È quanto hanno precisato le Sezioni Unite Civili con la pronuncia in commento. Nel caso di specie, è stata dichiarata l'inammissibilità del ricorso già paventata dalla proposta di definizione accelerata ex art. 380-bis c.p.c. disattesa dai ricorrenti.
Svolgimento del processo
1. – Con sentenza n.291del 2020, il Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia-Romagna, sede di Bologna, dichiarava inammissibile il ricorso proposto dalle società a r.l. SA. e S. avverso il provvedimento del 14 gennaio 2014, prot. n. 483, con cui il Comune di (omissis), rilevato lo svolgimento di attività di lavorazione di inerti da parte delle società in assenza di idoneo titolo abilitativo nonché in violazione del giudicato amministrativo formatosi in relazione alla sentenza dello stesso TAR n. 4453 del 2008, aveva ad esse ordinato di cessare tali attività, di sgomberare la relativa area occupata e di procedere alle opere di ripristino dei luoghi.
2. Con sentenza resa pubblica mediante deposito in segreteria il 22 aprile 2022, la Quarta Sezione del Consiglio di Stato ha rigettato l’appello interposto dalle due società.
Il Consiglio di Stato ha disatteso la tesi secondo cui la sentenza n. 3396-2014 del 28 luglio 2014, della Quinta Sezione del Consiglio di Stato, di improcedibilità dell’appello avverso la pronuncia del TAR n. 4453 del 2008, avrebbe accertato l’intervenuta cessazione della materia del contendere in ragione della natura satisfattiva, per le società appellanti, dell’accordo concluso in data 1° gennaio 2013 tra la Provincia di (omissis), i Comuni di (omissis) e di (omissis) e le Autorità di bacino per la riqualificazione di un tratto del fiume (omissis).
Il giudice amministrativo d’appello ha osservato che la precedente sentenza del Consiglio di Stato, lungi dall’entrare nel merito dell’accordo territoriale e della sua rilevanza al fine di dichiarare cessata fra le parti la materia del contendere, si era limitata a rilevare l’improcedibilità del gravame per sopravvenuta carenza di interesse delle società al ricorso.
La Quarta Sezione del Consiglio di Stato ha, quindi, rilevato che l’impugnata ordinanza di dismissione dell’impianto e di sgombero dell’area, emessa dal Comune di (omissis), costituisce atto meramente esecutivo del già esistente provvedimento di diniego di proroga all’attività estrattiva e, pertanto, contro di essa non erano proponibili le censure astrattamente addebitabili all’atto presupposto, attesa la formazione del giudicato di rigetto riveniente dalla sentenza n. 4453 del 2008 del TAR.
In ogni caso – ha osservato conclusivamente la Quarta Sezione – non vi è alcun elemento, sul piano logico o testuale, che consenta di attribuire all’accordo territoriale del 2013 la valenza di titolo legittimante alla permanenza dell’impianto.
3. Per la cassazione della sentenza del Consiglio di Stato, la s.r.l. SA. e la s.r.l. S. hanno proposto ricorso, con atto notificato il 13 giugno 2022, sulla base di un unico motivo.
Ha resistito, con controricorso, il Comune di (omissis).
4. – Proposta dalla Prima Presidente, essendo stata ravvisata l’inammissibilità dell’impugnazione per cassazione, la definizione accelerata del ricorso, ai sensi dell’art. 380-bis cod. proc. civ., la causa è stata fissata, per la decisione, in camera di consiglio, su istanza delle società ricorrenti.
5. – In prossimità della camera di consiglio il Pubblico ha depositato conclusioni scritte.
L’Ufficio del Procuratore Generale ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.
Ad avviso del Pubblico Ministero, si è di fronte alla prospettazione di un error in iudicando, rappresentato dall’asserita violazione del giudicato formatosi in relazione alla sentenza del TAR per l’EmiliaRomagna n. 4453 del 2008.
Tale censura esulerebbe dai confini del sindacato della Corte di cassazione, investita esclusivamente del compito di giudicare il superamento dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa.
6. – Le società ricorrenti e il Comune controricorrente hanno depositato memorie illustrative.
Motivi della decisione
1. – Con il motivo di ricorso, viene denunciatala violazione dei limiti esterni della giurisdizione, ai sensi dell’art. 360, primo comma, numeri 1 e 3, cod. proc. civ.
Le ricorrenti sostengono che dall’impianto motivazionale della sentenza impugnata, che si limiterebbe ad una semplice adesione alla tesi dell’amministrazione comunale, discenderebbe una sostanziale rimozione delle previsioni contenute nell’accordo territoriale del 2013, con conseguente sconfinamento nel merito amministrativo e contestuale superamento dei limiti esterni della giurisdizione.
Ad avviso delle ricorrenti, infatti, l’accordo territoriale stabilirebbe un percorso di dismissione concordato, fra il Comune di (omissis) e le parti interessate, con misure alternative, idoneo a sovrapporsi ad un eventuale giudicato precedente.
Inoltre, l’affermazione della pronuncia gravata, secondo cui la sentenza pronunciata dalla Quinta Sezione del Consiglio di Stato nel 2014 avrebbe determinato il passaggio in giudicato della precedente sentenza del TAR felsineo del 2008, sarebbe erronea, non essendosi di fronte ad una declaratoria di improcedibilità per vizi propri dell’atto di appello.
2. – Il motivo è inammissibile.
3. – Occorre premettere che le pronunce del Consiglio di Stato (e della Corte dei conti) sono escluse dal ricorso per cassazione per violazione di legge, contro di esse essendo deducibili, secondo l’assetto definito dalla Costituzione (art. 111), i soli motivi inerenti alla giurisdizione.
La nomofilachia esercitata dalla Corte di cassazione quale giudice del vizio di violazione di legge non si estende al Consiglio di Stato (né alla Corte dei conti).
Difatti, i due organi apicali della giurisdizione amministrativa e della giurisdizione contabile, in ragione della specificità delle relative giurisdizioni, si distinguono dagli altri giudici speciali.
I motivi inerenti alla giurisdizione – in relazione ai quali soltanto è ammesso il sindacato della Corte di cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti – vanno identificati con le ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione (che si verifica quando il giudice amministrativo o contabile affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa, ovvero, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che la materia non possa formare oggetto in assoluto di cognizione giurisdizionale) o di difetto relativo di giurisdizione (riscontrabile quando detto giudice abbia violato i limiti esterni della propria giurisdizione, pronunciandosi su materia attribuita alla giurisdizione ordinaria o ad altra giurisdizione speciale, ovvero negandola sull’erroneo presupposto che appartenga ad altri giudici) (Cass., Sez. Un., 4 febbraio 2021, n. 2605).
I motivi inerenti alla giurisdizione concernono il limite esterno della giurisdizione, vale a dire la spettanza del potere decisionale.
Nei confronti delle decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, l’esame da parte della Corte di cassazione non si estende al controllo del cattivo esercizio della giurisdizione: non coinvolgendo il limite interno della giurisdizione, il sindacato non può cadere sugli errores in iudicando o in procedendo (Cass., Sez. Un., 30 giugno 2023, n. 18539).
E’ naturale che qualsiasi erronea interpretazione o applicazione di norme ovvero qualsiasi vizio di attività processuale in cui il giudice possa incorrere nell’esercizio della funzione giurisdizionale, ove incida sull’esito della decisione, può essere letto in chiave di lesione della pienezza della tutela giurisdizionale cui ciascuna parte legittimamente aspira, perché la tutela si realizza compiutamente se il giudice interpreta ed applica in modo corretto le norme destinate a regolare il caso sottoposto al suo esame e se esamina e valuta tutti i punti essenziali della controversia.
Non per questo, però, ogni errore di giudizio o di attività processuale imputabile al giudice è qualificabile come eccesso di potere giurisdizionale assoggettabile al sindacato della Corte di cassazione, quale risulta delineato dall’art. 111, ottavo comma, Cost. e dagli artt. 362 cod. proc. civ. e 110 cod. proc. amm. Ne risulterebbe altrimenti del tutto obliterata la distinzione tra limiti interni ed esterni della giurisdizione e il sindacato di questa Corte sulle sentenze del giudice amministrativo o del giudice contabile verrebbe di fatto ad avere una latitudine non dissimile da quella che si esercita sui provvedimenti del giudice ordinario: ciò che la norma costituzionale e le disposizioni processuali dianzi richiamate non sembrano invece consentire (Cass., Sez. Un., 14 settembre 2020, n. 19085; Cass., Sez. Un., 13 gennaio 2023, n. 963).
La Corte costituzionale, nella sentenza n. 6 del 2018, ha sottolineato che la tesi del concetto di giurisdizione in senso dinamico, nella misura in cui riconduce ipotesi di errores in iudicando o in procedendo ai motivi inerenti alla giurisdizione, comporta una più o meno completa assimilazione dei due tipi di ricorso, ai sensi del settimo e dell’ottavo comma dell’art. 111 Cost., e si pone in contrasto con tale disposizione costituzionale e con l’assetto pluralistico delle giurisdizioni stabilito dalla Carta fondamentale che, appunto per questo, ha sottratto le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti al controllo nomofilattico della Corte di cassazione, stabilendo una riserva di nomofilachia in favore dei rispettivi organi di vertice delle due giurisdizioni speciali.
4. – Denunciando la violazione dei limiti esterni della giurisdizione, le ricorrenti censurano le valutazioni del Consiglio di Stato riguardanti la qualificazione di “giudicato” della precedente sentenza del TAR per l’Emilia-Romagna n. 4453 del 2008 e la valenza di titolo legittimante alla permanenza dell’impianto di frantumazione dell’accordo territoriale del 2013.
Sotto il primo profilo, la doglianza è articolata sulla premessa che l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse, pronunciata dalla Quinta Sezione del Consiglio di Stato, non avrebbe provocato il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, giacché il Consiglio di Stato avrebbe accertato l’intervenuta cessazione della materia del contendere in ragione della natura satisfattiva, per le società appellanti, dell’accordo territoriale del 2013. La sopravvenienza della carenza di interesse, dovuta ad un atto parzialmente satisfattivo dell’interesse portato in causa, non sarebbe condizionata al consenso o all’adesione dell’amministrazione che tale atto aveva deliberato e sottoscritto.
Sotto il secondo profilo, la censura è prospettata sul rilievo che l’accordo territoriale si sarebbe sovrapposto a qualsiasi precedente eventuale giudicato (“comunque non predicabile nella fattispecie”) e che la sentenza impugnata, rimuovendo in toto detto accordo, avrebbe sconfinato nel merito amministrativo. Si fa notare anche, nella memoria, che l’accordo territoriale, se non legittimava a priori la permanenza in sito dell’impianto, tuttavia garantiva la possibilità di un percorso concordato di conservazione ovvero di dismissione con garanzie processuali e sostanziali (esproprio formale).
5. – La denunciata errata interpretazione della portata della sentenza della Quinta Sezione del Consiglio di Stato non integra alcuna violazione dei limiti esterni della giurisdizione.
La censura, infatti, contesta la ricostruzione del significato attribuito alla precedente sentenza del giudice amministrativo di appello: la quale, ad avviso delle ricorrenti, costituirebbe non una pronuncia in rito, destinata a lasciare la vicenda definitivamente disciplinata dalla sentenza del TAR del 2008 che impediva ogni attività in loco diversa da quella della riqualificazione dei luoghi, ma una pronuncia di merito, idonea a formare giudicato sostanziale e, dunque, anche a condizionare il precedente pronunciato.
L’interpretazione del giudicato esterno, sotto tutti i possibili profili dalla sua omessa interpretazione, alla valutazione del suo contenuto, nonché dei suoi presupposti, ed alla sua efficacia, con i conseguenti limiti riguarda la correttezza dell'esercizio del potere giurisdizionale del giudice amministrativo.
L’articolata doglianza prospetta, sostanzialmente, una violazione di legge commessa da quest’ultimo, sicché resta estranea al controllo ed al superamento dei limiti esterni della giurisdizione, con conseguente inammissibilità del relativo motivo.
6. – Analogamente, non integra la fattispecie dello sconfinamento nella sfera del merito amministrativo la statuizione con cui il Consiglio di Stato ha escluso la sussistenza di elementi logici o testuali deponenti nel senso di attribuire all’accordo territoriale del 2013 la valenza di titolo legittimante alla permanenza dell’impianto.
Infatti, l’eccesso di potere per sconfinamento nella sfera del merito amministrativo è configurabile soltanto quando l’indagine svolta dal giudice amministrativo abbia ecceduto i limiti del riscontro di legittimità del provvedimento impugnato, rivelandosi strumentale ad una diretta e concreta valutazione dell’opportunità e della convenienza dell’atto, ovvero quando la decisione finale esprima la volontà dell’organo giudicante di sostituirsi a quella dell’amministrazione, attraverso un sindacato di merito, che si estrinsechi in una pronuncia avente il contenuto sostanziale e l’esecutorietà propria del provvedimento sostituito (Cass., Sez. Un., 28 luglio 2021, n. 21651; Cass., Sez. Un., 22 settembre 2023, n. 27201).
Nulla di tutto questo è configurabile nella specie.
Il Consiglio di Stato non ha affatto rimosso l’accordo territoriale, ma si è limitato ad interpretarlo, non in quanto oggetto di specifica ed autonoma impugnativa, ma per decidere su un motivo di appello con il quale si faceva rilevare che la pronuncia della Quinta Sezione del Consiglio di Stato sarebbe correlata alla modificazione del quadro giuridico riconducibile all’accordo territoriale del 2013, il quale avrebbe determinato, in favore delle ricorrenti, la cessazione della materia del contendere.
Il Consiglio di Stato, pertanto, non si è sostituito all’amministrazione procedente: non ha né effettuato un sindacato di merito, né operato una valutazione sul piano della convenienza e della opportunità dell’accordo. Lo ha, semplicemente, interpretato, osservando che esso si è limitato a prevedere la possibilità di partecipazione della società SA.ad un successivo accordo di programma finalizzato alla riqualificazione dell’area, destinata alla realizzazione di un parco fluviale intercomunale.
In tal modo il Consiglio di Stato ha svolto una prerogativa tipica della propria funzione giurisdizionale.
Il fatto, poi, che detto accordo sia stato interpretato in maniera diversa dalla tesi sostenuta da una delle parti, può, al più, rivelare un, asserito, error in iudicando che il giudice speciale avrebbe commesso nell’esercizio della sua giurisdizione, insindacabile con il rimedio proposto.
8. – Le spese, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
9. – Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è dichiarato inammissibile, ricorrono i presupposti processuali per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, che ha aggiunto il comma 1-quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. n. 115 del 2002 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.
10. – La decisione da parte del Collegio è conforme alla proposta di definizione accelerata formulata ai sensi dell’art. 380-bis cod. proc. civ.
La conformità è integrale: riguarda non solo l’esito del ricorso, inteso come dispositivo o formula terminativa della deliberazione, ma anche le ragioni che tale esito sostengono.
Anche nella proposta di definizione accelerata della Prima Presidente, infatti, l’inammissibilità del ricorso è prefigurata sul rilievo che tutti e tre i motivi di ricorso si risolvono nella prospettazione di errori in iudicando incensurabili ai sensi dell’art. 111, ottavo comma, Cost., in quanto inerenti ai limiti interni della giurisdizione amministrativa.
11. – Avendo la Corte definito il giudizio in conformità alla proposta ex art. 380-bis cod. proc. civ., trova applicazione la previsione di cui all’art. 96, terzo e quarto comma, cod. proc. civ., come testualmente previsto dal citato art. 380-bis, ultimo comma ("Se entro il termine indicato al secondo comma la parte chiede la decisione, la Corte procede ai sensi dell'articolo 380-bis.1 e quando definisce il giudizio in conformità alla proposta applica l'articolo 96, terzo e quarto comma").
L'art. 96, terzo comma, a sua volta, così dispone: "In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell'articolo 91, il giudice, anche d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata". Il quarto comma aggiunge: "Nei casi previsti dal primo, secondo e terzo comma, il giudice condanna altresì la parte al pagamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma di denaro non inferiore ad euro 500 e non superiore ad euro 5.000".
Trattasi di una novità normativa (introdotta dal d.lgs. n. 149 del 2022) che contiene, nei casi di conformità tra proposta e decisione finale, una valutazione legale tipica, ad opera del legislatore delegato, della sussistenza dei presupposti per la condanna al pagamento di una somma equitativamente determinata a favore della controparte (art. 96, terzo comma) e di una ulteriore somma di denaro non inferiore ad euro 500 e non superiore ad euro 5.000 (art. 96, quarto comma, ove, appunto il legislatore usa la locuzione "altresì").
In tal modo, risulta codificata un’ipotesi di abuso del processo, peraltro già immanente nel sistema processuale (da iscrivere nel generale istituto del divieto di lite temeraria nel sistema processuale). Non attenersi ad una valutazione del Presidente che poi trovi conferma nella decisione finale lascia certamente presumere una responsabilità aggravata.
Quanto alla disciplina intertemporale sull'applicazione ai giudizi di cassazione delle disposizioni di cui all'art. 96, terzo e quarto comma, per effetto del rinvio operato dall'art. 380-bis, rileva la Corte che la predetta normativa è immediatamente applicabile a seguito dell'adozione di una decisione conforme alla proposta, sebbene per giudizi già pendenti alla data del 28 febbraio 2023 (Cass., Sez. Un., 27 settembre 2023, n. 27433).
Ed infatti la norma di cui all'art. 380-bis cod. proc. civ. è destinata a trovare applicazione anche nei giudizi introdotti con ricorso già notificato alla data del 1° gennaio 2023 e per i quali non è stata ancora ficato alla data del 1° gennaio 2023 e per i quali non è stata ancora fissata udienza o adunanza in camera di consiglio (come, appunto, quello in esame).
Una diversa interpretazione (volta ad applicare la normativa di cui si discute ai giudizi iniziati in data successiva al 28 febbraio 2023) finirebbe, a ben vedere, per depotenziare fortemente la funzione stessa della norma e contrastare con la sua ratio, che mira ad apprestare uno strumento di agevolazione della definizione delle pendenze in sede di legittimità, anche tramite l'individuazione di strumenti dissuasivi di condotte rivelatesi ex post prive di giustificazione, e quindi idonee a concretare ipotesi di abuso del diritto di difesa.
Sottrarre proprio la condanna al pagamento di una somma in favore della controparte e di una ulteriore somma in favore della Cassa delle ammende al corredo di incentivi e di fattori di dissuasione contenuti nella norma in esame (che sono finalizzati a rimarcare limitatezza della risorsa giustizia, essendo giustificato che colui che abbia contribuito a dissiparla, nonostante una prima delibazione negativa, sostenga un costo aggiuntivo), verrebbe a limitare fortemente la portata applicativa della norma, che dovrebbe attendere verosimilmente diversi anni per vedere riconosciuta la sua piena efficacia, in evidente contrasto con il chiaro intento del legislatore di offrire nell'immediato uno strumento di agevole e rapida definizione dei ricorsi che si palesino inammissibili, improcedibili ovvero manifestamente infondati, e consentendo alla Corte di cassazione di concentrarsi su quelli che invece si presentino meritevoli di un intervento nomofilattico o che, all'inverso, meritino accoglimento, o comunque un attento esame.
Sulla scorta di quanto esposto, ed in assenza di indici che possano far propendere per una diversa applicazione della norma, la parte ricorrente va condannata al pagamento della somma di euro 5.000 (valutata equitativamente) in favore della controparte e di una ulteriore somma di euro 2.500 in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna le ricorrenti in solido al pagamento, in favore del Comune controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.000, oltre euro 200 per esborsi ed oltre accessori di legge nella misura del 15%.
Condanna le ricorrenti al pagamento della somma di euro 5.000 in favore del Comune controricorrente e di una ulteriore somma di euro 2.500 in favore della Cassa delle ammende.
Dichiara che ricorrono i presupposti processuali per dare atto della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.