è appena il caso di ricordare che la naturalizzazione attribuisce, tra l’altro, il cd. diritto di incolato.
In tale prospettiva è stato perciò chiarito che “Il parametro su riferito costituisce, dunque, un requisito minimo indefettibile, ragion per cui l’insufficienza del reddito dichiarato può costituire causa ex se di diniego di cittadinanza, anche nei confronti di un soggetto che risulti sotto ogni altro profilo bene integrato nella collettività, con una regolare situazione di vita familiare e di lavoro, e titolare di un permesso di soggiorno per motivi di lavoro ovvero della carta di soggiorno; anche in questi casi, infatti, si tratta di titoli che possono essere rilasciati e rinnovati solo previa dimostrazione del possesso dei requisiti reddituali espressamente prescritti art. 9 e 29 d.lgs n. 286/1996 (sicché il requisito reddituale risulta implicitamente incluso nel requisito della ‘residenza legale’)” (vedi, tra tante, di recente, TAR Lazio, sez. V bis, n. 1698/2022, n. 10972/22, 11028/22, da ultimo, n. 9588/2023).
In una prospettiva funzionale il requisito reddituale risulta indefettibile in considerazione del complesso intreccio di diritti/doveri pubblici che caratterizzano detto status. Conseguendo la naturalizzazione lo straniero acquisisce tutta una ulteriore serie di diritti (i cd. diritti politici) e si assumendosi al contempo i correlativi doveri (pubblici) che ne costituiscono la contropartita. Questi ultimi, infatti, gravano solo sul cittadino e sono costituiti, in primis, in tempo di guerra, dal “sacro dovere di difendere la Patria” solennemente sancito, a carico del solo cittadino, dall’art. 52 Cost (con conseguente divieto dello straniero naturalizzato di allontanarsi dal Paese in caso di mobilitazione generale, mentre lo straniero non naturalizzato resta libero di andare all’estero per mettere in salvo sé e la propria famiglia), nonché, in tempo di pace, dal dovere di contribuire al progresso socio-economico del Paese. Non serve rievocare le origini storiche del costituzionalismo moderno, scaturito dall’affermazione del principio “no taxation without representation”, riconvertendolo nel suo reciproco “no representation without taxation”, per comprendere i termini di quel rapporto di scambio, che, dopo la Rivoluzione Francese, caratterizza il contratto sociale che lega il cittadino allo Stato di “appartenenza”, in virtù di quella “frazione di sovranità” che viene a questi l’attribuita con il riconoscimento del potere di partecipare all’autodeterminazione della vita della Nazione che lo ospita, mediante il conferimento dei cd. diritti politici, che costituiscono, a tutt’oggi, il nucleo essenziale della nozione di cittadinanza. In tale prospettiva è stato chiarito che l’assegnazione di tale potere allo straniero che chiede di essere ammesso in una Comunità politica non è un “atto gratuito”, una conseguenza automatica della semplice sua presenza protratta sul territorio di quello Stato “senza creare particolari problemi”, ma richiede da questi un “contributo” personale e materiale per il progresso di quella collettività di cui entra a far parte. Peraltro, siccome il conferimento della cittadinanza, come “completamento e coronamento del percorso di integrazione” consiste sostanzialmente nell’attribuire il diritto di voto alle elezioni politiche nazionali (giacché il diritto alla partecipazione alla vita politica locale - in cui, data la dimensione territoriale degli effetti, l’interesse nazionale del Paese di appartenenza dello straniero non ha alcuna influenza - proclamato dall’art. 7 Patto internazionale diritti civili e politici adottato dall’Assemblea Generale ONU a New York il 16.12.1966 e dall’art. 6 della Convenzione di Strasburgo del Consiglio d’Europa del 5.2.1992, è già riconosciuto dall’art. 2 dgs. 286/1998), la condizione di poter disporre di un reddito minimo di livello adeguato è altresì volta a scongiurare richieste strumentali della cittadinanza da parte di soggetti interessati a sfruttare il fenomeno (crescente) del cd. “voto di scambio”. Anche sotto tale profilo il requisito reddituale risulta funzionalmente connesso alla verifica “dell’autenticità dell’interesse” al conseguimento della nazionalizzazione, oltre che rispondere alle esigenze di tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico sopra rappresentate.
La prospettazione della ricorrente pertanto non può essere condivisa, essendo ormai pacificamente riconosciuto che “l'amministrazione deve effettuare una valutazione delle ragioni che inducono il richiedente a scegliere la nazionalità italiana e delle sue possibilità di rispettare i doveri che derivano dall'appartenenza alla comunità nazionale, ivi compresi quelli della solidarietà economica e sociale, posti dalla Costituzione, per cui l'insufficienza dei mezzi economici, ostando alla realizzazione di tali finalità, può costituire causa idonea "ex se" a giustificare il diniego di cittadinanza” (Consiglio di Stato sez. IV, n.1474/1999; sez. I, n. 3145/98 e n. 2254/96), e ciò vale “anche nei confronti di un soggetto che risulti sotto ogni altro profilo bene integrato nella collettività, con una regolare situazione di vita familiare e di lavoro, dato che la persistenza di tale situazione è comunque assicurata dalla carta di soggiorno” (cfr. tra tante, Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 3213/2008; Tar Liguria, sez. II, n. 4767/2005; TAR Lazio, sez. II quater, n. 4189/2012; TAR Lazio, sez. II quater, n. 5565/2013).
La Sezione ha da subito condiviso con convinzione tale orientamento (TAR Lazio, sez. V bis, n.1590/2022, 1698/2022, 1724/2022, 2945/2022, nonché, tra tante, di recente, n. 11028/2022, 11187/2022, 8273/2023, 9570/2023, 9582/2023, 11964/2023, 12386/2023), evidenziandone la validità anche dal punto di vista storico-comparatistico, ricordando che “il requisito dell’autonomia reddituale costituisce una condizione prescritta dalla legislazione in materia dei diversi Stati membri dell’Unione Europa, configurandosi come principio comune ai diversi ordinamenti giuridici” (TAR Lazio, sez. V bis, n. 11028/2022; 16321/2022, 1993/2023, 4268/2023, 10747/2023).
A tale riguardo va peraltro osservato che il possesso del requisito in contestazione è prescritto anche dalla normativa comunitaria sulla cittadinanza dell’Unione per l’esercizio diritto di soggiorno delle persone nei territori degli Stati Membri, che, al fine di evitare il fenomeno del cd. “turismo sociale”, è sottoposto alla condizione “di disporre, per se stesso e per i propri familiari, di risorse economiche sufficienti, affinché non divenga un onere a carico dell’assistenza sociale dello Stato Membro ospitante durante il periodo di soggiorno, e di un’assicurazione malattia che copra tutti i rischi nello Stato Membro ospitante” (art. 7 direttiva 2004/38/CE), per la ragione che “i beneficiari non devono costituire un onere eccessivo per le finanze pubbliche dello Stato ospitante” (considerando n. 10 dir. 2004/38).
Un’ulteriore conferma, sul piano storico-evolutivo, è infine rinvenibile nel disegno di legge di riforma della normativa sulla cittadinanza, presentato dal Ministro dell’Interno Amato nell’agosto dell’anno 2006 – i cui contenuti l’impugnata Circolare del Ministero dell'Interno DLCI K.60.1 del 5 gennaio 2007 intendeva anticipare, come espressamente dichiarato nella premessa introduttiva della stessa circolare – che ribadisce l’indefettibilità del requisito reddituale persino per l’acquisizione della cittadinanza dei figli minorenni di stranieri legalmente residenti in Italia, di cui pure intendeva agevolare la naturalizzazione.
La tesi della ricorrente va perciò disattesa alla luce della consolidata giurisprudenza in materia, la cui validità è corroborata dall’analisi storico-comparatistica, non residuando ormai più alcun dubbio sulla necessità del possesso di adeguate risorse economiche quale condizione per l’acquisto della nazionalità del Paese in cui lo straniero risiede, per cui la carenza di tale requisito costituisce una ragione sufficiente per negare la cittadinanza, anche nei confronti di un soggetto che risulti sotto ogni altro profilo ben integrato nella collettività, con una regolare situazione di vita familiare e di lavoro (vedi, tra tante, da ultimo, Cons. St., sez. III, n. 8042/2022, n. 4412/2022; Cons. St., sez. VI, n. 3213/2008).
Per quanto invece riguarda il periodo in cui tale condizione deve essere soddisfatta – nonché la modalità di dimostrazione della sua sussistenza - la giurisprudenza in materia ha sin da tempo risalente chiarito che la valutazione del requisito reddituale va effettuata tenendo conto sia di quello già maturato nel triennio precedente al momento della presentazione della domanda (vedi, tra tante, Cons. St., sez. III, n. 8042/2022, TAR Lazio, sez. V bis, n. 9588/2023, 9573/2023; 7385/23, 7155/23, 11188/2022, 11185/2022, 8693/22, 7890/22, 1590/2022 e. 1724/2022; TAR Lazio, sez. I ter, n. 705/2021; n. 13690/2021; 8554/2019) – che, a tal fine, deve essere corredata dalla dichiarazione dei redditi dell'ultimo triennio, come prescritto dal DM 22.11.1994, adottato in attuazione dell'art. 1 co. 4 del DPR 18 aprile 1994, n. 362 – sia di quello successivo, in quanto lo straniero deve dimostrare di possedere con una certa stabilità e continuità nel tempo il requisito in parola, che va mantenuto fino al momento del giuramento, come previsto dall’art. 4, co. 7, DPR 12.10. 1993, n. 572 (Consiglio di Stato sez. I, parere n. 240/2021; TAR Lazio, sez. V bis, n. 1724/2022; sez. I ter, n. 507/2021, n. 13690/2021, n. 10750/2020, n. 2234/2009; cfr. sez. II quater n. 1833/2015; n. 4959/2014, n. 2450/2014, n. 1956/2014; n. 10647/2013; n. 8226/2008).
L’osservazione della situazione reddituale si protrae lungo un arco temporale che è sufficientemente ampio proprio per poter valutare adeguatamente l’effettiva attitudine dell’aspirante alla naturalizzazione a far fronte agli impegni derivanti dal nuovo status (vedi, tra tante, TAR Lazio, sez. I ter, n. 507/2021 ove riconosce che “risponde a criteri di logica e di ragionevolezza desumere la sussistenza del requisito reddituale dalla capacità espressa dall’istante in un periodo che non solo deve necessariamente precedere la domanda, ma che deve anche abbracciare un lasso temporale sufficiente a conferire una certa stabilità a quel requisito), dato che è a tal fine che – come si è visto - si richiede allo straniero di dimostrare non solo di aver già raggiunto, ma anche di riuscire a mantenere, con una certa stabilità e continuità nel tempo, la capacità di adempiere ai doveri di solidarietà economica e sociale, contribuendo alla crescita socio-economica del Paese, senza rischio di diventare un onere per lo stesso.
Come chiarito dalla giurisprudenza in materia il carattere di stabilità e continuità del requisito in parola non viene meno in caso di flessioni meramente transitorie, di durata limitata (ad un solo anno), suscettibili di recupero in breve tempo, non in grado di compromettere anche per il futuro il possesso di mezzi di autosostentamento per cui, in tali casi, è illegittimo il rigetto della domanda di cittadinanza senza previamente valutare l’attitudine dell’istante a riacquisire il grado di stabilità economico-patrimoniale prescritto, la sua capacità di far fronte a periodi di difficoltà transeunti (Cons. Stato, sez. III, n. 60/2015; Cons. St., sez. I, n. 1791/2021 e 1959/20; TAR Lazio, sez. I ter, n. 6979/2021; vedi, tra tante, di recente, Tar Lazio, V bis, n. 7154/2023; n. 8190/2023; 10752/2023), purché tali periodi siano limitati nel tempo, non determinino una definitiva perdita della capacità di produrre reddito, (Cons. Stato, Sez I, par. 119/2022; Cons. Stato, sez. III, n. 2645/2015, 60/2015, 6069/2014; 3674/2014; 3596/2014).
In tale prospettiva l’Amministrazione, ove intervenga una diminuzione della capacità economica, può favorevolmente considerare la positiva evoluzione delle prospettive reddituali, tenendo conto delle potenzialità di recupero, ma solo “ove si riscontri il decorso dí un considerevole lasso di tempo tra la data di presentazione dell'istanza e quella di perfezionamento del relativo iter”, come espressamente precisato dalla Circolare Ministeriale n. K.60.1 del 5.1.2007, ove invita le Autorità periferiche di procedere “all’attualizzazione dei redditi dichiarati (…..) allo scopo di consentire che i tempi procedurali necessari per la concessione della cittadinanza operino, ove possibile, in senso favorevole al richiedente” (premessa-terzo capoverso), raccomandando che "ove sia riscontrabile il decorso di un considerevole lasso di tempo tra la data di presentazione dell'istanza e quella di perfezionamento del relativo iter, sarà possibile procedere, prima dell'eventuale diniego, ad una attualizzazione dei redditi dichiarati, dando modo al richiedente di indicare gli eventuali miglioramenti della propria posizione economica, ove in senso favorevole al richiedente” (ultimo capoverso).
In tal modo la CM mira ad evitare che gli eccessivi ritardi nella conclusione del procedimento (dovuti alla cd. esplosione delle domande di cittadinanza) finiscano per danneggiare lo straniero che, nelle more, avesse perso il requisito, e ciò intende fare operando un’inversione degli effetti negativi, in modo che il ritardo giochi a favore (anziché a danno) del richiedente.
Al riguardo è stato tuttavia osservato che all'eventuale ritardo dell'Amministrazione nel provvedere sull’istanza di naturalizzazione non può attribuirsi alcun effetto legittimante la presentazione dell’istanza da parte di soggetti che risultino ab origine privi dei requisiti prescritti (Vedi, tra tante, da ultimo, TAR Lazio, sez. V bis, n. 1949/2023; 7141/2023; 10868/2023, nel senso che il ritardo nel provvedere legittima piuttosto l'istante ad agire in giudizio contro l'inerzia della PA). Per cui tale CM deve essere interpretata “nel senso di prevedere una facoltà di attualizzazione in senso favorevole da parte dell’Amministrazione, che certo non esclude la potestà di valutare, fino al momento dell’emissione del provvedimento, la sussistenza di tutte le condizioni richieste per l’esito favorevole dell’istanza” (TAR Lazio, sez. I ter, n. 8554/2019).
In tal senso anche questa Sezione ha ripetutamente chiarito che il principio di attualizzazione del reddito, cui fa riferimento la circolare soprarichiamata, al fine di consentire all’istante di far valere eventuali miglioramenti della propria posizione economica, non può essere inteso nel senso di ammettere che i requisiti previsti per l'ottenimento della cittadinanza vengano ad essere maturati nel corso del procedimento, in deroga ai principi generali che improntano i procedimenti ad istanza di parte, secondo cui i requisiti debbano essere già posseduti all'atto della presentazione dell'istanza, oltre che mantenuti sino al momento della decisione sulla stessa da parte dell'autorità procedente (vedi, tra tante, di recente, TAR Lazio, sez. V bis, n.12092/23, 10881/2023, 9588/2023, 9573/2023; 7385/23, 7165/2023, 7155/23, 11188/2022, 11185/2022, 8693/22, 7890/22).
È stato al riguardo chiarito che non può essere applicato in via analogica al procedimento di concessione della cittadinanza per naturalizzazione l'opposto principio della rilevanza delle sopravvenienze favorevoli sancito dalla normativa che disciplina la (diversa) materia dell’immigrazione, osservando che l'art. 5 co. 5, D.lgs. 286/1998 – che prevede che il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno sono rifiutati "quando mancano o vengono a mancare i requisiti richiesti per l'ingresso e il soggiorno nel territorio dello Stato ... sempre che non siano sopraggiunti nuovi elementi che ne consentano il rilascio" – è una norma che ha natura derogatoria al principio generale che impronta i procedimenti ad istanza di parte - sopra richiamo - al fine di evitare che lo straniero, rimasto privo del titolo autorizzatorio al soggiorno, cada in situazioni di clandestinità– e quindi non può essere applicato al di fuori delle ipotesi espressamente previste (vedi, tra tante, da ultimo, TAR Lazio, sez. V bis, n. 13509/2023, 13374/2023, 9588/23, 9573/2023, 7385/23, 7174/23, 7166/23, 7165/23, 7155/23, 7141/23, 1949/23, 1190/23, 11188/22, 11185/22, 7980/2022, nel senso che nei procedimenti per la concessione della cittadinanza, trova applicazione il principio in cui il richiedente deve dimostrare di aver già maturato tutti i requisiti necessari per ottenere la naturalizzazione al momento della domanda, risultando inconferente il richiamo alle diverse norme dettate dal Testo Unico Immigrazione; cfr., TAR Lazio, sez. II quater, n. 832/2009, n. 5565/2012; Cons. St., sez. VI, n. 842/2009).
Ciò è confermato dalla stessa formulazione testuale della circolare ministeriale in parola, ove ribadisce che “Lo straniero è quindi tenuto a provare la propria posizione reddituale e il regolare assolvimento degli obblighi fiscali, per i periodi immediatamente antecedenti la presentazione dell'istanza, allegando alla stessa idonea documentazione”. I periodi cui si fa riferimento sono appunto, come sopra ricordato, “il triennio immediatamente antecedenti la presentazione della domanda”, come prescritto dal DM 22.11.1994, con cui il Ministro dell’Interno ha dettato disposizioni in attuazione dell’autorizzazione di cui all’art. 1 co. 4 del DPR n. 362/1994.
Pertanto la circolare ministeriale in parola non si presta alla lettura propugnata da parte ricorrente né sotto il profilo dell’interpretazione letterale, né sotto quello dell’interpretazione logico-sistematica. Ed anche se così non fosse, comunque, date la sua natura e valenza giuridica, la circolare ministeriale in parola andrebbe comunque interpretata in modo da renderla compatibile con i principi generali sopra richiamati e conforme alla normativa in materia. Questa, infatti, già regola la rilevanza delle sopravvenienze con espresse disposizioni, prevedendo che la sede in cui possono essere fatti valere i requisiti maturati successivamente non è quella del procedimento in corso, bensì quella del nuovo procedimento, che può essere instaurato dall’interessato, presentando una nuova domanda, già solo dopo un anno dal rigetto della precedente, come sancito dall’art. 5 DPR 572/1993 (Cons. St., sez. III, n. n.8421/2009 nel senso che la via da seguire, in caso di miglioramento della condizione reddituale, “è quella della proposizione, ad un anno dall'attuale diniego, di una nuova istanza di concessione della cittadinanza, in applicazione di una norma specifica, l'art. 5, comma 2, del d.p.r. 12 ottobre 1993, n. 572; (..) Ed infatti, la decisione sulla concessione della cittadinanza, attesa la situazione di durata su cui si innesta, è naturalmente espressa "allo stato degli atti" e quindi suscettibile di successiva revisione, a seguito dell'instaurazione di un nuovo e distinto procedimento da parte dell'interessato, in relazione all'eventuale subentrato maturare dei requisiti richiesti”; sulla natura dinamica delle valutazioni di tali circostanze, vedi, da ultimo, Cons. St., sez. III, n. 8042/2022); non potendosi ravvisare in ciò alcun contrasto con i principi di ragionevolezza e proporzionalità dato che, in ogni caso, anche in caso di diniego della cittadinanza, lo straniero può continuare a soggiornare e lavorare in Italia, conducendo la propria esistenza alle medesime condizioni di prima, sicché la preclusione è solo temporanea e non comporta alcuna "interferenza nella vita privata e familiare del ricorrente" ex art. 8 CEDU, art. 7 Patto internazionale diritti civili e politici, come ripetutamente chiarito dalla giurisprudenza in materia (vedi, tra tante, di recente, TAR Lazio, sez. V bis, n. 10748/23, 10742/23, 9588/23, 7385/23, 7165/23, 7161/23, 7155/23, 4268/23, 4262/23, 1589/23, 11918/22, 11285/22, 11188/22, 11187/22, 11185/22, 11028/22, 10972/22, 10970/22, 10096/22, 8706/22, 8220/22, 7890/22. 7888/22, 7887/22, 3692/22).
Alla luce delle considerazioni e conclusioni sopra richiamate va disattesa la prospettazione della ricorrente, volta a contestare la rilevanza del requisito reddituale e ad interpretare la CM in parola nel senso di consentire la maturazione “tardiva” di tale requisito nel corso del procedimento.
Facendo applicazione dei principi sopra esaminati al caso di specie il ricorso risulta infondato anche in fatto, in quanto, allo stato degli atti, la condizione in parola non risulta soddisfatta.
Con il provvedimento impugnato l’istanza di naturalizzazione della ricorrente è stata rigettata a causa del deficit del requisito reddituale relativamente agli anni 2016, 2017 e 2018.
La ricorrente lamenta l’erroneità del presupposto, opponendo che la PA non aveva considerato il reddito prodotto dal marito, il quale “nell'anno 2018 percepiva un reddito di € 14.068,00; nell'anno 2019 percepiva un reddito di € 17.257,00; nell'anno 2020, prima della notifica del provvedimento di diniego oggi impugnato, percepiva un reddito di € 17.073,30”, sicché l’Amministrazione doveva ritenere maturato il requisito prescritto, facendo riferimento al parametro individuato dalla giurisprudenza – e recepito dalla Circolare Ministero dell'Interno n. K.60.1del 5.1.2007 – cioè al tetto per l'esenzione della spesa sanitaria (art.3 DL n.382/1989 conv. Legge n. 8/1990 che richiede un reddito non inferiore ad euro 8.263,31, incrementato ad euro 11.362,05 in presenza di coniuge a carico e con un'aggiunta di euro 516,00 per ogni figlio a carico, dato che era stato conseguito “il limite reddituale pari ad € 13.942,05, previsto per ottenere la cittadinanza italiana nel caso de quo, che vede la presenza di un coniuge e di cinque figli a carico del medesimo”.
Il Collegio osserva innanzitutto che l’arco di tempo considerato dalla ricorrente – cioè il triennio 2017-2019 - non coincide con quello preso a riferimento l’Amministrazione – cioè il triennio 2016-2018 – che contesta la carenza del requisito reddituale anche per l’anno 2016.
Tale circostanza è rimasta incontestata, non avendo la ricorrente neppure allegato il possesso del requisito in contestazione per quell’anno, e, tantomeno comprovato con il deposito della relativa dichiarazione dei redditi relativa all’anno di imposta 2017 o la produzione di altri mezzi atti a confutare l’esistenza del deficit reddituale per l’anno 2016, com’era suo onere.
Per quanto riguarda le altre due annualità oggetto di contestazione (2017 e 2018), il Collegio osserva che dalla documentazione reddituale relativa ai rispettivi periodi di imposta, versata in atti dalla ricorrente, si evince che il reddito dichiarato risulta inferiore alla soglia minima sopraindicata: dalla dichiarazione del 2018 risulta che nel 2017 è stato percepito un reddito di soli €. 5.613, di gran lunga inferiore alla soglia minima prevista; dalla dichiarazione del 2019 risulta che nel 2018 il reddito ammonta a €. 12.399, che risulta comunque inferiore al livello minimo prescritto, che, tenuto conto della composizione del nucleo familiare, composto da coniuge e cinque figli, avrebbe dovuto essere di almeno €. 13.942.
Ne consegue che per quanto riguarda gli anni successivi al 2016 – che sono gli unici su cui la ricorrente incentra le sue difese - la rilevata carenza del requisito reddituale negli anni in contestazione è comprovata dalla stessa documentazione fiscale prodotta dalla ricorrente.
Non solo, ma se anche nei due anni considerati avesse raggiunto tale soglia, comunque non si potrebbe ritenere soddisfatta la condizione della continuità e stabilità della situazione economica, che deve essere mantenuta “fino al momento del giuramento”, dato anche il reddito percepito nell’anno 2019 è pari a €. 12.710, per cui, anche per tale anno, il livello reddituale non risulta adeguato.
Né per scongiurare tali conclusioni la ricorrente può giovarsi dell’invocato principio di attualizzazione del reddito, introdotto dalla medesima circolare, per far valere eventuali miglioramenti della propria posizione economica per l’anno 2020, dato che, come chiarito sopra, il recupero della capacità reddituale non le avrebbe comunque consentito di superare il mancato possesso dei requisiti per tutto il triennio anteriore, dovendo tali sopravvenienze favorevoli farsi valere in un nuovo procedimento, che poteva ben essere avviato dalla ricorrente, già solo dopo un anno dal primo rifiuto (cioè nel 2021), come espressamente previsto dall’art. 5 DPR 572/1993.
Non può essere neppure seguito il metodo di calcolo prospettato dalla ricorrente ove pretende di cumulare al reddito indicato nella dichiarazione dei redditi –che, come si è visto, risulta inferiore alle soglie prescritte considerata la composizione del nucleo familiare - l'indennità di disoccupazione agricola, il bonus irpef. il rimborso per il coniuge a carico.
La prospettazione della ricorrente va disattesa alla luce della consolidata giurisprudenza in materia.
In particolare, con specifico riferimento all’indennità di disoccupazione erogata dall'INPS, di cui si invocava l’equiparazione, ai sensi dell'art. 6, co. 2 del Tuir, al reddito perduto o sostituito, è stato chiarito che “quest'ultimo emolumento, anche se considerato ai fini fiscali reddito imponibile (che quindi deve essere dichiarato), ha, tuttavia, la natura di un sussidio, è una prestazione a sostegno del reddito concessa a quei lavoratori che hanno perso involontariamente la loro occupazione, che grava sulla finanza pubblica. Alla luce di tale inquadramento è evidente che una simile circostanza compromette l'esito del giudizio di autosufficienza reddituale e di capacità di adempimento con i propri mezzi dei doveri di solidarietà economica e sociale effettuato nei confronti del soggetto destinatario di detta indennità nell'ambito del procedimento concessorio” (TAR Lazio, sez. V bis, n. 1190/2023) per cui “non può essere conteggiato al fine del calcolo del reddito vero e proprio, perché, come già rilevato, ciò che conta, al fine della concessione della cittadinanza, è la continuità lavorativa, cioè la capacità del richiedente di mantenersi da solo” (TAR Lazio, sez. V bis, n. 10237/2022 e n. 1102/2023). In tale prospettiva è stato costantemente esclusa la possibilità di includere nel computo dei redditi alcune indennità e provvidenze, che, per loro stessa natura, sono chiaramente indicative della carenza di autonoma capacità del soggetto di mantenere sé e la propria famiglia, tanto da rendere necessario l’intervento pubblico di sostegno finanziario a carico del pubblico erario, quali il cd. "reddito di cittadinanza" (TAR Lazio, sez. V bis, n. 7888/2022) e persino l’assegno di invalidità Cons. Stato, sez. III, n.4767/2023).
Per le medesime ragioni non possono essere favorevolmente considerati, ai fini della valutazione della capacità reddituale e dell’autosufficienza economica, eventuali benefici fiscali, che possano essere riconosciuti all’istante a fini diversi (cfr. TAR Lazio, sez. V bis, n. 2945/2022 con riferimento allo straniero fiscalmente residente in Italia che abbia goduto di sconti sull'imposta sul reddito percepito dall’ente presso cui presta servizio, precisa che tale condizione “finisce inesorabilmente per condizionare la valutazione della situazione economica dell'istante, intesa nel significato di capacità di produzione di reddito, in grado di accrescere le risorse del Paese stesso sotto il profilo sia produttivo che contributivo e di concorrere alla copertura degli oneri di solidarietà sociale previsti per i soggetti indigenti”), potendo essere positivamente valutati unicamente quegli elementi atti a dimostrare la capacità di autosostentamento dell’interessato e della propria famiglia (cfr. TAR Lazio, sez. V bis, n. 1992/2023).
In sostanza, come chiarito con specifico riferimento alle detrazioni IRPEF, che “il parametro del reddito preso in considerazione dall'Amministrazione è quello finale risultante dalla dichiarazione, indipendentemente dalle modalità di calcolo di tale reddito mediante detrazioni o deduzioni di spese. È, infatti, il reddito finale che rileva ai fini del pagamento delle imposte e, anche, alla possibilità di usufruire di benefici ed esenzioni, come il contributo per la partecipazione alla spesa sanitaria o altri benefici economici” (TAR Lazio, sez. II quater, n. 2450/2014).
Facendo applicazione dei principi sopra richiamati al caso in esame, vanno disattese le censure dedotte con il secondo motivo di ricorso, dato che l’adozione del provvedimento di rifiuto della cittadinanza, costituiva per l’Autorità procedente, una volta riscontrata la carenza del requisito reddituale per il triennio in contestazione, un atto dovuto.
La riconosciuta legittimità di tale ragione ostativa è sufficiente a sorreggere l’atto di diniego impugnato, che risulta plurimotivato, e, di conseguenza a rigettare il ricorso, non essendo necessario, pertanto, esaminare le ulteriori doglianze, dedotte con il terzo mezzo di gravame, con cui la ricorrente contesta le ulteriori ed autonome ragioni di rifiuto della cittadinanza consistenti nei pregiudizi penali a carico del marito.
Solo per completezza vale precisare che l’accoglimento di tali doglianze non avrebbe condotto ad un esito diverso, dato che il principio della personalità della responsabilità penale, invocato dalla ricorrente, non esclude la possibilità della di prendere in considerazione, al fine di formulare il giudizio prognostico sull’utile inserimento dello straniero, anche dei comportamenti dei familiari, e dato che l’archiviazione della notizia di reato non impedisce alla PA di tener conto, quali “indicatori”, degli elementi desumibili anche dalle mere denunce, a prescindere dal loro esito, in particolare sia stata disposta per prescrizione (peraltro nel caso in esame non è stato dimostrato che l’archiviazione sia stata disposta per infondatezza della notizia di reato, essendosi la ricorrente limitata ad asserirlo labialmente, senza produrre il relativo provvedimento).
In conclusione il ricorso risulta anche sotto tale profilo infondato e va pertanto respinto.
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Quinta Bis), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna la ricorrente al pagamento, in favore del Ministero dell’Interno, delle spese del giudizio, complessivamente liquidate in € 1.500,00 (millecinquecento/00), oltre oneri ed accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità.
TAR Lazio, sez. V-bis, sentenza (ud. 13 giugno 2023) 25 settembre 2023, n. 14172
Svolgimento del processo
Con il presente strumento di gravame, parte ricorrente contesta il provvedimento del Ministero dell’interno del 4 aprile 2018, con cui è stata respinta la domanda di cittadinanza presentata ai sensi dell’art. 9, comma 1, lett. f), della legge n. 91/1992, in data 23 luglio 2014.
L’avversato diniego è fondato sulla mancata dimostrazione da parte dell’aspirante cittadino della disponibilità di adeguati mezzi economici di sostentamento, come richiesta ai fini dell’acquisizione dello status, contestata in sede di preavviso di rigetto di cui alla nota ministeriale del 25 luglio 2018 e non superata a seguito delle osservazioni trasmesse a sostegno della propria situazione dall’interessato.
In questa sede l’istante, innanzi tutto, mira ad ottenere l’annullamento e/o disapplicazione della presupposta circolare prot. n. -OMISSIS- del 5 gennaio 2007 del Ministero dell’Interno, deducendo il vizio di Violazione dell’art. 9, comma 1, lett. f), l. 5 febbraio 1992, n. 91. Violazione del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. Eccesso di potere per illogicità manifesta, oggetto del primo motivi di ricorso.
Il ricorrente contesta detta circolare ritenendo illogico il parametro del reddito c.d. «soglia» che coincide con quello previsto per l’esenzione dalla partecipazione alla spesa sanitaria dall’art. 3, decreto-legge 25 novembre 1989, n. 382, convertito, con modificazioni, nella legge 25 gennaio 1990, n. 8 [ed è pari a 16 milioni di lire (€. 8.263,61 euro), incrementato fino a 22 milioni di lire (11.362,05 euro) in presenza del coniuge ed in ragione di un ulteriore milione di lire (516,00 euro) per ogni figlio a carico].
Ritiene in particolare che sarebbe illogico negare la cittadinanza in mancanza del raggiungimento dei parametri minimi individuati, in ragione del timore di un aggravio della spesa pubblica sociale, visto che lo Stato garantisce comunque anche allo straniero l’assistenza sanitaria e il diritto alla salute, a pari condizioni del soggetto avente lo status civitatis, oltre che l’accesso ai diversi sussidi e ammortizzatori sociali in ossequio al principio di solidarietà e senza discriminazione alcuna.
Inoltre assume che sarebbe illogico, oltre che iniquo, richiedere ad un soggetto che aspira a divenire cittadino, al fine di valutare la sua capacità di contribuire al finanziamento della spesa pubblica, il raggiungimento di un livello reddituale superiore alla misura individuata dal legislatore, in ossequio al principio di capacità e di progressività contributiva ex art. 53 Cost., ai fini dell’esonero dall’imposta sul reddito delle persone fisiche, rappresentata da un reddito inferiore a €. 8.174,00, percepito nel corso dell’anno d’imposta (oltre tale importo sul soggetto inizia a gravare un obbligo di contribuzione).
Con il secondo motivo di ricorso formula censure volte confutare la legittimità del DM del 4 aprile 2018 di reiezione della domanda di cittadinanza, chiedendone l’annullamento per:
1. Illegittimità derivata, per il caso di accoglimento delle doglianze mosse al punto che precede;
2. Violazione dell’art. art. 9, comma 1, lett. f), l. 5 febbraio 1992, n. 91. Eccesso di potere per travisamento ed erronea valutazione dei fatti, difetto di istruttoria, inosservanza delle circolari nella denegata ipotesi di mancato accoglimento delle censure pregresse.
In tale sede, il ricorrente, rinviando ai documenti versati in atti (modelli 730 e PF) a confutazione della valutazione negativa effettuata dalla p.a. circa il possesso del requisito reddituale, deduce di aver percepito redditi sufficienti nel triennio 2011-2013, antecedente la presentazione dell’istanza di concessione della cittadinanza; rappresenta di aver subito una leggera flessione per il 2014, in cui il reddito sarebbe stato di poco inferiore al reddito soglia (ma, comunque, superiore al limite soglia previsto per l’esenzione dall’imposta sul reddito, ossia €. 8.174,00), avendo percepito un reddito di €. 10.324,00; infine, sostiene di aver anche mantenuto una capacità contributiva adeguata anche successivamente alla presentazione della domanda, visto che nel 2017 ha percepito un reddito di €. 14.040,00 e dal 2018 anche la moglie è percettrice di reddito, in qualità di lavoratrice dipendente, contribuendo alla determinazione del reddito del nucleo familiare utile.
Concludendo, parte ricorrente avanza una Richiesta di condanna ex art. 34, comma 1, lett. c), cod. proc. amm. al rilascio del provvedimento di concessione della cittadinanza italiana ex art. 9, comma 1, lett. f), l. 5 febbraio 1992, n. 91, in quanto, accolte le doglianze volte a dimostrare il possesso dell’unico requisito contestato, ritiene presunto il possesso degli ulteriori requisiti richiesti ai fini della concessione della cittadinanza italiana (quali, ad esempio, l’irreprensibilità della condotta, l’incensuratezza dell’istante, il pieno inserimento del medesimo nel contesto sociale).
In data 9 febbraio 2023 il ricorrente ha depositato una memoria ex art. 73 cod. proc. amm. in cui, dopo aver dedotto il raggiungimento di adeguati livelli di reddito del nucleo familiare successivamente alla presentazione della domanda, riportandosi interamente ai propri atti e scritti difensivi, ha insistito per l’accoglimento del ricorso e, per l’effetto, per la concessione della cittadinanza.
La resistente, costituita in giudizio per resistere al ricorso, ha depositato in data 17 febbraio 2023 documenti e una relazione tesa a confutare le difese ex adverso svolte, chiedendo il rigetto del ricorso.
All’udienza pubblica del 13 giugno 2023 - cui la discussione del merito del ricorso era stata rinviata con ordinanza collegiale n. 4745/2023 all’esito dell’udienza del 14 marzo 2023, vista l’eccezione, sollevata da parte ricorrente, di tardività del deposito da parte della p.a. dei documenti e della relazione difensiva, asseritamente equiparabile ad una memoria difensiva - la causa è stata trattenuta in decisione.
Motivi della decisione
Il ricorso è infondato.
Con l’odierno ricorso, parte ricorrente sostiene, in primo luogo, l’illegittimità derivata del provvedimento di reiezione ed impugna preliminarmente la circolare ministeriale presupposta, con cui sono stati definiti i parametri soglia il cui rispetto l’autorità pubblica è tenuta a verificare in sede di valutazione del possesso del requisito reddituale e, in via subordinata ed eventuale, l’illegittimità per vizi autonomi del decreto ministeriale di rigetto della domanda di cittadinanza, ritenendo erronea la valutazione della p.a. sulla situazione economico-finanziaria dell’intero nucleo familiare del richiedente,
Al riguardo, in funzione dello scrutinio dei motivi di gravame formulati nell’atto introduttivo del giudizio, ivi compreso il motivo con cui si deduce l’illegittimità della presupposta circolare prot. n. -OMISSIS- del 5 gennaio 2007 del Ministero dell’Interno, il Collegio ritiene opportuno premettere un richiamo ai principali punti d’arrivo della giurisprudenza in materia, come di recente sintetizzata dalla Sezione (TAR Lazio, sez. V bis, n. 1590/22, 1698/22, 1724/22, 2945/22, 3692/22, 4619/22; n. 7980/2022; n. 7889/2022; n. 7888/2022).
L'acquisizione dello status di cittadino italiano per naturalizzazione è oggetto di un provvedimento di concessione, che presuppone l'esplicarsi di un'amplissima discrezionalità in capo all'Amministrazione e non riguarda un circoscritto rapporto rilevante nelle relazioni tra privati o nella relazione con la PA, ma rileva piuttosto sul piano politico, in quanto comporta l’attribuzione di una frazione di sovranità.
In questo procedimento la p.a. esercita un potere valutativo che si traduce in un apprezzamento di opportunità in ordine al definitivo inserimento dell'istante all'interno della comunità nazionale (cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. V bis, sentenza n. 1590/2022, Sez. I ter, sentenza n. 3227/2021 e sentenze ivi richiamate), ciò in quanto al conferimento dello status civitatis è collegata una capacità giuridica speciale propria del cittadino che comporta non solo diritti, ma anche doveri nei confronti dello Stato-comunità, con implicazioni d’ordine politico-amministrativo.
In questo quadro, pertanto, l’amministrazione ha il compito di verificare che nel soggetto istante risiedano e si concentrino le qualità ritenute necessarie per ottenere la cittadinanza, quali l’assenza di precedenti penali, la sussistenza di redditi sufficienti a sostenersi, una condotta di vita che esprime integrazione sociale e rispetto dei valori di convivenza civile.
In tal modo, l'inserimento dello straniero nella comunità nazionale è considerato legittimo quando l'Amministrazione ritenga che quest'ultimo possieda ogni requisito atto ad inserirsi in modo duraturo nella comunità, mediante un giudizio prognostico che escluda che il richiedente possa successivamente creare problemi all’ordine e alla sicurezza nazionale, disattendere le regole di civile convivenza, violare i valori identitari dello Stato, gravare sulla finanza pubblica (cfr. ex multis, Tar Lazio, Roma, Sez. V bis, n. 2945/2022; Sez. I ter, n. 12006/2021 e sez. II quater, n. 12568 del 2009).
Il requisito che è risultato mancare nel caso in esame impone al richiedente lo status civitatis di dimostrare la disponibilità di adeguati mezzi economici di sostentamento nonché il regolare adempimento degli obblighi fiscali e la possibilità di adempiere ai doveri di solidarietà economica e sociale (cfr., da ultimo, TAR Lazio, Sez I ter, n. 13690/2021; id., n. 1902/2018; Cons. Stato Sez. I, parere n. 240/2021; id., n. 2152/2020; Sez. III, n. 1726/2019).
L’accertamento del possesso di adeguati mezzi di sostentamento dell’istante non è solo funzionale a soddisfare primarie esigenze di sicurezza pubblica e, in particolare, di prevenzione di illeciti conseguenza dell’indisponibilità di mezzi adeguati di sostentamento ( “considerata la naturale propensione a deviare del soggetto sfornito di adeguata capacità reddituale”, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 3 febbraio 2011, n. 766; id., 16 febbraio 2011, n. 974) – ratio che è alla base delle norme che prescrivono il possesso di tale requisito per l’ingresso in Italia, per il rinnovo del permesso di soggiorno e per il rilascio della carta di soggiorno – ma è anche funzionale ad assicurare che lo straniero possa conseguire l’utile inserimento nella collettività nazionale, con tutti i diritti e i doveri che competono ai suoi membri, cui verrebbe ad essere assoggettato; in particolare, tra gli altri, al dovere di solidarietà sociale di concorrere con i propri mezzi, attraverso il prelievo fiscale, a finanziare la spesa pubblica, funzionale all’erogazione dei servizi pubblici essenziali (cfr., ex multis, Tar Lazio, I ter, 31 dicembre 2021, n. 13690; id., 19 febbraio 2018, n. 1902; Cons. Stato, sez. III, 18 marzo 2019, n. 1726).
Il legislatore, tuttavia, non ha fissato una soglia di reddito minima, rimettendone l’individuazione all’Amministrazione sulla base di parametri indefettibili di garanzia dall’autosufficienza economica del richiedente e della sua reale capacità di partecipare alla spesa pubblica necessaria ad assicurare i servizi pubblici essenziali in Italia.
A tal fine, l’Amministrazione ha attinto alla legislazione vigente in materia di esenzione totale dalla partecipazione alla spesa sanitaria in favore del cittadino italiano titolare di pensione di vecchiaia (art. 3 del decreto-legge n. 382/1989) secondo quanto specificato nella Circolare del Ministero dell'Interno DLCI -OMISSIS- del 5 gennaio 2007.
Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente contesta detta Circolare – quale atto presupposto del provvedimento di diniego impugnato – in parte qua, sostenendo che sia da ritenere:
- illogico negare la cittadinanza in mancanza del raggiungimento dei parametri minimi individuati, in ragione del timore di un aggravio della spesa pubblica sociale, visto che lo Stato garantisce comunque anche allo straniero l’assistenza sanitaria e il diritto alla salute, a pari condizioni del soggetto avente lo status civitatis, oltre che l’accesso ai diversi sussidi e ammortizzatori sociali in ossequio al principio di solidarietà e senza discriminazione alcuna;
- illogico, oltre che iniquo, richiedere ad un soggetto che aspira a divenire cittadino, al fine di valutare la sua capacità di contribuire al finanziamento della spesa pubblica, il raggiungimento di un livello reddituale superiore alla misura individuata dal legislatore, in ossequio al principio di capacità e di progressività contributiva ex art. 53 Cost., ai fini dell’esonero dall’imposta sul reddito delle persone fisiche, rappresentata da un reddito inferiore a €. 8.174,00, percepito nel corso dell’anno d’imposta (oltre tale importo sul soggetto inizia a gravare un obbligo di contribuzione).
Sulla legittimità del parametro cui si conforma l’Amministrazione, in assenza di base normativa, la giurisprudenza ha affermato che “non può convenirsi con le affermazioni di cui al ricorso, secondo le quali l’amministrazione non potrebbe considerare “indefettibile” la soglia reddituale, in quanto essa non è precisata da atti aventi rango primario. Quello che conta, invero, è che il requisito reddituale minimo integri una delle condizioni che devono risultare soddisfatte ai fini dell’acquisizione dello status di cittadino italiano, come pacificamente imposto dalle previsioni del d.m. 22 novembre 1994, prima richiamato. Va da sé che, a tal fine, una soglia minima deve essere individuata a fini di certezza, allo scopo di evitare arbitrarie e divergenti valutazioni da parte dell’amministrazione, e tale soglia è, allo stato, quella già più sopra ricostruita, considerata valido parametro anche dalla costante giurisprudenza” (TAR Lazio, sez. V bis, n. 9582/2023).
A ben vedere si tratta delle stesse ragioni per cui è stata già da tempo risalente ritenuta legittima la prescrizione di soglie reddituali minime già solo al fine di autorizzare l’ingresso ed il soggiorno sul territorio nazionale, ai sensi dell’art. 6, comma 5, d.lgs. 286/1998, per cui “il possesso di un reddito minimo – idoneo al sostentamento dello straniero e del suo nucleo familiare – costituisce un requisito soggettivo non eludibile ai fini del rilascio e del rinnovo del permesso di soggiorno, in quanto attinente alla sostenibilità dell’ingresso dello straniero nella comunità nazionale, al suo inserimento nel contesto lavorativo e alla capacità di contribuire con il proprio impegno allo sviluppo economico e sociale del paese al quale ha chiesto di ospitarlo; il requisito reddituale è infatti finalizzato ad evitare l’inserimento nella comunità nazionale di soggetti che non siano in grado di offrire un’adeguata contropartita in termini di lavoro e, quindi, di formazione del prodotto nazionale e partecipazione fiscale alla spesa pubblica e che, in sintesi, finiscono per gravare sul pubblico erario come beneficiari a vario titolo di contributi e di assistenza sociale e sanitaria, in quanto indigenti; d’altro canto la dimostrazione di un reddito di lavoro o di altra fonte lecita di sostentamento è garanzia che il cittadino extracomunitario non si dedichi ad attività illecite o criminose” (cfr. di recente, tra tante, Cons. Stato, sez. II, n. 4026/2021; cfr. Cons. Stato, Sez. III, n. 3141/2020, n. 8839/2019, Cons. Stato, sez. I, parere n. 2176/2016 su affare 377/2016; Cons. St., sez. III, n. 2645/2015 e 2335/2015; Cons. Stato, sez. VI, n. 5994/2010).
Quindi, se la fissazione del requisito economico e delle relative soglie reddituali minime è necessaria per consentire allo straniero il semplice ingresso ed il temporaneo soggiorno sul territorio nazionale, a maggior ragione si richiede che tali condizioni siano soddisfatte per conseguire la cittadinanza dello Stato ospite sulla base della mera considerazione che “il più contiene il meno”: a tale riguardo è appena il caso di ricordare che si tratta di attribuire uno status che include, tra l’altro, il diritto di incolato, con conseguente permanente collegamento del soggetto al territorio del Paese di appartenenza. In tale prospettiva è stato chiarito che “Il parametro su riferito costituisce, dunque, un requisito minimo indefettibile, ragion per cui l’insufficienza del reddito dichiarato può costituire causa ex se di diniego di cittadinanza, anche nei confronti di un soggetto che risulti sotto ogni altro profilo bene integrato nella collettività, con una regolare situazione di vita familiare e di lavoro, e titolare di un permesso di soggiorno per motivi di lavoro ovvero della carta di soggiorno; anche in questi casi, infatti, si tratta di titoli che possono essere rilasciati e rinnovati solo previa dimostrazione del possesso dei requisiti reddituali espressamente prescritti art. 9 e 29 d.lgs n. 286/1996 (sicché il requisito reddituale risulta implicitamente incluso nel requisito della ‘residenza legale’)” (TAR Lazio, sez. V bis, n. 1698/2022 e, tra tante, da ultimo, n. 9588/2023; cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 3213/2008; TAR Lazio, sez. II quater, n. 4189/2012; TAR Lazio, sez. II quater, n. 5565/2013).
Per cui salvo qualche sporadico caso isolato (che peraltro si giustifica con riferimento alle particolarità del caso di specie, vedi, Cons. St., sez. II, n. 1175/2009), il possesso del requisito reddituale è ritenuto una condizione indefettibile per la concessione della cittadinanza in quanto funzionale non solo ad evitare che l’ammissione del nuovo membro non finisca per gravare (in negativo) sul pubblico erario per carenza di adeguate fonti di sussistenza, ma anche e soprattutto per assicurare che sia in grado di assumersi i doveri che derivano dall’appartenenza alla Comunità Nazionale, in primis quello di concorrere (in positivo) allo sviluppo economico-sociale e di onorare il vincolo di solidarietà mediante la partecipazione al gettito fiscale (vedi, Cons. Stato, sez. IV, n. 2254/1996, 3145/1998, 1474/1999; 6063/2002), che possa “apportare un contributo ulteriore ed autonomo alla Comunità di cui entra a far parte” (TAR Lazio, sez. I, n. 2377/2006; TAR Lazio, sez. II quater n. 832/2009; Cons. St., sez. VI, n. 8421/2009; Cons. St., sez. VI, 3213 e 3907 del 2008; TAR Lazio, sez. II quater, n. 4189/2012; vedi, tuttavia, per la possibilità di deroga a tali principi nel caso in cui il richiedente sia un portatore di handicap, TAR Lazio, sez. I ter, n. 7846/2020, con richiamo ai principi di eguaglianza e non discriminazione di cui agli artt. 2 e 3 della Costituzione, alla legge 104/1992 ed alla sentenza della Corte Costituzionale n. 258/2017).
Si tratta pertanto di un punto di arrivo ormai pacifico (vedi, da ultimo, tra tante, Cons. St., sez. III, nn. 3143, 4754 e 4767 del 2023) che la Sezione ha da subito recepito (TAR Lazio, sez. V bis, n.1590/2022, 1698/2022, 1724/2022, 2945/2022, nonché, di recente, n. 11028/2022, 11187/2022, 8273/2023, 9570/2023, 9582/2023, 11964/2023, 12386/2023), evidenziandone la validità anche dal punto di vista storico-comparatistico, dato che “il requisito dell’autonomia reddituale costituisce una condizione prescritta dalla legislazione in materia dei diversi Stati membri dell’Unione Europa, configurandosi come principio comune ai diversi ordinamenti giuridici” (TAR Lazio, sez. V bis, n. 11028/2022; 16321/2022, 1993/2023, 4268/2023, 10747/2023).
A tale riguardo va peraltro osservato che, anche a livello sovranazionale, il possesso del requisito in contestazione è prescritto dalla normativa comunitaria sulla cittadinanza dell’Unione per l’esercizio del diritto di soggiorno nei territori degli Stati Membri, che, al fine di evitare il fenomeno del cd. “turismo sociale”, è sottoposto alla condizione “di disporre, per se stesso e per i propri familiari, di risorse economiche sufficienti, affinché non divenga un onere a carico dell’assistenza sociale dello Stato Membro ospitante durante il periodo di soggiorno, e di un’assicurazione malattia che copra tutti i rischi nello Stato Membro ospitante” (art. 7 direttiva 2004/38/CE), per la ragione che “i beneficiari non devono costituire un onere eccessivo per le finanze pubbliche dello Stato ospitante” (considerando n. 10 della citata Direttiva).
L’autosufficienza reddituale rileva, pertanto, quale elemento tangibile dell’effettiva appartenenza alla comunità nazionale richiesta in capo al richiedente la cittadinanza, il quale, proprio in vista di detta verifica, deve dimostrare di poter contare su strumenti personali per far fronte ai bisogni propri e del proprio nucleo familiare.
Il ricorrente, infatti, che pure evoca in prima battuta detta finalità primaria sottesa alla previsione del requisito reddituale in esame, finisce, nell’articolare gli argomenti a sostegno della ritenuta illegittimità della circolare ministeriale e nel dedurre l’illogicità dei “parametri soglia” ivi individuati, per soffermare l’attenzione esclusivamente sull’esigenza – a suo dire non realizzata - di assicurare che il soggetto, da un lato, non gravi sulla finanza pubblica, dall’altro, contribuisca a finanziare la spesa pubblica.
Se si tiene conto, tuttavia, che il requisito del reddito rappresenta un indice dell’avvenuta realizzazione dell’imprescindibile processo di integrazione, oltre che garanzia - come sopra diffusamente chiarito - dell’utile inserimento nella Comunità politica di soggetto in grado di assumersi tutti gli oneri ed i doveri pubblici che costituiscono la “contropartita” dei diritti politici, le censure di parte ricorrente crollano: le previsioni normative - rinvenibili all’interno dell’ordinamento giuridico nazionale, richiamate da parte ricorrente - recanti misure volte a garantire l’assistenza sanitaria e la fruizione di ammortizzatori sociali ovvero strumenti a sostegno del reddito in favore degli stranieri a condizioni di parità con il cittadino, con inevitabili effetti negativi a carico dell’erario, sono preordinate - come in parte evidenziato dallo stesso istante - alla tutela dell’essere umano e dei diritti fondamentali della persona garantiti a livello costituzionale, comunitario o internazionale e non si scontrano con l’esigenza di richiedere in capo al soggetto che aspira ad essere inserito in modo stabile e irreversibile nella comunità politica nazionale la produzione di redditi adeguati, essendo la concessione della cittadinanza subordinata ad una valutazione di opportunità politico-amministrativa altamente discrezionale, informata a principi di cautela nell’interesse nazionale [l’Amministrazione è chiamata ad effettuare la delicata valutazione discrezionale in ordine alla effettiva e complessiva integrazione dello straniero già raggiunta nella società e il giudizio prognostico volto a stimare la proficuità del futuro inserimento di un nuovo elemento, il cui interesse personale deve essere comparato con l’interesse della collettività sotto il profilo più generale della tutela dell’ordinamento, ovvero con lo scopo di “proteggere il particolare rapporto di solidarietà e di lealtà tra esso e i propri cittadini nonché la reciprocità di diritti e di doveri, che stanno alla base del vincolo di cittadinanza (Corte di Giustizia UE, causa Rotmann, punto 51)” (Consiglio di Stato, sez. III, 21/10/2019, n. 7122)].
Pertanto il fatto che il richiedente già gravi sulla finanza pubblica, in quanto ammesso a fruire di alcune prestazioni essenziali a salvaguardia di beni fondamentali (vita, salute, integrità fisica) pur non avendo i mezzi per far fronte ai relativi costi, in virtù del riconoscimento di alcuni minimi “diritti di cittadinanza” spettanti nei confronti della Pubblica Amministrazione ad una persona in stato di bisogno a prescindere dalla sua nazionalità, non comporta la maturazione dei requisiti per l’acquisto della cittadinanza di quello Stato, che implica l’attribuzione di un bene totalmente diverso, cioè il riconoscimento allo straniero del potere di partecipazione all’autodeterminazione della vita della Nazione mediante l’assegnazione di quella “frazione” di sovranità statale che viene conferita mediante la “concessione” della cittadinanza. Altrimenti si finirebbe per confondere due diversi piani, quello degli inderogabili doveri di solidarietà connesso ai diritti universali dell’Uomo e quello delle condizioni da soddisfare per acquisire la cittadinanza di un Paese, disciplinato dalla legislazione nazionale dello Stato stesso, operando un’indebita estensione di benefici, perché dal riconoscimento di livelli minimi di assistenza volti a salvaguardare beni di importanza fondamentale per ogni persona a tutti i soggetti in difficoltà, ancorché stranieri, si farebbe derivare un ulteriore, diverso, non connesso effetto e il godimento di detti benefici assurgere a presupposto per il conseguimento della naturalizzazione, in luogo della dimostrazione del possesso del requisito reddituale prescritto per ottenere la cittadinanza di quello Stato (cfr. TAR Liguria, sez. II, n. 1752/2004 nel senso che “Tale principio non può ritenersi compromesso dal riconoscimento, ad opera della legislazione vigente, di alcuni benefici a favore di tutti i soggetti in difficoltà, ancorché stranieri, in virtù del principio di generale riconoscimento di alcuni diritti della persona come fondamentali e spettanti a ciascun individuo in quanto tale, trattandosi di disposizioni eccezionali, e quindi di stretta interpretazione, rispetto al principio generale per cui il diritto alle prestazioni sociali erogate da uno Stato spetta necessariamente ai soli suoi cittadini.
Né da tale riconoscimento di livelli minimi di assistenza volti a salvaguardare ogni persona, ancorché straniera, può in alcun modo farsi discendere il diritto della stessa ad essere inserita nella comunità da cui eccezionalmente riceve aiuto.
In altri termini, dalla previsione di un livello minimo di assistenza, riconosciuto in nome di inderogabili doveri di solidarietà socio-umanitaria, non può farsi derivare alcun diritto di cittadinanza, trattandosi di distinte questioni: una cosa è assicurare il rispetto dei diritti fondamentali minimi ed una cosa è determinare quali siano le condizioni di ammissione di un soggetto in una comunità nazionale.).
Esiste dunque un’interconnessione di diritti politici e correlativi doveri pubblici (che, come si è detto, costituiscono i “contrappesi” dell’assegnazione allo straniero del potere di partecipare mediante l’esercizio dei diritti politici all’autodeterminazione della vita del Popolo di cui entra a far parte) che induce a disattendere la riduttiva prospettazione proposta dal ricorrente, dato che i beni in gioco vanno ben oltre le mere esigenze di tutela della sicurezza pubblica e di ordine economico da questi richiamate e giustificano la scelta di richiedere all’aspirante cittadino il possesso della capacità di produrre redditi adeguati.
Le considerazioni sopra svolte consentono di superare qualunque dubbio sull’an della prescrizione del requisito reddituale quale condizione per l’acquisto della nazionalità del Paese in cui lo straniero risiede, ma anche gli specifici rilievi sul quantum del reddito che deve essere posseduto al fine di dimostrare che tale condizione è soddisfatta.
In questa stessa prospettiva, è quindi da ritenere inconsistente anche la censura di illogicità e iniquità formulata avverso la scelta di cui all’avversata circolare di far coincidere la soglia minima reddituale per il richiedente lo status con quella prevista dalla legislazione vigente in materia di esenzione totale dalla partecipazione alla spesa sanitaria in favore del cittadino italiano titolare di pensione di vecchiaia, soglia che parte ricorrente evidenzia essere superiore a quella individuata dal legislatore ai fini dell’esenzione dall’imposta sul reddito delle persone fisiche.
Il ricorrente pretenderebbe di sostituire la valutazione in tema di adeguatezza dei livelli reddituali effettuata dall’amministrazione competente a rilasciare lo status civitatis, titolare del delineato potere altamente discrezionale, con un criterio diverso che se, da un lato, è fondato sulla capacità di contribuire al finanziamento della spesa pubblica del soggetto interessato, tuttavia, dall’altro, prescinde dalla necessità di riscontrare l’effettiva sussistenza di mezzi idonei per mantenersi in base alla composizione del nucleo familiare, con conseguenze che non necessariamente si risolvono in un maggiore vantaggio per il richiedente lo status, come si vedrà meglio infra.
L'amministrazione, in linea con le pregresse (oltre che susseguenti) acquisizioni giurisprudenziali maturate in relazione ad analoghe fattispecie, ha fatto applicazione dell’art. 3 del decreto-legge n. 382/1989, che costituisce “il minimo esigibile” da chi aspira a condividere quella frazione di potere pubblico dello Stato, come elemento essenziale del Popolo, cui chiede di essere ammesso. A tenore di detta previsione normativa sono esentati dalla partecipazione alla spesa sanitaria i titolari di pensione di vecchiaia con reddito imponibile fino a € 8.263,31, incrementato fino a € 11.362,05 di reddito complessivo in presenza del coniuge a carico e in ragione di ulteriori € 516,00 per ogni figlio a carico (importi peraltro confermati – e, a distanza di decenni, mai aggiornati - in sede di estensione dell’esenzione anche ad altre categorie di soggetti, dapprima dall’art. 8, comma 16, della legge n. 537/1993 e successivamente dall'art. 2, comma 15, della legge n. 549 del 28 dicembre 1995).
Il ricorrente, invece, propugna l’applicabilità anche ai fini della concessione della cittadinanza del criterio individuato dalla legislazione sul pagamento di imposte dirette (quali l’IRPEF) e sull’esonero per redditi maturati nel corso dell’anno d’imposta inferiori a determinati importi (in particolare nel ricorso si invoca la possibilità di rifarsi al reddito soglia, previsto ratione temporis, di euro 8.174,00).
In proposito, il Collegio, in primo luogo, rileva che il richiamo di parte ricorrente alla disciplina della c.d. “no tax area” è parziale e non puntuale, visto che non tiene conto che le soglie di reddito fissate a detti fini, oltre ad essere suscettibili di aggiornamenti, sono plurime e (anche fortemente) differenziate in base alla categoria di appartenenza dell’interessato (lavoratore indipendente, lavoratore autonomo, pensionato). È chiaro che detto aspetto finisce ex se per indebolire la tesi della parte.
Il parametro cui si conforma la p.a. individua una soglia che è ritenuta congrua dalla giurisprudenza in materia, in quanto “indicatore di un livello di adeguatezza reddituale che consente al richiedente di mantenere adeguatamente e continuativamente sé e la famiglia senza gravare (in negativo) sulla comunità nazionale” (cfr. ex multis: Cons. Stato, Sez. IV, 17 luglio 2000, n. 3958; T.A.R. Lazio - Roma, sez. II, 2.2.2015, n. 1833).
D’altronde la soglia reddituale che il ricorrente contesta non è stata creata arbitrariamente dalla giurisprudenza, assume infatti, quale parametro di riferimento, il livello reddituale minimo previsto, cautelativamente, dall'art 26, comma 3, d.lgs. n. 286/1998, per il rilascio del permesso di soggiorno per lavoro autonomo, che richiede, appunto, il possesso “di un reddito annuo, proveniente da fonti lecite, di importo superiore al livello minimo previsto dalla legge per l'esenzione dalla partecipazione alla spesa sanitaria” (cfr. livello individuato quale soglia dall’art. 24 legge 40/1998).
Gli evocati criteri, posti alla base delle previsioni di esenzione dalle imposte dirette, espressione di scelte di politica fiscale, sono informati a una logica diversa, di contenimento del potere impositivo dello Stato e di ridistribuzione della ricchezza, in ossequio ai principi di capacità e di progressività contributiva ex art. 53 Cost., a tutela dell’interesse del privato - considerato atomisticamente e con riferimento al reddito percepito in ciascun anno d’imposta – acché il prelievo tributario sia parametrato alla propria idoneità attuale a far fronte all’obbligazione tributaria, con maggior incisione su chi dispone di risorse più cospicue.
In altri termini, la disciplina richiamata attiene all’esercizio unilaterale di un potere pubblico che determina una diminuzione del patrimonio del destinatario, circostanza che giustifica il ricorso a indici rivelatori di ricchezza del singolo, in ipotesi particolarmente garantisti.
Nel caso della concessione della cittadinanza invece si è di fronte ad un potere dell’autorità pubblica di ampliamento – non già di restrizione - della sfera giuridica del soggetto, un potere di costituire una posizione giuridica soggettiva ex novo, non preesistente neanche in capo alla stessa p.a., ma di cui è ad essa riservata la disponibilità, attesa l’esigenza di valutare se l’interesse del richiedente a far parte in maniera stabile della comunità nazionale sia conciliabile con il giustapposto interesse pubblico ad ammettere un nuovo individuo nel novero dei cittadini nel rispetto della sicurezza, della stabilità economico-sociale, dell’identità nazionale (ex plurimis, Tar Lazio, V bis, n. 9346/2022). Ne deriva che non appare illogico né ingiusto richiedere all’autorità procedente, in sede di valutazione del percorso integrativo compiuto dall’aspirante cittadino, che questi disponga di mezzi economici adeguati rifacendosi a parametri ritenuti espressivi di una più concreta capacità di sostentamento.
Infine, nel merito della fondatezza della tesi del maggior favor per l’aspirante cittadino in caso di applicazione della diversa soglia reddituale individuata ai fini della no tax area, si osserva che in realtà il parametro propugnato da parte ricorrente, prescindendo dalla considerazione della consistenza reddituale dell’intero nucleo familiare, su cui la circolare avversata fa leva al fine di favorire il rilascio della cittadinanza anche ai familiari a carico non percettori di reddito proprio, potrebbe in ipotesi rivelarsi nel caso concreto pregiudizievole, ove, ad esempio, il richiedente percepisca un reddito inferiore a quello soggetto a tassazione ma all’interno del nucleo familiare vi sia un altro percettore di reddito a sua volta non tassabile, ma che sommato al primo consentirebbe di superare le soglie reddituali contestate.
Sul punto giova evidenziare che la circolare impugnata ha previsto - innovando rispetto a quanto accedeva in precedenza, quando non era possibile concedere la cittadinanza allo straniero non titolare di reddito proprio, anche ove fiscalmente a carico di altro familiare e nonostante un reddito complessivo dell’intero nucleo familiare in grado di assicurare a tutti i componenti condizioni di vita dignitose - che, nel rispetto del concetto della solidarietà familiare cui sono tenuti tutti i membri della famiglia, possa essere valutata la consistenza economica dell’intero nucleo familiare di cui il richiedente fa parte.
Va pertanto distinta la questione del reddito a fini fiscali rispetto alla rilevanza dello stesso ai diversi fini di autorizzare la presenza dello straniero sul territorio nazionale e, a maggior ragione, di attribuzione allo stesso della cittadinanza, con riconoscimento di tutti i diritti politici e dei doveri pubblici a questa connessi.
Analogamente è stata ritenuta non adeguata la soglia alternativa “riduttiva”, che fa invece riferimento “all'importo annuo dell'assegno sociale” (che per il 2023 è pari a €. 6.541,21), in quanto è stato considerato che “detto assegno rappresenta solo un parziale contributo per assicurare un livello minimo di sussistenza, paragonabile ad un assegno alimentare, e non è assolutamente indicativo dell’importo necessario per il mantenimento dei cittadini in stato di bisogno, mantenimento cui sono finalizzate anche altre provvidenze, quali l’assegnazione di case popolari, i contributi specifici per la frequenza di corsi di istruzione etc. finalizzati a soddisfare varie esigenze che il titolare di assegno sociale non può autonomamente fronteggiare. Proprio al fine di evitare tali costi, ben più elevati del mero contributo di sussistenza rappresentato dall’assegno sociale, la capacità reddituale dell’aspirante cittadino deve essere intesa non come quella minima per assicurare la mera sussistenza, che porrebbe le ulteriori esistenze relative al suo mantenimento a carico della collettività, ma come quella che corrisponde ad una misura che consenta allo stesso di assumersi gli obblighi di carattere economico derivanti dalla sua ammissione della comunità nazionale” (TAR Liguria, sez. II, n. 4/2005; TAR Lazio, I ter, n. 2650/2002).
Non appare quindi illogico né iniquo, viste le importanti conseguenze legate al rilascio dello status, pretendere a tal fine la disponibilità di risorse economico-finanziarie effettivamente in grado di assicurare il sostentamento proprio e della propria famiglia e, conseguentemente, di concorrere in certa misura al finanziamento della spesa pubblica e dei servizi erogati alla collettività, che, costituisce, appunto, la “contropartita” del conferimento del potere di autodeterminazione della vita della Comunità di cui si entra a far parte mediante l’acquisizione dei diritti politici.
Sulla scorta delle considerazioni che precedono, il primo motivo di ricorso deve essere respinto perché infondato.
Conseguentemente deve essere affermata l’infondatezza anche della tesi dell’illegittimità derivata del provvedimento di rigetto dell’istanza di cittadinanza, di cui al primo punto del secondo motivo di ricorso.
È dunque possibile passare allo scrutinio delle censure di cui al secondo punto del secondo motivo di ricorso, con cui l’istante, che assume di poter vantare la necessaria autosufficienza reddituale, sostiene l’illegittimità del provvedimento di diniego del 4 aprile 2018, in quanto asseritamente affetto dai vizi di violazione dell’art. art. 9, comma 1, lett. f), l. 5 febbraio 1992, n. 91, eccesso di potere per travisamento ed erronea valutazione dei fatti, difetto di istruttoria, inosservanza delle circolari.
Anche questa doglianza si mostra destituita di fondamento.
La valutazione del requisito reddituale va effettuata tenendo conto sia di quello già maturato al momento della presentazione della domanda (cfr. TAR Lazio, sez. I ter, 14 gennaio 2021, n. 507; id., 31 dicembre 2021, n. 13690) – che deve essere corredata dalla dichiarazione dei redditi dell’ultimo triennio, come prescritto dal DM 22.11.1994, adottato in attuazione dell’art. 1 co. 4 del DPR 18 aprile 1994, n. 362 – sia di quello successivo, dovendo essere mantenuto fino al momento del giuramento, come previsto dall’art. 4, co. 7, DPR 12.10.1993, n. 572 (cfr. Consiglio di Stato sez. I, parere n. 240/2021; TAR Lazio, sez. V bis, n. 1724/2022; sez. I ter, n. 507/2021 e n. 13690/2021, cit.; sez. II quater, 2 febbraio 2015, n. 1833; id., 13 maggio 2014, n. 4959; id., 3 marzo 2014, n. 2450; id., 18 febbraio 2014, n. 1956; id., 10 dicembre 2013, n. 10647 nel senso che lo straniero deve dimostrare di possedere una certa solidità e continuità nel possesso del requisito; questo non viene meno in caso di flessioni meramente transitorie e suscettibili di recupero in breve tempo, cfr. da ultimo, Cons. Stato, sez. III, 14 gennaio 2015, n. 60; idem, sez. I, n. 1791/2021 e 1959/20; TAR Lazio, sez. I ter, n. 6979/2021).
Dagli atti acquisiti nel corso del presente giudizio si evince al contrario che la situazione economica del richiedente non presentava caratteri di stabilità, in quanto, non solo è mancata la dimostrazione per gli anni 2014, 2015 e 2016 di redditi sufficienti rispetto ai parametri previsti per la concessione della cittadinanza (essendo rimasta a lungo disoccupato), ma è emersa la costante indisponibilità di risorse proprie sufficienti ad assicurare a sé e ai propri familiari il soddisfacimento dei bisogni primari: il ricorrente ha infatti usufruito di contributi pubblici dal 2001 al 2016 (a vario titolo, anche per la soluzione abitativa e per le rate di affitto) e di aiuti da parte di associazioni caritative, ha subito uno sfratto per morosità, goduto di servizi pubblici (mensa e scuolabus) senza provvedere a versare il dovuto corrispettivo, ecc. (v. rapporti Servizi sociali e Comune Caslino D’Erba, di cui agli allegati 4, 5 e 6 documenti Ministero dell’interno del 17 febbraio 2023).
Il quadro testé delineato depone a favore della correttezza del giudizio negativo formulato dalla p.a. in relazione alla condizione economico-finanziaria del richiedente, atteso che peraltro, alla luce del quadro normativo e giurisprudenziale sopradelineato, non può assumere rilevanza dirimente la capacità di autosostentamento relativa ad un limitato periodo di tempo, anche se più recente rispetto all’adozione del provvedimento, invocata dal ricorrente con riferimento all’avvio di un’attività commerciale nel 2017 e l’assunzione della moglie a partire nel 2018 con contratto di lavoro dipendente.
Gli elementi istruttori di cui sopra conclusivamente sono da considerarsi indicativi di una mancata integrazione del richiedente lo status, risultato altresì per un certo periodo non in regola con il permesso di soggiorno per non essersi presentato per il proseguo della pratica, dopo la presentazione in data 25 gennaio 2017 dell’istanza di rinnovo del permesso per lavoro autonomo (v. pareri Questura e prefettura di Catanzaro rispettivamente del 17 e 18 gennaio 2018), rilasciatogli poi il 19 giugno 2019, come si evince dall’istanza di prelievo del 6 settembre 2021.
Per cui neanche il secondo motivo di ricorso merita accoglimento anche in relazione ai vizi appena esaminati, con conseguente rigetto della domanda di annullamento del decreto del Ministero dell’interno di diniego della cittadinanza.
Assolutamente inammissibile, data la natura altamente discrezionale del potere esercitato, è infine la richiesta, formulata ai sensi dell’art. 34, comma 1, lett. c), cod. proc. amm., di condannare l’amministrazione al rilascio del provvedimento di concessione della cittadinanza italiana in favore del ricorrente (e comunque, tale pretesa risulta sostanzialmente infondata, avendo trovato conferma la bontà della valutazione compiuta dalla p.a. sulla mancanza in capo al ricorrente del necessario requisito reddituale).
In conclusione, il ricorso deve essere respinto perché infondato.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Quinta Bis), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge e segnatamente respinge le domande di:
- annullamento e/o disapplicazione della circolare prot. n. -OMISSIS- del 5 gennaio 2007 del Ministero dell’Interno;
- annullamento del decreto del 4 aprile 2018 del Ministro dell’Interno di rigetto della domanda di cittadinanza.
Dichiara inoltre inammissibile la richiesta di condanna ex art. 34, comma 1, lett. c), cod. proc. amm., del Ministero dell’Interno al rilascio del provvedimento di concessione della cittadinanza italiana ex art. 9, comma 1, lett. f), l. 5 febbraio 1992, n. 91 al ricorrente.
Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese di lite, che liquida in euro 1.500,00 (millecinquecento/00), oltre accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità.